Cronache di femminismo e antifemminsimo nell’arena retorica di Sanremo

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    La settantesima edizione di Sanremo è un’esperienza di ecologia mentale. Uno spaccato del modo in cui il tema della parità di genere cerca di uscire dal confine di una riflessione di nicchia per adattarsi all’ambiente, fondamentalmente ostile, del dibattito pubblico italiano. Le idee sono come forme di vita. E la forma di vita della parità si trova in un momento critico.

    Un passaggio delicato, che interessa l’evoluzione di tutti i grandi temi sociali. Sul punto di ricevere nuova forza e visibilità in una delle trasmissioni televisive più seguite dagli italiani, la parità di genere deve affrontare una crisi delle condizioni del suo discorso: da un lato, deve resistere alla banalizzazione da parte di retoriche conservatrici incidendo sui modelli culturali mainstream; dall’altro, è costretta ad adattarsi al nuovo ambiente comunicativo, facendo evolvere i suoi obiettivi strategici e le sue strategie di diffusione. Pena, la sua riduzione a un guscio vuoto o la sua scomparsa dalla sfera televisiva.

    Per questo, quando guardiamo Sanremo, non possiamo limitarci a constatare se e quanto in questa edizione sia stato sessista. Ovviamente lo è stato, ma bisogna riconoscere che lo è stato diversamente. Bisogna capire come è stato sessista ora che la parità è un tema. Il riconoscimento di questa discontinuità sullo sfondo delle numerose continuità è un’ottima occasione di riflettere non solo sulle retoriche antifemministe, ma anche sul rinnovamento e l’espansione delle retoriche del femminismo nel dibattito pubblico italiano.

    L’impulso alla trasformazione del discorso sanremese è stato dato dalle reazioni alla conferenza stampa di Amadeus del 14 gennaio.

    In questa occasione, il presentatore non ha solo negato alle sue undici co-conduttrici al suo fianco la facoltà di autopresentarsi, esibendosi in un soliloquio di quasi mezz’ora; né si è limitato a valorizzare le loro qualità servendosi quasi esclusivamente di due aggettivi (e alcune notevoli varianti derivate dal suffisso “-issima” e dall’avverbio “molto”), “bella” e “simpatica”, sottolineandone il carattere “decorativo”; ma ha anche esplicitato, riferendosi in particolare a Francesca Sofia Novello, il loro carattere “accessorio”, dicendo di avere scelto la modella per aver dato prova di meritoria modestia nel sapere stare “un passo indietro” al suo celebre fidanzato, Valentino Rossi.

    Sarebbe bastato che Amadeus lasciasse planare il dubbio che le sue collaboratrici potessero avere altre qualità oltre a bellezza, simpatia e contrita umiltà per evitare una reazione così immediata; ma non ha concesso questo lusso. L’antico gesto retorico dell’exemplum serve precisamente a indicare un caso che ha, se non tutte, almeno le caratteristiche più rappresentative del paradigma. E il “paradigma” a disposizione non mancava certo di varietà dato che, come sottolinea Giulia Blasi, “per fare un Amadeus ci vogliono undici donne, undici, fra le quali un’ex presentatrice di Sanremo, una giornalista e attivista per i diritti delle donne, due giornaliste Rai, una conduttrice televisiva albanese perfettamente bilingue e una giornalista sportiva di Sky”.

    Ora, il modo in cui Amadeus ha esemplificato le sue scelte tramite la Novello veicola con precisione l’idea di personaggi perfettamente accessori. Pedagogicamente avrebbe potuto stare benissimo in una master-class di sessismo.

    Non c’è da stupirsi, dunque, dello scatenamento di una critica femminista: Amadeus negava proprio l’asserzione di partenza di ogni retorica femminista, cioè sostituire le disuguaglianze glorificate dalla società con la parità di genere (e non con il dominio delle donne sugli uomini, come talvolta si tende a dire per delegittimare il movimento). Ha fatto così esplodere in tutta la sua efficacia una linea di tensione tra un’immagine puramente decorativa che Amadeus cuce addosso alle sue co-presentatrici, con una versione tailor fit per la Novello, e l’idea della parità tra uomini e donne.

