Dal porta a porta all’immateriale social: la politica della Lega come ritratto di un paese

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    Un imprenditore europeista; una fiera sudtirolese; un operaio gravato dalle tasse; un fornaio che suggerisce all’operaio che dopotutto queste tasse non è che siano proprio tutte da pagare; una maestra che però nel mentre si è accorta che seguendo i consigli del fornaio evasore forse si rischierebbe di incorrere in qualche problema con (ciò che resta) della sanità e dell’istruzione pubblica; un portuale insofferente ai giochi di palazzo; una signora che consiglia allora di liberarsi dei «politicanti, dei marocchini e dei terroni» e un «terrone» che infine ricorda alla signora come siano quarant’anni che lavora al Nord, e che dopotutto, è italiano pure lui.

    Questa non era una barzelletta con troppi protagonisti, bensì il coro polifonico montato nella sigla di apertura di uno dei primi programma televisivi a essersi occupato dei malumori montanti nella zona più ricca di Italia. L’anno era il 1991 e il programma Profondo Nord, in onda in seconda serata su Rai3 e condotto da Gad Lerner. Il momento storico, che si colloca tra la caduta del muro di Berlino e lo squasso politico determinato dall’inchiesta di Tangentopoli, è decisivo ed è infatti minuziosamente analizzato da Barcella, che dà anche una precisa lettura di questo seguito programma televisivo.

    Acuta è infatti l’analisi dell’intricato gioco di specchi tra i vari attori coinvolti: “al termine delle trasmissioni, la sensazione più frequente per il telespettatore era quella di avere assistito a una sorta di assalto popolare, nel corso del quale la «gente comune» presente nei teatri aveva avuto modo di dire la verità in faccia ai politici. Gli esponenti leghisti apparivano regolarmente dal lato vincente di questa messa in scena dell’assalto al potere, mentre politici, amministratori e tecnici che cercassero di fornire una lettura articolata venivano piegati, dovendo andare all’inseguimento di chi si muovesse per semplificazioni o generalizzazioni del proprio vissuto personale” (p. 62).

    La vittoria davvero decisiva ottenuta dal fronte leghista, sia nella sua declinazione indipendentista con il senatur Umberto Bossi che in quella di estrema destra guidata dal capitano Matteo Salvini, è risultata infatti, sul lungo periodo, essere proprio quella culturale. Un lento lavorio fatto di turpiloqui e maglie della salute, che hanno trovato appunto in quel preciso momento storico la faglia per riuscire a modificare, certo anche con l’aiuto del magnate audiovisivo Silvio Berlusconi, una sensibilità che si potrebbe dire comune e condivisa. Prestando però attenzione, proprio come Barcella fa nella sua analisi dei vari momenti leghisti, non solo alle parole ma anche alle condizioni materiali che queste parole permettono e facilitano, ecco come sembra emergere una sorta di grado Xerox della politica.

    Le moderne stampanti e fotocopiatrici diventano infatti strumenti fondamentali di una peculiare riedizione del paradigma carismatico weberiano, tanto caro a Bossi, che cerca nella diffusione efficace delle parole del capo il suo primo momento di seduzione elettorale. Dai gazebi e dalle sagre dei comuni più piccoli delle provincie del Nord Italia – teatri poi, ad esempio, anche non solo delle cerimonie dei selfie di Matteo Salvini ma anche dell’ultimo sforzo elettorale della sodale Marine Le Pen – passando per i piccoli schermi, il consenso si era già ben delineato su pochi e sommi capi, che Barcella così ci ricorda: “L’essenza ideologica neoconservatrice del partito emergeva inoltre da tutta la produzione pubblicistica e dagli interventi giornalistici che lasciavano trasparire: la prospettiva patriarcale condivisa dalla gran parte della dirigenza leghista (così come, del resto, da larghi segmenti di classe lavoratrice); un approccio muscolare e anti-intellettuale a problemi di qualsiasi ordine; un culto per la virilità che prese anche la forma pseudo-ironica del più noto motto leghista, «Noi della Lega ce l’abbiamo duro!»” (p. 85).

