La solitudine dei traduttori

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    Questo articolo di Giacomo Papi è stato originariamente pubblicato su Il Post. Clicca il pulsante in basso per leggere il testo completo.

    Nella classifica dei mestieri solitari, i traduttori si giocano il primo posto con i guardiani del faro. La voce di chi scrive, al di là della pagina, e i personaggi che ci vivono dentro, tengono compagnia al traduttore come le navi lontane e gli stridii dei gabbiani ai guardiani del faro. Navi e gabbiani sono più concreti; voci e personaggi – a volte, non sempre – più variegati e interessanti. Vivere in compagnia di parole altrui, da riscrivere da capo ma in cui scomparire, può provocare alienazione: anche perché gli scrittori, i personaggi e le idee spesso sono intensi, ossessivi o, peggio, noiosi. Passare la vita a scrivere cose scritte da altri, alimenta lo stupore che la scrittura esista e resista anche al di fuori della lingua in cui è nata, ma impone dolorosamente di scomparire dentro il proprio lavoro. Tradurre comporta anche qualche vantaggio, oltre all’assenza di scocciatori reali: non dover uscire di casa quando piove, per esempio, o poter organizzare il proprio tempo senza essere legati a un unico luogo. Oggi, per esempio, Gioia Guerzoni – che traduce dall’inglese per Einaudi, Mondadori, Feltrinelli, Saggiatore, NN, Racconti, Codice e Contrasto, non più per Fazi – abita ad Haifa, in Israele, ma in passato ha abitato in Scozia, India e America. Se avesse scelto un altro mestiere non avrebbe potuto.

    Note

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