Marco Scotini: soggettività incatturabili

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    L’anno scorso Marco Scotini mi ha invitato a insegnare presso la NABA: la Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. È un bellissimo campus sul Naviglio Pavese, il naviglio che i milanesi considerano secondario rispetto al “grande”, molto diverso da tutte le altre università dove ho lavorato: in qualche modo all’avanguardia, e bene inserito nel processo di innovazione culturale del capoluogo lombardo.

    Marco è il direttore del programma in arti visive, dove insegnano nomi importanti come Adrian Paci e Massimo Bartolini, ma anche dove gli studenti sperimentano un modello nuovo di apprendimento e ricerca. Il ruolo di Marco, curatore, professore, scrittore, è quello del regista che cerca di coordinare diversi elementi di una lettura creativa dei processi culturali contemporanei utilizzando l’arte come un luogo privilegiato (ma lo è davvero? e che luogo è?).

    È da un po’ che seguo il suo lavoro e scrivo delle sue mostre, o meglio delle assunzioni e implicazioni filosofiche della sua ricerca, ma adesso mi sembrava il momento di interpellarlo direttamente sui temi del suo ultimo libro Artecrazia (DeriveApprodi 2017) che tentano di mettere in discussione molti dei cliché dell’industria culturale, artistica, intellettuale del mondo contemporaneo. È andato a ruota libera, come sempre, in una piccola auletta della NABA, parlando per circa due ore: questo è ciò che ne è venuto fuori dopo che ho sbobinato e “pulito” la nostra conversazione. E ciò che è venuto fuori, senza retorica, arriva da uno dei più grandi curatori europei viventi.

    Marco, partiamo subito dall’innovazione culturale. Cos’è, o meglio cosa è per te?

    Mah … secondo me innovazione culturale significa essere all’altezza dei tempi. Capire gli strumenti che hai a disposizione e saperne fare un uso appropriato, comune. Io ho un approccio abbastanza critico, l’ho detto da poco anche all’Espresso che mi ha interpellato sul tema: rispetto all’idea di innovazione io, paradossalmente, preferisco quella di archeologia come la intendeva Foucault. Bisogna capire il passato, comprenderlo, per costruire qualcosa di “innovativo”: oggi, al contrario, chi dice di innovare non ha idea del “da dove viene”. Ciò che può avvenire, ovvero il dopo, è rinchiuso in ciò che sarebbe potuto esserci ma invece non c’è stato.

    Perdonami Marco, ma cosa sono questi “strumenti” di cui parli?

    Beh guarda, partiamo da Artecrazia. Dietro c’è Walter Benjamin, mio riferimento da sempre, poi il ’68, gli anni ’70, e infine questo approdo negativo all’ arte di Stato. Gli strumenti sono il linguaggio e i mezzi produttivi del proprio tempo ma quando dico “strumenti” dico soprattutto appunto qualcosa a partire dalla fine del capolavoro L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica: come riusciremo a vedere qualcosa di nuovo, diverso, nella catena della produzione?

    Forse sono più interessanti, a mio avviso, i confronti con i mezzi a disposizione e con il loro cambio d’uso, come suggerisce proprio Benjamin: distinguiamo tra chi incita all’espressione, come avveniva nel capitalismo fordista o oggi in quello cognitivo facendo finta di favorire una creatività che in realtà è funzionale al regime, e chi invece cerca davvero di fare qualcosa di nuovo, di rompere la catena, di riconoscere diritti sociali accanto a quelli espressivi. L’innovazione è la rottura di un gap nelle forme di produzione, puoi può risolversi nel materiale o immateriale ma non importa.

    Aspetta … questa cosa del capitalismo cognitivo. È il tema del nostro tempo, credo: i pagamenti per visibilità, la rendicontazione immateriale, la cultura non pagata. Come si può fare innovazione culturale entro la cornice del capitalismo cognitivo, non è un meccanismo che gira a vuoto?

    Non mi interessano tutte le declinazioni che sono state date del capitalismo cognitivo. È vero che in occidente sono cambiate le forme della produzione classica. Questa forma di capitalismo attuale è estrattiva: estrae tanto minerali che energie intellettuali, le estrae nell’ex-colonie ma anche nelle nostre soggettività. Il mio ruolo di curatore, credo, è attivare forze che permettano di reagire a queste forme espropriative … certo, stando all’interno del contesto stesso che vogliamo superare, prima di tutto, dobbiamo lavorare a creare le condizioni di possibilità di un nuovo spazio di produzione.

    Che spazio? Uno spazio simbolico attraverso l’arte oppure uno reale? In Artecrazia questa contraddizione emerge forte: non c’è un paradosso nel lavorare con strumenti interni al sistema che vuoi cercare di “bucare?”

