Paura e delirio a Las Facebook

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    Il 31 Dicembre 2016, Roberto Burioni, medico e divulgatore attraverso una seguita pagina Facebook in cui spiega perché – per citare il titolo del suo libro – il vaccino non è un’opinione, è salito agli onori della cronaca per aver cancellato una serie di commenti e spiegando di rifiutare il confronto con chi non sa di cosa parla. «Questa pagina non è un luogo dove la gente che non sa nulla può avere un “civile dibattito” per discutere alla pari con me. È (sic) una pagina dove io, che studio questi argomenti da trentacinque anni, tento di spiegare in maniera accessibile come stanno le cose impiegando a questo scopo in maniera gratuita il mio tempo che in generale viene retribuito in quantità estremamente generosa» spiega Burioni, concludendo con la frase della discordia: «La scienza non è democratica».

    Da lì, l’inevitabile: il commento è stato ripreso un po’ ovunque. Sui social network molti hanno applaudito allo sfogo dell’esperto, stufo di vedersi messo in discussione da una quantità di gente che crede ai complotti, alle scie chimiche e al fatto che i vaccini facciano venire il cancro o che la meningite sia portata in Italia dagli immigrati clandestini. Addirittura, il Post riprende la notizia nella sua sezione “Flash” applaudendo il comportamento come atto di eroismo.

    In tutto questo, c’è qualcosa che non mi torna.

    Siamo tutti perfettamente a conoscenza della complessa e spesso insostenibile situazione quotidiana nell’agorà virtuale di Facebook. Abbiamo tutti – chi più, chi meno – avuto a che fare con la valanga di w-ebeti (cit.) capaci di portare all’esasperazione anche chi, armato solo di buona volontà, decide di portare avanti un progetto di divulgazione. Posso immaginare, inoltre, che in questi tempi di pensiero talmente debole da essere diventato ebete (propongo una crasi: il “pensiero webete”?), gestire un progetto di divulgazione scientifica e darlo in pasto al sempre più crescente numero di utenti ormai convinto di ogni disparata teoria del complotto per giustificare qualsiasi cosa non riesca a spiegare su basi razionali possa essere frustrante oltre il lecito.

    Quindi sì, capisco lo sfogo umano di uno specialista che studia queste faccende da decine di anni e non ha la minima voglia di essere messo in discussione da gente la cui conoscenza scientifica si basa su pagine Wikipedia lette nemmeno troppo bene e siti di pseudo-informazione. Non ho nemmeno per un secondo pensato che le opinioni siano tutte uguali e le conoscenze specifiche non contino niente.

    E qui mi riallaccio alla vignetta del New Yorker che nelle ultime ore stanno citando tutti: no, il pilota deve guidare l’aereo; i giornalisti devono fare i giornalisti; i medici devono fare i medici (a tal proposito allego un post che spiega molto bene la faccenda) e le persone, ogni tanto possono anche tacere su cose che non sanno e ascoltare (come scrive su IL Claudio Giunta, la libertà è anche non partecipazione o, per dirla con Nanni Moretti, non parlare di cose che non si conoscono).

    Quello che non mi torna, nell’atteggio di Burioni, è la percezione della torre d’avorio. Visto che io so le cose, voi dovete accettarle con un atto di fede. Certo, è una conseguenza estrema, ma il rischio di questo atteggiamento è di polarizzare ancora di più la società italiana tra quelli che ‘sanno’ e quelli che non sanno. Rendendo, inoltre, quelli che ‘sanno’ respingenti, e quindi ostici, e quindi confutabili sulla base di quelle pure emozioni istintive che recentemente sono salite agli onori del dibattito – per certi versi già vecchio – sulla post-verità (e a questo proposito leghiamo un’altra vignetta del New Yorker).

    In questo momento storico la necessità principale è quella di fare rete, gettare ponti, costruire – anche faticosamente – antidoti contro l’analfabetismo, la credulità ‘fascinosa’ dei maghi e incantatori. Ergere muri sulla base di un potere acquisito con fatica, studio e dedizione rischia però di generare l’effetto inverso: accrescere la distanza tra chi sa (la cui parola, al pari di maghi e incantatori, non deve essere messa in discussione per statuto) e chi non sa, o non ha gli strumenti andando forse suo malgrado a rimpolpare la famigerata legione di imbecilli evocata da Umberto Eco in uno dei suoi ultimi e più discussi interventi. L’effetto più pericoloso – e ammetto che questa frase rischia di essere scivolosa – è che la necessità di avere degli specialisti si trasformi in una “tirannia degli specialisti”.

