Startup a vocazione sociale

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    Se le startup innovative viaggiano col vento in poppa, quelle “a vocazione sociale” (SIaVS) sono impegnate in una più difficile (ma forse anche più sfidante) navigazione controvento. Le prime sono migliaia, le seconde solo qualche decina e l’impressione è che il divario non si misuri solo in termini assoluti, ma anche in termini di qualità.

    Si contano sulle dita di una mano le SIaVS che sono benchmark di settore grazie a una interpretazione radicalmente nuova della loro vocazione sociale. E, all’opposto, guardando alle attività svolte da questa nuova genìa d’impresa, in più di qualche caso si fa fatica a cogliere il carattere autenticamente sociale dell’iniziativa.

    Per risolvere il problema le strade sono due. La prima, impegnativa, è cambiare la direzione del vento. Fuor di metafora significa cambiare l’impostazione di politiche per l’innovazione che per essere realmente efficaci devono incrociare altri contesti generativi oltre a quello tecnologico.

    La vera sfida è fare da enzima per rigenerare i modelli più consolidati.

    Contesti che peraltro si manifestano in modo sempre più nitido intorno a iniziative imprenditoriali che nella coesione sociale individuano sia il fine che un vero e proprio “fattore di produzione” e di competitività. La riprova, l’ultima in ordine di tempo, è la ricerca di Symbola che traccia una interessante geografia della produzione del valore sociale.

    Una inedita mappa del Belpaese rispetto alla quale le SIaVS potrebbero giocare il ruolo non di “uno tra i tanti” che già provano a incorporare in maniera stabile e sostenibile elementi di valore sociale e ambientale nelle loro economie. La vera sfida è fare da enzima per rigenerare i modelli più consolidati. Ma per questo le SIaVS devono uscire dalla nicchia in cui sono nate. Stesso curioso destino delle “cugine” imprese sociali.

    La seconda strada, più pragmatica, è quella di prendere atto della difficoltà a cambiare il vento (almeno nell’immediato) e quindi dotarsi di strumenti migliori per navigare di bolina. È questa la strada seguita dalla recentissima circolare del MISE che ridefinisce i criteri di assegnazione della qualifica sociale alle startup innovative.

    Se fino a ieri si trattava di un riconoscimento ex ante (il fatto di operare nei settori di attività a elevato “contenuto sociale” individuati dalla norma sull’impresa sociale), da domani la vocazione sociale dovrà invece essere dichiarata attraverso un’autocertificazione e soprattutto con la redazione a cadenza annuale di un “Documento di descrizione dell’impatto sociale”.

    Al di là della struttura e dei contenuti del documento, è importante evidenziare un cambio di impostazione che potrebbe verificarsi anche per le imprese sociali, considerando che nell’ambito della riforma del terzo settore queste imprese vengono ridefinite come organizzazioni che perseguono un impatto sociale “positivo e rendicontabile”.

    Sarà quindi l’obbligo di redazione del documento di impatto a rilanciare le SIaV come veicolo di innovazione sociale? Dipende. Da tanti fattori naturalmente, ma da uno in particolare: il sistema di feedback. Tutti i modelli di rendicontazione funzionano non in quanto tali ma sulla base dei rimandi, in particolare da parte degli stakeholder più rilevanti.

    Chi darà quindi un rimando sulla vocazione sociale? E come? Domanda tutt’altro che scontata

    Basti pensare, ad esempio, a come l’ingresso di nuovi soggetti finanziari interessati a investire in una logica d’impatto abbia contribuito a risollevare il tema degli indicatori di performance sociale, dopo che per anni il dibattito è stato confinato tra gli “addetti ai lavori”. Nel caso delle SIaVS la casistica è un po’ diversa: c’è di mezzo la concessione di una qualifica normativa e quindi l’accesso a misure agevolative, mercati, ecc.

    Chi darà quindi un rimando sulla vocazione sociale? E come? Domanda tutt’altro che scontata considerando che in quanto startup si tratta di organizzazioni nascenti dove quindi non solo i risultati, ma anche la missione sociale potrebbe risultare sfumata. Il rischio è che questa documentazione – peraltro non semplice da produrre – si accumuli senza generare un riverbero, sia per i promotori che per i policy maker.

    Un po’ come è successo per il bilancio sociale reso obbligatorio per le imprese sociali e, in alcune regioni, anche per le cooperative sociali. Migliaia di documenti rimasti inerti, anche a livello analitico. La soluzione di costituire un “regulator” sul modello delle imprese sociali inglesi, assegnandogli una funzione di controllo e di sostegno appare poco praticabile di questi tempi.

    Più realistico, anche se non semplice, potrebbe essere un maggior coinvolgimento del sistema camerale. O ancora una maggiore responsabilizzazione dell’ecosistema di accompagnamento – degli incubatori certificati in particolare – affinché attraverso un rimando non semplicemente autorizzativo, generino maggiore attrattività nei confronti delle startup sociali.

    da Tempi ibridi

    Note