    L’arte deve farsi carico del tentativo e la produzione culturale ne sarà conseguenza. Dopo la finanziarizzazione delle pratiche e dei saperi, diciamo dopo la crisi economica del 2008, il sapere dell’arte si è riempito di forme retoriche per esprimere un falso legame tra cultura e politica. Io vengo da un decennio – il 1997/2007 con Documenta X, il movimento di Seattle e l’eco dello zapatismo del ’94 – le forze eversive si sono dedicate ad una vera politicizzazione del sistema cultura. Ne è emersa una matrice “intrinsecamente politica dell’arte”, una nuova costruzione delle soggettività e un ribaltamento del vecchio concetto dialettico del rapporto servo-padrone hegeliano del primo capitalismo: come fai a non tenere in considerazione tutte queste cose quando si parla di arte contemporanea o di innovazione culturale? Come innovi dopo i regimi dei dispositivi di sorveglianza o dopo la realizzazione della profezia di Sorvegliare e punire di Foucault? Ma ora la vera spinta cultura di quel decennio è stata ribaltata nel suo opposto.

     E il pubblico, in tutto questo processo?

    La giusta domanda, Leonardo, è “che ruolo ha e ha avuto il pubblico?”. Dall’ottocento in poi, dove il concetto di pubblico nel senso moderno nasce (pensa alle esposizioni universali), questa figura si è sempre definita attraverso un’evidente ambivalenza. Io parlo di “governo dei pubblici”, perché il pubblico è l’oggetto dei nuovi meccanismi di potere, della governamentalità. Ebbene il pubblico è una delle chiavi di lettura del contemporaneo. Penso alle biennali, a ciò che rappresentano in termini di catture di forme dell’attenzione e dell’attesa.

    Cattelan, la sua critica al pubblico …

    No, Cattelan non mi riguarda come sai bene, e non amo le risposte ciniche. Una cosa è capire il problema e un’altra e cavalcarlo e spettacolarizzarlo. Critiche velleitarie, che partono dalla superficie e non dalle radici delle cose, non servono a nulla e si pongono al servizio di ciò che intendono criticare.

    Stai parlando del confine tra attivismo e cinismo?

    Sì, devo dire che entro il sistema dell’arte il cinismo è stato un prodotto degli anni della restaurazione. La risposta americana ai fenomeni degli ’80, è stata tutta interna al sistema, mai eversiva ma tutta funzionale ai meccanismi della società spettacolarizzata, per dirlo con Debord. È Group Material che si contrappone a Jeff Koons, non lo spettacolo ma l’inclusione e l’attivazione sociale. Bisogna sempre vedere a quali sistemi ci colleghiamo: i cinici sono connessi a gallerie, finanza, istituzioni, mentre gli attivisti sono legati a movimenti reali, bisogni e desideri concreti. È da qui, non dal cinismo, che si deve ripartire per fare cultura.

    Hai citato Foucault. Di cosa dobbiamo avere paura oggi, di quali meccanismi di controllo anche per l’arte e l’innovazione?

    Ma sai, oggi si tratta di servitù volontaria allo stato puro. Foucault già implicitamente aveva parlato di una consegna integrale al Panopticon (attraverso l’introiezione del controllo): dalla sua imposizione alla sua realizzazione spontanea con Facebook, Instagram, e al di là della retorica con tutti i controlli volontari che ci imponiamo. Ai mieti studenti chiedo sempre perché sentono la necessità di consegnarsi a un occhio indiscreto perenne, come se non bastassero badge, bancomat, google, ecc.

    Lasciamo sempre tracce, ma non c’è nulla di entusiasmante in questo se non ripartiamo da Benjamin: la democratizzazione dell’immagine che abbiamo avuto attraverso il cinema con il “chiunque” filmabile, nel regime capitalista avrebbe riproposto il modello neoarcaico dell’eroe che continua a imporsi. Il contemporaneo, e la sua arte, per essere tale non può più contemplare le sue vecchie fenomenologie borghesi perché sono finite le condizioni sociali che le permettevano; vedi Damien Hirst e il carattere artificiale dell’eroe.

    Ma ormai questo tipo di figure le seguo sempre meno perché non ho più tempo da perdere. Il giovane di oggi, stereotipo in preda al selfie e “postaggio”, sottrae alla propria immagine la crisi, la malattia, i problemi, dando solo una finta immagine felice che è funzionale al capitalismo cognitivo di cui sopra: non è retorica mettere in crisi tutto ciò, se è l’innovazione culturale che vogliamo indagare, e non l’ industria semiotica conseguente.

    Da Foucault a Unabomber sembrano parare tutti di questo, ma come se ne esce? L’autoerotismo diffuso, l’immagine cinica, la fine dell’innovazione.

    Senti … tu mi hai paragonato a un regista, e ti ringrazio (è il lavoro che avrei voluto fare se non avessi fatto il curatore). Se ne esce, come nella regia, mettendo insieme i pezzi e concatenandoli insieme; le cosiddette realtà extradisciplinari, contro la prima legge del capitalismo cognitivo che impone una specializzazione unitaria, consentono cortocircuiti e la messa in crisi delle identità.

