Perdona il vocale

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    È sulla bocca di tutti, ma non è chiaro se si tratta di un refrain o di una specie di tic. Dei messaggi ricevuti nel corso delle ultime settimane – per lavoro così come per le Buone Feste – soltanto pochi fanno eccezione. Io stesso non resisto e, dopo aver cliccato sul comando di registrazione, in un silenzio improvviso e assordante, lo dico: “Perdona il vocale”. Alla fine della registrazione, una volta inviato il messaggio, inizio a chiedermi se non esista da qualche parte una legge o una norma, anche implicita, capace di imporre questo incipit all’insegna della supplica, quasi che mandarlo – un messaggio vocale – costituisca in sé stesso un reato o, quantomeno, un peccato. Perché mai, poi, tendiamo a dire proprio “perdona” e non, più semplicemente, “scusa”, scomodando così un termine carico di implicazioni morali?

    Per provare a rispondere a queste domande, è necessario adottare un tono semiserio. Vorrei sperimentare qualcosa come un approccio ironico alla pratica e alla teoria dei media, procedendo in tre tappe: descrivere il funzionamento dei messaggi vocali; riconoscere a che cosa di vecchio assomigliano e in che cosa si differenziano; ragionare su che tipo di spazio esperienziale, relazionale e morale si configura a partire dalla loro produzione e diffusione incontrollata, sempre e comunque, “imperdonabile”.

    Quando mando un messaggio vocale è perché non posso chattare, sono troppo occupato per toccare la tastiera sullo schermo che richiede attenzione e perizia, ho troppo da dire per poterlo riassumere in poche righe. Non è uno di quei casi in cui si può mandare un’immagine che, come si sa, dice più di mille parole (ma nessuno si scusa per un’immagine!). Il messaggio che ho in mente non è in questo caso sintetizzabile in un’immagine o un video, ma c’è proprio bisogno della voce per dire la cosa, la sua importanza, la necessità di trovare una soluzione… bisogna farlo subito, è urgente… Dico “c’è bisogno della voce”, ma non vorrei essere frainteso: non mi pare che il messaggio vocale riguardi la questione della phonè, sulla quale si sono concentrati grandi filosofi, attori e cantanti. Ad essere franchi, non ho mai mandato un vocale perché voglio far sentire la grana della voce, il suo flauto, il suono che è caratteristico mio e nel quale, al contempo, mi perdo, nel rumore impersonale. Al massimo, posso immettere un po’ di emotività, il mio occasionale entusiasmo o sconforto che, tuttavia, si assesteranno su un tono mediamente enfatico. Il ricorso al vocale è tendenzialmente meno intimo di quanto si possa pensare e non è meno logocentrico del messaggio scritto. Indipendentemente dal contenuto e dagli obiettivi del messaggio, col vocale tendo a scagliare una raffica di parole, do forma a uno sfogo operativo man mano che parlo. Ad uscire sono parole d’ordine, istruzioni ancora più precise e inappellabili di quelle che potrei dare scrivendo un messaggio. (Al di là di quanto dicono le canzoni, come sarebbe un messaggio vocale d’amore?).

    Il ricorso al vocale è tendenzialmente meno intimo di quanto si possa pensare e non è meno logocentrico del messaggio scritto

    Veniamo dunque alla questione della durata. Che sia di pochi secondi o di qualche minuto, la lunghezza del messaggio vocale non è soltanto una questione quantitativa, ma definisce la specifica qualità dell’esperienza mediatica in atto. Se il messaggio è breve, avrò l’impressione di un contatto più rapido, quasi diretto, come un’interlocuzione con possibilità di botta e risposta; insomma, una specie di chat vocale, caratterizzata dall’impossibilità di una sovrapposizione delle due o più voci coinvolte. Se il messaggio è lungo, si produrrà un effetto di distanza spaziale e temporale: la produzione e condivisione di un messaggio che necessità una maggiore elaborazione e che può prevedere tanto una risposta rapida quanto ritardata (“gli rispondo dopo”). In tal senso, la durata del messaggio configura ambienti esperienziali e relazionali, stabilisce legami e ne modula le intensità, crea o rovina aspettative.

    Per dirlo nei termini della teoria dei media, la durata del messaggio vocale definisce la qualità della rimediazione. Se il messaggio ha una durata inferiore a trenta secondi e prevede una risposta a stretto giro, il vocale rimedia il walkie talkie: una tecnologia radio diffusasi negli anni Quaranta del Novecento e tutt’ora utilizzata, soprattutto in contesti militari, logistici e produttivi caratterizzati dall’esigenza di scambiare brevissime informazioni, spesso in codice, tra soggetti vicini dal punto di vista spaziale, a circuito chiuso. Se il messaggio è più lungo di trenta secondi e la risposta può essere tanto repentina quanto procrastinata, maggiormente pensata, il vocale rimedia la segreteria telefonica: oggi, soprattutto in Italia, la si utilizza poco, se non in specifici contesti, ma la storia del cinema (americano e francese) è piena di messaggi in segreteria telefonica, la cui funzione non è semplicemente informare qualcuno di qualcosa, ma costruire una spazialità in bilico tra l’intimità del privato e l’esposizione pubblica (l’ufficio, la camera da letto) e un effetto temporale (l’attesa, la suspense, il what if…).