    Il volume verrà presentato: alle 17 del 9 giugno, presso la Biblioteca di storia moderna e contemporanea di via Caetani, a Roma (interverranno Paola Stelliferi, Gregorio Sorgonà ed Emilio Franzina);

    e alle 20.45 del 10 giugno, presso il centro Fondazione Serughetti La Porta di viale Papa Giovanni XXIII, a Bergamo (interverranno Laura Cicirata, Gabriella Cremaschi, Jacopo Perazzoli e Riccardo Boffetti).

     

    Una visione guerreggiata della politica, insomma, la quale non può che risolversi nella struttura piramidale da imporre al proprio partito antisistema. Certo, c’è anche da preservare la libertà d’azione dei compagni più intraprendenti, come il medico Roberto Calderoli, che con un adatto tono epico celebrava nel 1993 la sua discesa su Roma: «ero partito per Roma con l’obiettivo di distruggere il S.S.N. (Servizio Sanitario Nazionale) e di scacciare l’odiato ministro. Oggi posso dire che il ministro se ne è andato, anche in funzione del mio operato, mentre il S.S.N., grazie al referendum che ho redatto, si trova, parlando in termini medici, in coma depassé» (p. 84).  Privatizzazione come soluzione a ogni forma di assistenzialismo della “Roma Ladrona” che tanti soldi sottraeva ai contribuenti del Nord Italia.

    La carica retorica e ideologica è qui notevole e va sottolineata: visto il peso della burocrazia, ecco che la delocalizzazione e la frammentazione appaiono come veri e propri rimedi non solo a quella stessa asfissiante burocrazia, ma anche alle colpevoli organizzazioni sindacali. Occorrerebbe dunque chiedersi a quale sistema si oppongano le due diverse anime della Lega – differenti certo su molti aspetti, ma non su questo – dato che sembrano proprio i momenti più virtuosi del paradigma dello stato sociale a essere i bersagli delle critiche più feroci di quelli che sarebbe forse corretto definire come neoliberisti dell’odio. In chiave più sciovinista certo, quando ancora si chiamava Lega Nord, e più smaccatamente estremista dopo la svolta salviniana ma sempre neoliberista nel suo approccio alla realtà.

    Ma non c’è modo migliore per ricostruire le vicende reali di un territorio, se non quello di ascoltare attentamente le voci di chi questo l’ha vissuto, plasmato e spesso forse anche più che altro subito. Attenzione però: per quanto certe immagini con cui Barcella puntella tutto il suo testo, come quella di un folklorico e anticlericale Umberto Bossi che nel 1997 – continuando il suo lavorio di cesura e trasformazione dei vecchi voti del Nord Bianco in voti secessionisti – predicava come «i fedeli andranno in parrocchia col fazzoletto verde e si alzeranno se solo sentiranno pronunciare certi sermoni. Urleranno: “va a dà via el cù”. Si faranno seppellire avvolti nelle bandiere della Lega e se rinasceranno, saranno padani», immagini che, si diceva, oltre che essere folkloristiche paiono anche in forte odore di fine della storia, non si arenano però nei frammenti di un caleidoscopio di immagini denigratorie.

    Non c’è infatti sberleffo nella ricostruzione che Barcella dà dei protagonisti del movimento leghista, quanto piuttosto la volontà di ricreare la trama complessa delle questioni del lavoro, delle migrazioni, della salute e dell’istruzione – o con una parola: della vita – di un territorio. Si prenda ad esempio il chiaro bilancio di una delle leggi, a firma non solo leghista, più controverse: “la Bossi-Fini realizzò l’opposto di quanto si aspettasse il suo elettorato operaio, concretizzando in compenso le attese del suo mondo imprenditoriale di riferimento: una diminuzione del costo del lavoro, ottenuta attraverso una potente iniezione di manodopera a basso costo, resa più flessibile e meno sindacalizzabile grazie alla riforma del mercato del lavoro” (p. 112).