    Una “tirannia” in cui si rifiuta il confronto perché si dà per scontato che il non essere ‘inter pares’ sia automaticamente squalificante. Osteggiando da un lato il “sapere laico” di cui ha scritto Valigia Blu (citando Massimiliano Bucchi: «Il sapere laico non è una versione impoverita o quantitativamente inferiore del sapere scientifico, ma qualitativamente diversa. La conoscenza fattuale rappresenta soltanto uno degli ingredienti delnti sapere laico, in cui inevitabilmente si intrecciano altri elementi (giudizi di valore, fiducia nei confronti delle istituzioni scientifiche, percezione della propria capacità di utilizzare sul piano pratico la conoscenza scientifica) in un complesso non meno sofisticato di quello specialistico.»); dall’altro la possibilità di un confronto ingenuo ma scevro da debiti morali e preconcetti che, magari, permette di osservare le questioni da un altro punto di vista che può arrivare per molti altri motivi tra cui, banalmente, la paura (la scienza è materia ostica e per certi versi esoterica: accrescere la percezione della distanza non aiuta a popolarizzare e diminuire la paura che le persone provano per quello che non conoscono e non capiscono) di cui anche qui su cheFare ci siamo occupati (Elena Contenta Patacchini).

    Inoltre – ma correggetemi se sbaglio – credo sia inesatto affermare che la scienza non sia democratica. Perché è solo attraverso il dubbio e il continuo confronto è possibile il progresso del pensiero umano. In ogni disciplina. Questo non vuole dire che “uno vale uno”, e la mia opinione – che proviene da un percorso di studi umanistico – vale quanto quella di uno scienziato, ma che bisogna lasciare aperta la porta al dubbio. (“democrazia”, del resto, non significa “uno vale uno”).

    Il risultato scientifico è quanto di più possibile vicino all’oggettività nel momento in cui capita. Ma la comunità scientifica si alimenta di confutazioni e contro-confutazioni. La natura democratica del confronto, però, non può tenere conto della stratificazione della società. E in questo momento, quella che alcuni osservatori come Ilvo Diamanti hanno definito “società sfiduciata” ha bisogno di non sentire la distanza, ha bisogno di non percepire le torri d’avorio. I pareri non hanno gli stessi valori, ma le paure alimentano fuochi pericolosi e la missione di chi – pur negandolo, come nel caso di Burioni – vuole fare divulgazione è quantomeno importante e probante.

    Gettare ponti, avvicinare. Rinunciare a quel poco di “capitale reputazionale” che riteniamo in dovere di conservare per accrescere la consapevolezza di chi invece crede a qualsiasi bufala spacciata per vera perché urlata con grande trasporto emotivo e prosa convincente. In Italia siamo in netto ritardo su questo tema (ogni “comunità del sapere” ha paura del confronto esterno e pochi cercano di spiegare in modo agile quello che succede nella scienza come nell’economia, nella finanza e nella politica): con i dati preoccupanti sull’analfabetismo funzionale che leggiamo ogni anno, forse, dovremmo preoccuparci di come la responsabilità vada oltre il semplice attestato di conoscenza per un titolo di studio.

    Lo sfogo di Burioni è solo un caso da cui far partire la riflessione. Il suo lamento è legittimo, sacrosanto e per certi versi condivisibile (se io vado sulla sua bacheca a dire che i vaccini fanno venire i tumori è ovvio che questo commento mi qualifica per quello che sono), ma mi chiedo se sia l’atteggiamento giusto.

    Se questo modo di fare – soprattutto dandogli eco, risalto e applaudendolo come gesto eroico – non sia controproducente alla missione che, in fondo, tutte le persone che si prendono spazio e tempo per scrivere, confrontarsi e divulgare si sono dati. Viviamo nell’epoca della scomparsa dei fatti (ormai da moltissimi anni, però, non ce lo siamo inventati oggi perché l’ha detto l’Oxford Dictionary), e la divulgazione non è un pranzo di gala.

    Bisogna capire come portare avanti i proprio progetti divulgativi – le proprie battaglie contro preconcetti, paure e ignoranze varie – senza “aizzare i troll” e senza alzare i muri e accrescere distanze dando la percezione di società chiuse, comunità chiuse e saperi esoterici. Chiudersi, in questo momento storico, non è una risposta.

    Note