     

    Esponendosi in modo così scoperto alle critiche, il programma aveva due possibilità per non trasformare la sua settantesima edizione nel manifesto della reazione (escludendo a propri che potesse adottare interamente una posizione di rottura): rimanere all’interno del proprio quadro di valori ma concedere qualche riconoscimento positivo in più a figure femminili comunque subalterne, addolcendo le forme rituali del proprio sessismo ordinario con delle manifestazioni di sessismo benevolo; o entrare sul terreno di gioco del femminismo, quello della parità, ma riconfigurando dall’interno i temi che lo abitano e adottando una strategia “ben altrista”. In realtà entrambe le strade sono state battute. È infatti vero che in questa edizione Sanremo, pur mantenendo molte forme della sua grammatica, ha concesso in più (episodiche) occasioni l’espressione della soggettività delle sue decorazioni femminili (Amadeus che si fa prendere in giro dalla Leotta, la Novello che suona il piano).

    Senza per questo mettere affatto in discussione la sua impostazione sessista. Questo maldestro meccanismo di riparazione è stato ampiamente e giustamente notato, tra le altre, da Giulia Blasi e Michela Murgia, già citate, e dalle autrici di Bossy e di Un Altro Genere di Rispetto. Tuttavia Sanremo non si è limitato a questo, ma si è effettivamente appropriato del tema della parità producendo un fenomeno retorico interessante: mentre la parità guarda nell’abisso televisivo, l’abisso televisivo guarda nella parità, esponendola a una trasformazione. Una trasformazione che accoglie la parità nel suo habitat col rischio di depotenziare la retorica femminista. Vale la pena soffermarsi su questo aspetto.

    La testa d’ariete di questa strategia era ovviamente Fiorello. Così simpatico, così innocuo sotto quel saio e quella parrucca. Non come l’ormai controverso Amadeus. Qualcuno doveva fare la vittima al posto suo in nome di tutti gli uomini ormai ridotti al silenzio (“Posso dirlo? Posso dirlo?”) da un branco di nevrotiche perbeniste. La banalizzazione è stata così efficace che, già nella prima metà della prima puntata, anche Amadeus ha ritrovato il coraggio dell’ironia. Inizialmente, il terrore femminista lo aveva spinto ad ampliare il suo paradigma di aggettivi aggiungendo “elegantissima” a “bellissima” e “simpaticissima”.

    Fortunatamente, il trucco del “posso dirlo?” lo ha progressivamente levato d’impaccio, permettendogli di ristabilire l’ordine aggettivale. Così, già dalla prima serata, ha potuto servirsi agilmente dell’opposizione “bellissima” vs “elegantissima” per distinguere, com’è d’uopo s’intende, le under- dalle over- cinquantacinque. Un tale risposta, basata sulla minimizzazione delle asimmetrie di genere, si sarebbe assestata su una posizione semplicemente non-femminista, di per sé grave, nutrita da crassa ignoranza o totale incomprensione del tema. Ma il festival non l’ha ritenuta sufficiente. Perciò ha voluto ricorrere a una strategia retorica supplementare: per assicurare che i comportamenti di sessismo, ordinario o benevolo, non fossero percepiti come problematici, dopo essere stati ridicolizzati sono anche stati contrapposti a un altro tema, quello dello stupro e della violenza sulle donne. Pensiamo, naturalmente, ai dodici, durissimi minuti del monologo di Rula Jebreal.

    Le parole pronunciate nei tribunali, che scambiano in modo agghiacciante la volontà d’annientamento dello stupratore con la volontà di seduzione della vittima, sono pietre in bocca a Jebreal.

    L’effetto, però, rischia di essere controproducente. Tra la durezza di queste pietre e il sessismo di fondo della trasmissione denunciato dopo la conferenza stampa, si instaura inevitabilmente un rapporto di netta contrarietà passionale: per le prime si soffre e ci si commuove, mentre del secondo si può persino ridere.

