La sospensione della funzione del Master (simbolico) è la caratteristica cruciale del Reale il cui profilo si staglia all’orizzonte dell’universo del cyberspazio: il momento dell’implosione, quando l’umanità raggiungerà il limite che è impossibile oltrepassare; il momento in cui le coordinate del nostro mondo di vita sociale si dissolveranno. In quel momento le distanze verranno sospese (io sarò in grado di comunicare istantaneamente in videoconferenza con qualsiasi posto al mondo); tutte le informazioni, dai testi alla musica alle immagini, saranno immediatamente disponibili sul mio interfaccia. Tuttavia, l’inverso di questa sospensione della distanza che separa me dal lontano straniero è che, a causa della graduale scomparsa del contatto con i «reali» altri fisici, un prossimo non sarà più un prossimo, dal momento che lui o lei sarà progressivamente rimpiazzato da uno spettro sullo schermo; la disponibilità generale indurrà un’insostenibile claustrofobia; l’eccesso di scelta sarà esperito come impossibilità di scegliere; la comunità universale della partecipazione diretta escluderà tanto più energicamente coloro a cui è impedito parteciparvi.
La visione di un cyberspazio aperto a un futuro di possibilità senza fine, di mutamenti illimitati, di nuovi organi sessuali multipli, e così via, nasconde il suo esatto opposto: l’imposizione senza precedenti di una chiusura radicale. Questo, dunque, è il Reale che ci attende, e tutti i tentativi di simbolizzare questo Reale, da quelli utopistici (le celebrazioni New Age o «decostruzioniste» del potenziale liberatorio del cyberspazio) alle più fosche distopie (la prospettiva del controllo totale da parte di una rete computerizzata semidivina…), sono solo questo: altrettanti tentativi di evitare la vera «fine della storia», il paradosso di un infinito di gran lunga più soffocante di qualsiasi altra restrizione effettiva.
O – per dirla in altro modo – la virtualizzazione cancella la distanza tra il mio prossimo e un lontano straniero, in quanto sospende la presenza dell’Altro entro il compatto peso del Reale: vicini e stranieri sono tutti uguali nella loro spettrale presenza sullo schermo. Sarebbe a dire: perché il comandamento cristiano «Ama il prossimo tuo come te stesso» era così problematico per Freud? La vicinanza dell’Altro che rende un prossimo un prossimo è quella della jouissance: quando la presenza dell’Altro diventa insostenibile, soffocante, significa che esperiamo il suo modo di jouissance come troppo intrusivo. E cos’è il razzismo «postmoderno» dei giorni nostri se non una reazione violenta a questa virtualizzazione dell’Altro, un ritorno dell’esperienza del prossimo nella sua (o loro) intollerabile presenza traumatica? Il tratto che disturba il razzista nel suo Altro (il modo in cui sorridono, l’odore del loro cibo…) è così precisamente il piccolo pezzo di Reale che testimonia la loro presenza al di là dell’ordine simbolico.
Così, per tornare al vicolo cieco implicito nell’atto di riempire i vuoti di una narrazione classica (Star Trek, Amleto, Gli ambasciatori…): come si è spesso detto, la Realtà Virtuale è una sorta di orwelliano termine inappropriato. Ciò che viene minacciata nel suo sorgere è la dimensione stessa della virtualità consustanziale all’ordine simbolico: l’universo della Realtà Virtuale tende a portare alla luce, a realizzare sulla superficie testuale l’immaginario soggiacente – cioè, a riempire il divario che separa la struttura simbolica superficiale dalla sua fantasia sotterranea, che è solo supposta o allusa in un testo classico (cosa accade quando la porta si chiude dietro i due eroi principali di Star Trek? Cosa fa da solo nella sua camera d’albergo Strether in Gli ambasciatori?).
