Il prossimo agosto in vacanza su Marte

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    La domanda più difficile non è «possiamo andare su Marte?», ma «Marte ne vale la pena?». Il preventivo di massima per una missione umana su Marte equivale all’incirca a quanto la guerra in Iraq ci è costata fino a oggi: 500 miliardi di dollari.

    È altrettanto difficile da giustificare? Quale utilità avrà inviare uomini su Marte, soprattutto quando lander robotizzati possono effettuare un sacco di esperimenti scientifici altrettanto bene, se non così rapidamente?

    saggiatore

    Pubblicazione in collaborazione con la casa editrice Il Saggiatore

    Potrei ripetere a pappagallo le informazioni ricevute dall’ufficio pubbliche relazioni della Nasa e sputare fuori una lunga lista di prodotti e tecnologie generati dalle innovazioni aerospaziali nel corso dei decenni. Mi rimetto invece ai sentimenti di Benjamin Franklin. In occasione dei primi voli con equipaggio della storia – nel 1780, a bordo degli aerostati dei fratelli Montgolfier – qualcuno chiese allo scienziato quale utilità vedesse in tale frivolezza. Lui rispose: «Che utilità ha un bambino appena nato?».

    Raccogliere i fondi potrebbe non essere così difficile. Se le nazioni interessate decidessero di coinvolgere i rispettivi colossi dell’intrattenimento, potrebbero ottenere un’impressionante quantità di finanziamenti. Quanto più si legge riguardo alle missioni su Marte, tanto più ci si rende conto che saranno l’ultima frontiera in fatto di reality show.

    Mi trovavo a una festa il giorno in cui il lander robotizzato Phoenix è atterrato su Marte. Ho chiesto al padrone di casa, Chris, se avesse un computer da lasciarmi usare per assistere alla diretta Nasa. In un primo momento eravamo solo io e Chris a guardare. Quando Phoenix ebbe finito di farsi largo a fatica attraverso l’atmosfera marziana e stava per aprire il paracadute, metà degli ospiti era salita di sopra e si accalcava intorno al computer di Chris.

    Non era nemmeno Phoenix ciò che stavamo guardando. Le immagini non erano ancora arrivate, dato che occorrono circa 20 minuti perché un segnale copra la distanza tra Marte e la Terra. La telecamera era puntata presso il centro di controllo del Jet Propulsion Laboratory: una stanza affollata di ingegneri e manager in piedi, persone che avevano passato anni a lavorare su scudi termici, sistemi di paracadute e propulsori, e che in questa ultima ora avrebbero potuto vedere i propri sforzi fallire in cento modi diversi, ognuno dei quali previsto grazie ad hardware di backup e software di emergenza.

    Un uomo fissava il computer con le dita di entrambe le mani incrociate. Quando arrivò il segnale dell’atterraggio, tutti schizzarono i piedi con un gran baccano.

    Gli ingegneri si scambiarono abbracci da orsi, talmente entusiasti da incurvarsi a vicenda le montature degli occhiali. Qualcuno cominciò a far circolare dei sigari. Anche tutti noi urlammo, alcuni con un po’ di nodo alla gola.

    L’impresa compiuta da questi uomini e queste donne destava ammirazione. Avevano fatto volare un delicato strumento scientifico per più di 640 milioni di km fino a Marte, dov’era atterrato con la delicatezza di un bambino, esattamente nel punto in cui lo avevano indirizzato.

    Viviamo in una cultura in cui le persone vivono sempre di più attraverso simulazioni. Viaggiamo grazie alla tecnologia satellitare, stringiamo rapporti sociali attraverso connessioni tra computer. Possiamo ammirare il Mare della Tranquillità su Google Moon e visitare il Taj Mahal con Street View.

    In Giappone alcuni appassionati di anime avanzano petizioni al governo per ottenere il diritto di sposarsi legalmente con il personaggio di un fumetto. La raccolta di fondi è iniziata in un resort da 1,6 miliardi di dollari sul ciglio di un cratere marziano simulato nel deserto intorno a Las Vegas (non si può simulare la gravità marziana, perciò gli stivali delle tute spaziali rimbalzeranno un po’ di più). Nessuno esce più a giocare.

    La simulazione sta diventando realtà.

    Tutto questo, però, non assomiglia per nulla alla realtà. Chiedete a un laureato in medicina che ha trascorso un anno a dissezionare un tendine del corpo umano, ghiandola dopo ghiandola, nervo dopo nervo, se sia paragonabile imparare l’anatomia con una simulazione al computer.

    Chiedete a un astronauta se partecipare a una simulazione spaziale sia come trovarsi nello spazio. Cosa c’è di diverso? Il sudore, il rischio, l’incertezza, il disagio. Ma anche la soggezione e l’orgoglio.

    Un giorno, al Johnson Space Center, mi sono incontrata con Mike Zolensky, che alla Nasa copre il ruolo di curatore della raccolta di polvere cosmica e fa parte dei conservatori della collezione di meteoriti.

    Ogni tanto, un frammento di asteroide urta Marte con tale violenza che l’impatto scaglia pezzettini di superficie marziana nello spazio, dove continuano a viaggiare finché non sono attirati dalla forza gravitazionale di un altro pianeta.

    Di tanto in tanto quel pianeta è la Terra. Zolensky ha aperto una cassa, ne ha estratto un meteorite marziano pesante quanto una palla da bowling e me lo ha messo tra le mani. Sono rimasta lì ad ammirarne la durezza, la pesantezza, la realtà, con un’espressione in volto che sono certa di non avere mai avuto prima.

    Il meteorite non era bello né di aspetto esotico. Datemi un pezzo di asfalto e un po’ di lucido da scarpe e posso fabbricarvi un finto meteorite marziano. Ciò che non riuscirei proprio a trasmettervi è la sensazione di sorreggere una zolla marziana di 10 kg.

    Per me diventa sempre più difficile credere nella nobiltà dello spirito umano. Guerra, fanatismo, avidità, centri commerciali, narcisismo. Eppure colgo una curiosa nobiltà in una specie capace di sborsare enormi somme di denaro senza riscontri pratici immediati, spinta dal semplice desiderio di unire gli sforzi e dire: «Scommetto che possiamo farcela».

    Sì, i soldi potrebbero essere usati meglio sulla Terra. Ma è davvero così? Da quando il denaro risparmiato grazie ai prestiti negati dal governo è stato speso per l’istruzione e la ricerca sul cancro? Va sempre sprecato. Sperperiamone un po’ su Marte. Usciamo a giocare.

    Note