    Se il messaggio è più lungo di tre minuti, la questione si fa complicata. Contro la tendenza a condurre un’analisi sbrigativa delle pratiche mediatiche utilizzando etichette facili, non siamo tanto di fronte a una performance logorroica né a un confessionale digitale. Il messaggio vocale lungo o lunghissimo è una sorta di archiviazione condivisa, dove il contenuto registrato (magari non più la voce del mittente ma un’intervista, una conferenza, un concerto o un rumore ambientale) si rendono disponibili per il destinatario o i destinatari non appena si interrompe la registrazione; è come una specie di condivisione in “quasi diretta”, una differita leggera, il cui ascolto è iterabile. Diciamo, per semplificare, che si tratta di un podcast per pochi.

    Certo, esistono bene delle eccezioni e non è difficile ipotizzare altre forme di utilizzo e altri effetti prodotti dai vari messaggi vocali che quotidianamente riceviamo e inviamo. Ad ogni modo, nel suo carattere generico e nella sua declinazione semiseria, questa sintesi mi pare comunque trattenere qualcosa del fenomeno in questione. Si tratta allora di tornare alla questione di partenza: perché tendiamo a dire “Perdona il vocale”? Per quale ragione costantemente ritorna, in apertura, quell’atto di condono, quell’implorazione, quell’ammissione di colpevolezza?

    La prima ipotesi è quella più semplice e condivisibile, è la declinazione teorica del buon senso. Se ti chiedo perdono quando mando un messaggio vocale è perché interrompo il flusso comunicativo dei messaggi di testo. Scomodando il sonoro, ti costringo a riorganizzare i sensi e le modalità dell’attenzione: devi smettere di digitare e avvicinare il telefono all’orecchio e non è detto che tu sia in condizione di farlo (magari sei in ufficio, in riunione, in una conferenza o in qualsiasi altro contesto nel quale vale il principio “no vocali, solo messaggi di testo”). Inoltre, come nell’esempio fatto sopra, il vocale marca il passaggio dall’effetto di comunicazione “in diretta” (il botta e risposta serrato) dei messaggi di testo a quello di differita (emissione a conclusione della registrazione), costringendo il fruitore a estenuanti ascolti, sound check e sessioni di incisione.

    La seconda ipotesi ha a che fare con un motto latino che, in questo caso, può essere interpretato in due modi diversi: “Excusatio non petita, accusatio manifesta”. Chiedere perdono all’inizio del messaggio costituisce, a tutti gli effetti, una excusatio non petita. Come nel motto, una scusa non richiesta posta all’inizio di un messaggio costituisce una forma indiretta di accusa rivolta a sé stessi oppure (ecco la variante interpretativa) ai nostri interlocutori. Io mi scuso e mi autoaccuso per tutte le ragioni di cui alla prima ipotesi. Ma accuso anche il destinatario della comunicazione, insinuando che mi sta facendo un poco perdere tempo con i suoi messaggi scritti, che le sue stringhe di testo mi hanno annoiato abbastanza… E se lui o lei non può ascoltare la mia voce, il mio vocale prosegue dicendo, subito dopo l’excusatio, che io non posso scrivere in questo momento perché sto camminando oppure sto per entrare in un luogo (cinema, teatro, ufficio, …) che impone una certa disciplina nell’uso dei media o che, in ogni caso, sono molto indaffarato dalla mia vita, bando alle ciance, eccoti qua la mia voce, ascoltala e torna da me con maggiore ordine e chiarezza, valorizza le mie parole, la potenza del flusso, il loro ordine…