    Le stesse parole della Jebreal tendono, nolens volens, a rinforzare questa interpretazione: “Domani chiedetevi com’erano vestite le conduttrici di Sanremo, chiedetevi pure com’era vestita la Jebreal; che non si chieda mai più a una donna che è stata stuprata com’era vestita lei quella notte”. La grammatica non mente: a introdurre l’imperativa, c’è la concessiva. Che avrebbe l’effetto retorico di provocazione che l’oratrice intende darle, se solo non fosse pronunciata da quel palco dopo tutto il sessismo scanzonato e simpaticone di Amadeus e Fiorello. Ma lo è.

    E fa sorgere il sospetto terribile che, nell’economia della regìa, Rula Jebreal finisca per dare l’imprimatur della donna intelligente e superiore agli scivoloni tutto sommato simpatici dei compagni giocherelloni. Da cui un meccanismo di svelamento, che presenta il modello del sessismo ordinario, “non così grave”, come un “falso problema” rispetto a quello “vero”: la violenza sulle donne.

    Far passare l’idea che il vero problema non è il sessismo ordinario ma la violenza sulle donne, ponendo questi comportamenti come due modelli contrari, non è solo non-femminista, ma anche antifemminista

    Purtroppo è proprio questa gerarchia di valori che distrugge la struttura stessa di ogni pensiero femminista. Tutte le persone informate del problema della violenza sulle donne sanno infatti che, se sono così frequenti, è proprio perché proliferano nell’humus di un sessismo ordinario che tende a svalutare la categoria di genere in cui si trovano le vittime.

    Far passare l’idea che il vero problema non è il sessismo ordinario ma la violenza sulle donne, ponendo questi comportamenti come due modelli contrari, non è solo non-femminista, ma anche antifemminista: un pensiero femminista non si stanca mai, invece, di sottolineare non l’identità, ma certamente la complementarità tra stupro e banale maschilismo. Il rischio, altrimenti, è la riduzione del tema della parità che le contiene in una conchiglia vuota: una forma di vita che entra nell’habitat televisivo già fossilizzata.

    Il passaggio dall’articolazione femminista del tema della parità, in cui sessismo e violenza di genere sono complementari, a una antifemminista, in cui sessismo e violenza di genere sono contrari, è la dura condizione che l’ambiente televisivo sanremese ha imposto al tema della parità per accoglierlo. La ragione è ovvia.

    È molto meno divisivo dire che la violenza sulle donne è sbagliata separandola dal sessismo ordinario perché permette alla maggior parte del pubblico di deresponsabilizzarsi rispetto alla violenza che si annida potenzialmente nei propri gesti quotidiani. È anche e soprattutto questa la sfida che la retorica antifemminista di Sanremo lancia alla retorica femminista, una volta entrata sul suo terreno: oltre che affermare all’esterno, cioè in un ambiente che non si pone direttamente il problema della parità, che le disuguaglianze di genere esistono e devono essere livellate, deve anche essere capace di spiegare al grande pubblico come tutti possono combatterle responsabilizzandosi nei loro confronti.

    È legittimo chiedersi, in conclusione, cosa aspettarsi in merito da un programma come Sanremo. Cominciamo dalla base: non è un programma di approfondimento culturale. È intrattenimento. Nessuno si aspetta che veicoli contenuti educativi o particolarmente critici. Tuttavia, sia l’intrattenimento che l’educazione hanno come effetto di trasmettere dei modelli culturali.

    La differenza sta nel fatto che, nell’intrattenimento, non sta necessariamente al programma esplicitare i modelli che veicola. Ma il servizio pubblico che lo finanzia non può non essere cosciente di questo fatto. E se non deve necessariamente trasformare l’intrattenimento in pedagogia, potrebbe quantomeno assicurarsi che non veicoli modelli e principi tossici che favoriscono la disinformazione su un problema gravissimo e di bruciante attualità. Permettendoci, finalmente, di guardare Sanremo e farci serenamente due risate.

    Note