La consistenza del testo classico si basa sul delicato equilibrio di ciò che viene detto e di ciò che è puramente implicito – se «sveliamo tutto», l’effetto non è semplicemente quello della «verità». Perché? Dobbiamo fare attenzione a ciò che va perso quando questi vuoti del testo vengono riempiti – ciò che si perde è la presenza reale dell’Altro. Qui sta il paradosso: l’oppressiva e allo stesso tempo elusiva presenza dell’Altro consiste proprio nelle mancanze (nei buchi) della struttura simbolica. In questo senso preciso il luogo comune secondo il quale il problema con il cyberspazio è che la realtà viene virtualizzata, e che invece della presenza in carne e ossa dell’Altro noi abbiamo un’apparizione digitalizzata spettrale, non afferra il punto: quel che causa la «perdita di realtà» nel cyberspazio non è la sua vacuità (il fatto che è privo della pienezza della presenza reale) ma, al contrario, proprio la sua pienezza eccessiva (l’abolizione potenziale della dimensione della virtualità simbolica). Una delle possibili reazioni all’eccessivo riempimento dei vuoti nel cyberspazio non è forse perciò un’anoressia informatica, il disperato rifiuto di accettare informazioni, in quanto esse occludono la presenza del Reale?
Siamo perciò ben lontani dal lamentare la perdita di contatto con un «reale» altro in carne e ossa in un cyberspazio in cui tutto ciò che incontriamo sono fantasmi digitali: la nostra posizione, piuttosto, è che il cyberspazio non è abbastanza spettrale. Sarebbe a dire: lo status di ciò che abbiamo chiamato la «reale presenza dell’Altro» è in se stesso spettrale: il piccolo pezzo di Reale per mezzo del quale il razzista identifica la jouissance dell’Altro è una sorta di garanzia minima dello spettro dell’Altro che minaccia di inghiottirci o di distruggere il nostro «modo di vivere». Per fare un altro esempio: nel «sesso telefonico», proprio la limitatezza della fascia comunicativa (il nostro partner è accessibile per noi solo nella forma di una voce disincarnata e, in quanto tale, onnipervasiva) eleva l’Altro, il nostro partner, a livello di un’entità spettrale la cui voce penetra direttamente dentro di noi. Quando (e qualora) incontriamo infine il nostro partner del sesso telefonico nella vita reale, l’effetto è spesso esattamente quello che Michel Chion ha chiamato désacousmatisation: l’Altro perde la sua qualità spettrale, si trasforma in un comune essere mondano nei confronti del quale possiamo mantenere una normale distanza. In breve, passiamo dal Reale spettrale alla realtà, dall’oscena presenza eterea dell’Altro all’Altro che è semplicemente oggetto di rappresentazione.
Una delle tendenze nella teorizzazione del cyberspazio è quella di concepire il cybersesso come l’ultimo fenomeno della catena il cui anello iniziale è Kierkegaard e la sua relazione con Regina: proprio come Kierkegaard, che aveva rifiutato la vicinanza effettiva dell’Altro (la donna amata) e aveva difeso la solitudine come sola autentica modalità di relazione nei confronti dell’oggetto amato, così anche il cybersesso implica l’annullamento dell’oggetto realmente vivente e trae energia erotica proprio da questo annullamento – il momento in cui incontro il mio (o i miei) partner del cybersesso nella vita reale è quello della desublimazione, è il momento del ritorno alla volgare «realtà». Per quanto questo parallelismo suoni convincente, esso è, invece, profondamente fuorviante: lo status del mio partner sessuale nel cyberspazio non è quello di Regina, la donna di Kierkegaard. Regina era il vuoto a cui Kierkegaard indirizzava le sue parole, una sorta di «vacuità» intessuta della storia delle sue parole, mentre il mio partner sessuale del cyberspazio è, al contrario, più‐che‐presente, mi bombarda con il flusso torrenziale di immagini e dichiarazioni esplicite delle sue fantasie più segrete.