    Bisogna diventare soggettività incatturabili, collegati a tutto e dentro tutto. Una trasformazione non solo culturale ma geografia, filosofica, architettonica … e questo urta anche contro i luoghi, gli spazi, e va fuori da ciò che è deputato per. Nel mio caso si devono mettere in discussione anche i cardini del discorso artistico, la storia dell’arte, l’idea che ci sia una sola colonna vertebrale della disciplina da cui attingere: la soluzione è mischiare le carte. Scoprire le arti cinesi, africane, islamiche fuori da quelle definizioni atroci di arte primitiva, pre-moderna, ecc, che hanno caratterizzato l’imperialismo occidentale anche nel contemporaneo.

    Senti, a proposito di contemporaneo pensavo ad Agamben. L’ossimoro del museo del contemporaneo, che storicizza l’attuale e lo rende archeologico …

    Sì certo, ma è ancora collegato alla mia critica alla storia dell’arte. Dopo la caduta del muro di Berlino, per intenderci, è diventata improponibile l’idea classica di contemporaneità che prevede la successione nella linearità del passato, presente e del futuro. Si tratta del ruolo del tempo nell’arte, di comprendere che ogni momento del reale non necessariamente si può inserire in quella sequenza lineare tanto agognata perché è al di là del binomio tra latenza e attualità, e perché non tutto avviene in verticale ma anche in orizzontale. Il contemporaneo non è ciò che avviene dopo (l’ultimo arrivato), ma spesso è ciò che avviene accanto, che c’era già ed è emerso ora: così si crea lo spazio dell’emancipazione della innovazione.

    Sempre Agamben, ripreso anche qui su cheFare da poco, sostiene che il futuro in questa linearità orizzontale ha scopo puramente di potere. Invita a mettere da parte questa nozione, troppo retorica …

    È cosi, certo. Ma anche il passato lo scrive il potere. Chi scrive la storia? Anche la nostra storia? Dobbiamo cercare di raccogliere il positivo di questo tempo, del nostro tempo, dedicarci al rapporto tra attuale e virtuale. Le forme immaginative devono lavorare qui, abbiamo bisogno di una contro-identità del tempo, di una dimensione franta e diffusa che sfugga continuamente e sia incatturabile: l’arte deve educare a sottrarci. Se c’è un futuro possibile, questo è decostruire, non costruire. Con alcuni amici africani che hanno lavorato con me conveniamo che è arrivato il momento di uscire dal presidio sulle cose: genere, natura, cultura, sono tutte identità da ribaltare. Andare verso l’incofigurabile, mi verrebbe da dire.

    In tutto questo discorso, cos’è la NABA, la tua funzione di insegnate e di direttore? Che istituzione è?

    È nata nell’80, io sono arrivato all’inizio del 2000. Abbiamo visto delle cose, credo, che altri non hanno visto con l’anticipo con cui le abbiamo capite qui; non c’era più l’opposizione iniziale a Brera, quando ci siamo spostati sui Navigli, e dovevamo pensare a qualcos’altro che non fosse solo l’integrazione dell’arte con la moda o il design. La nuova integrazione era quella con le culture. A proposito di quelle ibridazioni … di sicuro siamo stati tra i primi in Italia, anche nell’insegnare la professione del curatore, che pure oggi è ambita e studiata anche altrove.

    Per me insegnare è vitale, e anche con una buona dose di anarchia sono riuscito a fare emergere nella mia scuola un lavoro di insieme in cui anche lo studente è visto come soggetto fortemente attivo e non semplicemente una figura da educare. Credo che oggi abbiamo un DNA non confondibile, di carattere internazionale, e l’unica ragione è stata comprendere prima alcuni cambiamenti a cui il contemporaneo ci avrebbe esposti, spesso positivamente.

    Che farai prossimamente? Come prosegue questo tuo lavoro da innovatore culturale, da curatore … da regista?

    Ho tanti fronti aperti, a Milano con Naba e con il nuovo centro FM per l’arte contemporanea in cui ho già fatto alcune mostre importanti sugli anni Settanta italiani, sull’Est Europa e sull’arte africana per me vitali, ma anche il PAV a Torino insieme a Piero Gilardi e il lavoro sull’ecologia. Due biennali e cicli di seminari, tutto in Cina, per l’anno prossimo. La mia idea è sempre disarticolare l’arte ed espanderla verso l’esterno perché l’arte è metodo, non un output. Il contemporaneo è una realtà estetica, che ha bisogno di immaginazione in ogni campo, e dunque il mio lavoro è innanzitutto una rilettura dei rapporti con la natura, con le cose, con le tradizioni, le forme produttive, le nuove soggettività. Sfidare le minacce del tempo attraverso una formazione che si mette continuamente in discussione: così ho fatto fino adesso e così vorrei continuare a fare.

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