Ieri sera, alle 21.55 precise, il rover Perseverance della NASA è atterrato su Marte. Ci arriva dopo un viaggio lungo 407 milioni di chilometri, durato oltre 200 giorni nello spazio fuori dal pianeta Terra. Parliamo di un’impresa folle, che per compiersi deve unire una visionarietà tracotante ad una cura per i dettagli maniacale.
Una spedizione di questo tipo è irriducibilmente complessa: è formata da sistemi con un grandissimo numero di elementi, tutti tra di loro interdipendenti e che devono coordinarsi in perfetta armonia per poterne tracciare correttamente le evoluzioni. Senza questa prospettiva, risulta impossibile immaginarsi il compimento delle operazioni necessarie ad evitare grosse delusioni, come quella di uno schianto disastroso.
Per esempio, per appoggiarsi sano e salvo sulla superficie di Marte, Perseverance – grosso quanto un SUV – ha affrontato in appena 7 minuti una decelerazione di 10G per passare da una velocità di crociera di 19.000 km/h a poco più di 0. Per aiutarsi si è servito di un paracadute, minuscolo se paragonato alle dimensioni dell’impresa.
Si tratta di un’impresa folle, che per compiersi deve unire una visionarietà tracotante ad una cura per i dettagli maniacale.
La prima cosa che ha fatto, dopo aver inviato conferma del suo arrivo alla Terra, è stato scattare una foto. È uno scatto sfocato e claustrofobico di una terra brulla e (apparentemente) deserta. Si vede qualche sasso, un po’ di sabbia e l’ombra dello stesso Perseverance. Nulla di che, si potrebbe dire in fondo, specialmente se pensiamo che questa è ormai la quarta volta che facciamo visita a Marte con delle grosse scatole di latta a propulsione.
Io però per questo tipo di cose ho il cuore molle. Mi emoziono sempre, le seguo con la sveglia puntata e gli ultimi minuti diventano una corsa contro il tempo ai limiti della commedia se pensiamo che, sulla Terra, gli aggiornamenti non ci arrivano in presa diretta ma sotto forma di dati informatici inviati dal rover che vengono interpretati come lampi di vita.
Questo insieme di elementi semplici riesce, però, a rappresentare perfettamente la titanica mole di lavoro dietro alla spedizione. Riduce, senza sminuire, la complessità immensa di una missione spaziale: racconta ciò che siamo e ciò che ci circonda, in costante tensione tra imprese sempre più strutturate e il tentativo di non perderci dentro di esse.
Generare sintesi di questo tipo è fondamentale. È un lavoro di divulgazione essenziale per ampliare realmente i confini dei nostri immaginari e allo stesso tempo abbracciare la quantità sempre maggiore di elementi che li compongono, e le relazioni che li legano. È una delle sfide principali del contemporaneo, dove prospettive totali si scontrano con i dettagli cruciali di ogni aspetto sociale e culturale in cui siamo immersi.
È, per esempio, il rapporto che lega l’importanza della spedizione di Perseverance alla crescente e necessaria attenzione agli atteggiamenti della nuova corsa allo spazio, spesso più vicini alle fanfare di un colonialismo rinnovato che a quelli di un’impresa davvero umana. È lo snodo che rende vivi e frustranti gli attivismi e i dibattiti sulle tematiche di giustizia sociale, spezzati a metà tra l’ottenere nuovi risultati per tutte e tutti e non lasciare indietro nessuno.
È quello della crisi climatica, un problema globale la cui riparazione può soltanto essere collettiva ma che allo stesso tempo dipende da forme di consapevolezza e attenzione altamente specifiche per immaginare soluzioni per tutte e tutti e non toppe esclusiva dei (soliti) pochi. È il cuore della progettazione culturale, che a suo modo si arroga il diritto di scendere a fondo in questa complessità con la pretesa di poter trovare in essa uno spazio confortevole per fiorire.
Si tratta dello stesso rapporto che aveva raccontato Kurt Vonnegut in Perle ai porci, romanzo del 1965 che segue la vita di Eliot Rosewater, ultimo erede di una famiglia ricchissima che decide di devolvere il suo patrimonio a scopi sociali. Il protagonista, ricoperto di attenzioni in virtù della somma di denaro che custodisce, viaggia in lungo e in largo e viene coinvolto a destra e a manca come intestatario di un grande capitale che lo rende improvvisamente influente. Un giorno, ubriaco e ingenuo, fa irruzione in un convegno per scrittori di fantascienza dove apostrofa le autrici e gli autori presenti dando loro dei fannulloni per poi, infine, scusarsi pronunciando questa frase.
“Al diavolo gli abatini di talento che descrivono squisitamente un brandello di una singola esistenza, quando i problemi sono le galassie, gli eoni e i trilioni di anime che devono ancora nascere.”
Lo sguardo di Perseverance su Marte abita la contraddizione di Eliot Rosewater che, ubriaco, sacrifica “un brandello di una singola esistenza” per guardare ciò che c’è oltre l’orizzonte, conservando in quello scorcio lo spazio delle galassie, il tempo degli eoni e le storie delle anime che devono ancora nascere. Vonnegut esprime attraverso l’ebbrezza di Eliot Rosewater l’essenza della fantascienza, la capacità di saltare nevroticamente tra prospettive totale e affondi microscopici, oscillando agilmente su questo confine senza mai cadere.
La sfida, oggi, che il “fare cultura” ci pone davanti è proprio questa. Osservare la complessità, farla propria prima nei dettagli e poi nella sua totalità, tenere a mente tutti gli elementi dei sistemi che la compongono ed infine produrre sintesi che semplifichino senza ridurre. Come la sintesi della sguardo di Perseverance, che nella semplicità della sua manciata di sassi porta con sé le vite di tutte gli ingegneri che hanno accompagnato il rover su Marte.