O, per metterla in altro modo: Regina di Kierkegaard è il taglio del Reale, l’ostacolo traumatico che di volta in volta sconvolge l’andamento regolare della mia immaginazione erotica autoappagantesi, mentre il cyberspazio presenta l’esatto opposto, un libero flusso di immagini e messaggi – quando vi sono immerso, torno, per così dire, a una relazione simbiotica con l’Altro, nella quale un diluvio di apparenze sembra abolire la dimensione del Reale.
In una recente intervista, Bill Gates ha celebrato il cyber‐spazio dicendo che apre la prospettiva di ciò che egli chiama «capitalismo senza attriti» – questa espressione contiene perfettamente l’immaginario sociale che giace sotto l’ideologia del capitalismo nell’era del cyberspazio: la fantasia di un mezzo di scambio totalmente trasparente, etereo, nel quale svanisca anche l’ultima traccia di inerzia materiale. Il punto fondamentale da non perdere di vista qui è che l’«attrito» di cui ci libereremmo nella fantasia del «capitalismo senza attriti» non si riferisce solo alla realtà degli ostacoli materiali, di cui patisce ogni processo di scambio, ma, al di là di tutto, al Reale dei traumatici antagonismi sociali, relazioni di potere, e così via, che contrassegnano lo spazio degli scambi sociali con una tendenza patologica.
Nei suoi Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (i Grundrisse), Marx ha messo in rilievo come proprio il meccanismo materiale di un luogo di produzione industriale del XIX secolo dia materialmente corpo alla relazione di dominio capitalista (il lavoratore come mera appendice subordinata alla macchina che appartiene al capitalista); mutatis mutandis, lo stesso funziona anche per il cyberspazio: nelle condizioni sociali del tardo capitalismo, la materialità stessa del cyberspazio genera automaticamente l’illusorio spazio astratto di uno scambio «senza attriti» nel quale viene cancellata la particolarità della posizione sociale di chi vi partecipa.
La via più facile per individuare la serie di relazioni sociali che surdeterminano il modo di operare del cyberspazio è quella di concentrarsi sulla «ideologia spontanea del cyberspazio» predominante, il cosiddetto cyberevoluzionismo che fa affidamento sull’idea di cyberspazio (o World Wide Web) come organismo «naturale» autoevolventesi. È fondamentale qui il confondersi della distinzione tra «cultura» e «natura»: l’inverso della «naturalizzazione della cultura» (mercato, società ecc., come organismi viventi) è la «culturalizzazione della natura» (la vita stessa viene concepita come una serie di cose che si autoriproducono sotto forma di informazioni – «i geni sono memi»).
Questa nuova idea di Vita è dunque neutrale rispetto alla distinzione tra processi naturali e culturali o «artificiali» – sia la Terra (come Gaia) sia il mercato globale appaiono come enormi sistemi viventi autoregolantisi la cui struttura di base si definisce nei termini di un processo di codificazione e decodificazione, di passaggio di informazioni, e così via. Il riferimento al World Wide Web come a un organismo vivente è spesso evocato in contesti che potrebbero sembrare emancipanti: per esempio, contro la censura di stato in Internet. Questa stessa demonizzazione dello Stato, tuttavia, è del tutto ambigua, dal momento che viene fatta propria soprattutto dal discorso populista di destra e/o dal liberismo di mercato: i suoi obiettivi principali sono gli interventi statali che cercano di mantenere una sorta di minimo equilibrio sociale e di sicurezza – il titolo del libro di Michael Rothschild (Bioeconomics: e Inevitability of Capitalism) è qui significativo. Così, mentre gli ideologi del cyberspazio possono sognare un nuovo livello di evoluzione nel quale non interagiremo più meccanicamente con degli individui «cartesiani», nel quale ogni «persona» rescinderà il proprio legame sostanziale con il proprio corpo individuale e concepirà se stessa come parte della nuova Mente olistica che vive e agisce attraverso di loro, ciò che va a sfumare in una tale «naturalizzazione» diretta del World Wide Web o del mercato è la serie di relazioni di potere – di decisioni politiche, di condizioni istituzionali – solo entro le quali «organismi» come Internet (o il mercato o il capitalismo…) possono prosperare.