    La terza ipotesi è quella più oscura e ha a che fare con il discorso sulla rimediazione. Quello che chiamiamo messaggio vocale è sempre e comunque un’oscillazione tra forme mediatiche diverse: è al contempo una comunicazione walkie talkie, un messaggio in segreteria e un podcast. A ben vedere, queste tre forme mediatiche sono molto distanti l’una dall’altra, sia per i soggetti che coinvolgono (e costruiscono) che per gli ambienti che configurano. Se penso a chi lascio messaggi in segreteria, si tratta per lo più di soggetti con i quali intrattengo relazioni particolarmente distanti e formali e mi verrebbe da generalizzare dicendo che in questo momento, almeno in Italia, la segreteria telefonica sopravvive come articolazione pronominale del Lei all’interno di un regime mediatico tarato sull’Io (I-) e sul tu (You). Il walkie talkie non lo uso e se mi capita di incontrare qualcuno che lo fa, si tratta di operai che si scambiano brevi e puntuali istruzioni all’interno di un cantiere edile oppure in un set cinematografico; si tratta sempre e comunque di soggetti che indossano un gilet giallo fosforescente durante una performance professionale e che tendono a ottimizzare i propri gesti e le proprie azioni attraverso stock informativi minimi che si scambiano, a breve distanza, in forma vocale. Il podcast sta in archivio o nel cloud, ci aspetta, lo si ascolta e riascolta per piacere, per curiosità, per affezione. Se quest’ultimo è tendenzialmente pensato per un grande pubblico, il messaggio vocale, una volta archiviato e inviato, può al massimo ambire a essere un podcast per pochi, esoterico (guai a inoltrarlo!).

    Per quale ragione costantemente ritorna, in apertura, quell’atto di condono, quell’implorazione, quell’ammissione di colpevolezza?

    Dico “Pronto?” (al telefono). Dico “Chi è?” (al citofono). Dico “Buongiorno a tutte e a tutti” (su Zoom)… Ogni medium ha il suo incipit e, in un certo senso, l’incipit è il messaggio. L’espressione d’apertura serve infatti a 1. testare il funzionamento del canale, 2. instaurare uno specifico rapporto tra i due o più interlocutori, 3. definire le coordinate ambientali della comunicazione. Se il metodo dell’ironia dei media sperimentato fino a qui esprime anche soltanto una minima efficacia, è dunque possibile sostenere che l’incipit “Perdona il vocale” qualifica (e rivela) una forma di comunicazione a distanza che suscita disagio o, quantomeno, una soddisfazione soltanto parziale negli interlocutori. “Perdona il vocale” non sta tanto per “perdona questo vocale che sto per mandarti”, quanto per un più generale “perdonami per il fatto stesso che sto facendo ricorso alla messaggistica vocale, verso la quale, entrambi, nutriamo sospetto e della quale abbiamo già sperimentato l’inadeguatezza”.

    “Perdona il vocale” ci dice dunque qualcosa di importante del più usato, il più quotidiano, dei nuovi media. Ci dice che anche a causa delle oscillazioni di cui sopra (dalla segreteria telefonica al walkie talkie, fino al podcast), con un vocale su Whatsapp è difficile tanto produrre e condividere discorsi intimi quanto discorsi formali, e così si fatica a suscitare tanto un senso di intimità quanto di comunità. Nella grana della voce, nella estenuazione delle durate (perfino nell’opzione di velocizzazione dell’ascolto x1.5 o x2) persiste un potenziale trasfigurante e riconfigurante, qualcosa come un’apertura di uno spazio di sperimentazione intersoggettiva e sonora. Ma a prevalere sono i deittici (io, tu, loro, qui, lì, là…), le istruzioni, le parole d’ordine, senza il beneficio del contraddittorio, senza che si possa neppure un poco “alzare i toni”.

    Quando ti chiedo di perdonarmi per i miei messaggi vocali, ti sto dunque dicendo questo: che non voglio “toccarti”, irrompere nella tua bolla con la forza dell’affabulazione e la potenza della mia voce, ma anche che vorrei tremendamente farlo. Oppure, al contrario, dicendo “Perdona il vocale”, esprimo il desiderio di utilizzare questo mezzo al massimo delle sue possibilità (narrative e sonore) ma anche la consapevolezza che tutto ciò non è possibile  (è mai possibile “godersi un vocale”?). Come nella segreteria telefonica di un vecchio film, vorrei lasciare messaggi romantici e frasi sulle quali dormire sopra, discorsi che fanno sognare o quantomeno da meditare. Come in un podcast, vorrei poter avvolgere e coinvolgere con i fili della trama, appassionare, tenere compagnia a distanza con parole, musiche e suoni ambientali, senza perdipiù la pretesa di ricevere indietro una risposta. Se davvero è il walkie talkie a prendere il sopravvento, orientando il messaggio vocale verso le funzioni per così dire “referenziali” e “persuasive”, fatte di riferimenti geografici e parole d’ordine, si abbia almeno il coraggio, ogni tanto, di concludere la conversazione con un bel “passo e chiudo”!

    Forse prima o poi smetteremo di chiedere perdono per i vocali. Forse stiamo già smettendo e – lungo il filo del medium – nuovi possibili incipit combattono l’uno con l’altro per l’egemonia, per riuscire ad esprimere sinteticamente che cos’è e che cosa sta diventando Whatsapp (o chi per lei).

     

    Immagine di Antoine Barrès da Unsplash

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