    Questi territori però sono stati, e sono, vissuti da persone che si trovano costantemente immerse, volenti o nolenti, in una narrazione e in un’ideologia, che come si diceva poco sopra, risulta forse essere la vera vittoria sul lungo periodo per la compagine leghista; e allora ricordare lo sdoganamento della brutalità del linguaggio, con cui si sono attivamente assuefatte ormai più di una generazione, è esercizio non solo utile ma soprattutto non fine a se stesso, quando riesce appunto, come nelle mani di Barcella, a raccontare e ricostruire sia un territorio che le sue persone senza – per dirla con Gramsci – disprezzarli o credervisi superiori. 

    Questo libro non si ferma certo alla stagione bossiana, come può forse apparire da queste brevi righe, ma si occupa a pieno anche della svolta salviniana. Svolta sì, perché un’analisi attenta sia alla parola che all’azione politica non può mancare di rilevare i punti di contatto e di continuità tra i due momenti, che emergono ad esempio dalle riforme fiscali, da sempre punto programmatico leghista: “La flat tax, in sostanza, aggiornava l’antifiscalismo bossiano degli anni Novanta, secondo il quale «la cosiddetta elusione fiscale, ossia l’uso di norme legali per ridurre l’imposta dovuta, è un’autodifesa assolutamente lecita» (cit. Bossi, 1992). Lo stesso segmento di capitalismo italiano trovava nell’uscita dall’euro la via per consentire ai paesi meridionali dell’Eurozona di superare la recessione, ristabilendo la propria competitività attraverso lo strumento della svalutazione” (p. 157). Ecco allora come l’anima populista e sovranista rimanga poi sempre la stessa in entrambe le anime leghiste, e appaia più chiaro come questa nomenclatura politologica, a conti fatti, occorra a definire in primis la forma del discorso degli interessi di un certo capitalismo: quello nazionale, per sua natura protezionista e reazionario, ben opposto invece a quel Capitale globale che le barriere, di ogni tipo, le vuole velocemente abbattere. 

    Si ponga infine ora l’attenzione su di un ultimo punto utile a sfatare il mito del trasformismo leghista, che è indubbio essere passato, nella sua vulgata, da un ripudio del “terrone con la valigia di cartone” ad un approccio pigliatutto lungo tutto lo stivale, e che rimane, in un’altra vulgata, un rompicapo al quale la soluzione spesso si trova tacciando gli elettori di memoria corta. Nel titolo a questa recensione evocavo le fotocopiatrici e i cellulari, e se le prime sono state appunto fondamentali per la diffusione del primo pensiero leghista, i secondi invece sono stati in grado di dare una parvenza di uniformità territoriale a tutte le provincie del potere italiane.

    Insomma, il lavoro porta a porta di Umberto Bossi e della sua base di fedelissimi è stato efficacemente smaterializzato grazie alle sapienti arti di Luca Morisi e della sua “bestia” che, grazie all’immagine di un Matteo Salvini intento a divorare un pane e nutella – proprio come ognuno di noi si è più volte ritrovato a fare, è riuscito, in pieno spirito dell’era di Internet, a far collassare le distanze e le differenze percepite tra le provincie del Sud e quelle del Nord. Certo, ci sono stati e ci sono problemi che possono essere definiti ben più gravi che i massicci consensi ottenuti da un partito di destra che si reinventa da più di trent’anni ormai, e interessarsi ora di un fenomeno che pare in declino, in luce proprio di questi ben più gravi fatti, potrebbe sembrare addirittura anacronistico. Finiamo però ora di vedere la sigla iniziale di Profondo Nord: ecco che infine ci viene presentata una ballerina dallo spiccato accento francese che ci esorta: «Calma! E se fosse soltanto una questione di modà?»; e se invece però, come il libro di Barcella ben dimostra, questo fenomeno leghista, soltanto una moda non fosse?

    Note