Social vibes: contro l’egemonia della trama nella narrazione

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    I modi di raccontare una storia sono praticamente infiniti, ma c’è solo un modo di non raccontarla: eliminare la trama.

    Dalla narrazione di un brand al soggetto di un film o di una serie, è l’egemonia della trama che solitamente cattura la nostra attenzione.

    Oggi però, le intelaiature che tenevano in piedi le storie di fiction o non-fiction, sembrano essersi svuotate di svolte di destino ed epifanie, quasi che il consumatore (o il lettore/spettatore) avesse già metabolizzato e sviluppato una forma di resistenza ai colpi di scena, necessitando costantemente di essere rimpinzato e “solleticato” ad intermittenze ormai brevissime.

    Il meccanismo di attenzione/distrazione che caratterizza la fruizione dei contenuti online ha forzatamente accelerato la distruzione del concetto classico di trama, che nelle piattaforme streaming appare una rincorsa iperattiva a chi la fa più grossa, a chi fa più rumore. 

    Poco importa se la trama è quella della pubblicità della nuova ibrida teutonica o di un editoriale, il problema è che per la narrazione “ufficiale” la partita con i comunicatori della rete è già persa in partenza. 

    Banche, case automobilistiche, brand di moda, si litigano la comunicazione aziendale selvaggia di youtuber e tiktoker perché mediamente la poca attenzione rimasta (venduta a prezzi sempre più alti) è più facile che sia catturata e intrappolata da questa nuova rete comunicativa.

    In termini prettamente finanziari la loro comunicazione vale di più. 

    Le principali piattaforme digitali sembrano aver capito molto bene questo stratagemma: Amazon, in un processo di mimetizzazione con i selvaggi della rete, ha iniziato da un anno a questa parte, la corsa all’oro dei documentari sugli influencer, trapper o simili e ancora programmi che in qualche modo li coinvolgano (non è un caso che LOL chi ride è fuori – è il titolo più visto su Amazon Prime video Italia, ed è un format unscripted cioè senza trama, i cui attori e comici della tv o della rete si mischiano e fanno del caos, dell’anarchia delle parti, e dell’irripetibilità delle battute una delle parti forti del format). 

    Netflix che aveva già nel proprio DNA il cosiddetto binge watching, cioè la visione a flusso ininterrotto di serie e video a ripetizione, ha in realtà contrastato solo in parte il fenomeno, degenerato con lo scrolling bulimico di video targettizzati su ciascun utente dall’algoritmo di Tik Tok; curioso è l’utilizzo che stanno testando di un nuovo software supportato dall’analisi dei big data  che dovrebbe aiutare i content designer, language manager, ma anche ingegneri e sceneggiatori,  nello sviluppo semi automatico di copy. In pratica grazie ad una fase di A/B testing si elaborano 4 o 5 cinque micro-copy o micro testi di prova che  si testano su un pubblico target. Nell’anarchia delle voci, dei video e dei suoni, gli sviluppatori di Netflix teorizzano che anche una singola parola, inserita in un determinato contesto,  con un certo tono e stile, può comportare una variazione di engagement, di riposta degli utenti. L’ipotesi è che, in un panorama così sopito e prevedibile, gli sviluppatori riescano a prevedere cosa scrivere (magari, volendo essere un po’ cyberpunk, anche ad automatizzare cosa scrivere) semplicemente stabilendo un luogo e alcune semplici parametri. Ah, il software si chiama “Shakespeare”.  

    Le piattaforme quindi, hanno ben chiare le dinamiche dell’intrattenimento online e del costante dialogo che si deve avere verso tutti quegli utenti che mentre fruiscono l’opera cercano anche il modo di intervenire attivamente, commentare, ripostare meme, votare.

    Stiamo diventando consumatori di infinte micro-narrazioni che non tendono a nulla dalla durata potenzialmente infinita.

    Siamo oltre le trame quindi, e forse anche oltre le storie. Anche le narrazioni ufficiali sembrano andare verso uno sfilacciamento della trama, sicuramente verso un loro depotenziamento, eliminandola come in LoL o riducendola ad un alternarsi algoritmico di colpi di scena come in Netflix.

    L’effetto di questi nuovi modi della rete di “non raccontare” è una infinita non chiusura di fili narrativi. Le linee narrative non hanno più durata, stiamo diventando consumatori di infinte micro-narrazioni che non tendono a nulla, prive di colpi di scena e risvolti di trama, dalla durata potenzialmente infinita.

    C’è sempre una potenziale nuova micro-narrazione. 

    La nuove storie della rete, le social vibes, sono brandelli comunicativi incompleti, moncherini narrativi che non conducono a nessuna epifania e svolta di destino o finale; semplicemente ci seducono.

    Questo magma informativo della rete confuso ma pulsante, forma come una gigantesca serie Tv fatta delle nostre stories, foto e post su facebook, articoli di blogger, titoli catchy di tesate ufficiali, dirette, video di tiktoker, video di immagini forti. 

    Una sorta di Beautiful che non finisce mai; una trama infinita in cui si susseguono un attore dietro l’altro alternando tradimenti, uccisioni e sfasci di famiglie.

    Forse siamo esauriti dall’individualità espressa e giudicata a colpi di like, e non abbiamo più voglia neanche di indagare altre individualità. 

    O forse, come dice Walter Siti in Contro l’impegno : «non c’è più il silenzio necessario per essere parlati». 

    In questo caos, non vogliamo più fare parte della schema principale della comunicazione; non vogliamo essere né l’emittente del messaggio né il ricevente, ma semplicemente essere uno spettatore esterno di scambi comunicativi, senza il bisogno di ascoltare le parole come in una canzone in una lingua che non si conosce, ma godendo solo di piccole vibrazioni; come recita un famoso mantra della rete: “no thoughts, just vibes”

     

    Immagine di copertina: ph. Jakob Owens da Unsplash

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