Il coworking come strumento di politiche per il lavoro

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    Che quello degli spazi condivisi di lavoro sia un fenomeno è ormai certo. I numeri confermano un’evidenza empirica che ormai supera i confini dei grandi agglomerati urbani. Gli spazi di coworking si sono affacciati anche ai piccoli comuni. Crescono rapidamente e si intrecciano luoghi nati da piccoli gruppi di free-lancer per migliorare le proprie performances professionali, progetti avviati da imprese per aggregare e mettere in relazione professionalità diverse ma complementari e processi di riorganizzazione del lavoro per aumentarne la produttività attraverso una migliore circolazione della conoscenza.

    Gli spazi di coworking si stanno quindi affermando come strumento per sviluppare economie di rete, come nuova forma di imprenditorialità in senso lato social e come nuova forma di organizzazione del lavoro per rigenerare processi produttivi storici. Su tutti questi fronti c’è ancora molto da indagare, il fenomeno è recente e in progressiva accelerazione e le accademie se ne sono ancora occupate poco. È ora più che mai metterci il naso per indagare la qualità dei processi innescati oltre alla quantità degli stessi.

    Il narcisismo e la capacità di networking che finora hanno caratterizzato i protagonisti di questi luoghi-progetto possono essere leve potenti per sviluppare in tempi rapidi analisi approfondite e un imponente accumulo di dati, che a mio avviso dovrebbero essere open per poter essere lavorati contemporaneamente da comunità di pratica e da comunità di studio.

    Con questo post provo però ad aggiungere un ulteriore elemento di riflessione, sul quale mi piacerebbe approfondire a breve ibridando ricerca e sperimentazione: può il coworking diventare uno strumento di politiche per il lavoro al tempo della flessicurezza?

    In Deconstructing Flexicurity and Developing Alternative Approaches (Routledge, 2014) Maarten Keune e Amparo Serrano ci aiutano a cogliere come il concetto di flessicurezza sia arrivato ad occupare un posto centrale nei dibattiti politici e accademici in materia di occupazione e politiche sociali. Mescolando e fondendo le “parole logo” flessibilità e sicurezza in una nuova parola di moda, nella quale è depoliticizzata la storica conflittualità tra capitale e lavoro, viene contemporaneamente affermata la necessità di un aumento crescente della flessibilità e di una progressiva individualizzazione delle forme di protezione sociale. In Keune e Serrano vengono enfatizzati, in relazione alla flessicurezza e all’individualizzazione delle protezione sociale, l’aumento della precarietà e l’indebolimento del lavoro in relazione al capitale.

     

    L’enfasi posta dal discorso dei coworking sui temi dei lone workers e del networking ci accompagna lungo la strada proposta dai due autori. Le condizioni del lavoro all’interno degli spazi di coworking portate alla luce da Adam Arvidsson ed Elanor Colleoni in Coworking – la nuova organizzazione del lavoro cognitivo confermano la problematicità di un’esistenza economica turbolenta (salari lordi tra i 1500 e i 2000 euro che in presenza prevalentemente di partite iva si riducono notevolmente in termini di disponibilità economica reale). Malgrado ciò, la quasi totalità dei coworkers dichiara di essere molto soddisfatto della propria situazione lavorativa. Siamo quindi di fronte a lavoratori e lavoratrici con una bassa retribuzione ma motivati da forti “passioni”. Seguendo questo filone di analisi, “il coworking diventa un luogo per la creazione e condivisione del capitale sociale necessario per stare sul mercato”.

    Ma come si sta sul mercato all’interno degli spazi di lavoro condiviso? Le interazioni quotidiane si configurano come continue occasioni di confronto e scambio nel corso delle quali i saperi espliciti e quelli taciti si redistribuiscono generando processi assimilabili a quella che tecnicamente viene chiamata formazione continua. La compresenza di persone e professionalità differenti rende possibile un numero quasi infinito di configurazioni del capitale umano coinvolto, favorendo così la possibilità di articolare risposte flessibili su un mercato in continua e rapida trasformazione. L’attivazione continua di forme di mutuo-aiuto per lo sviluppo di progetti congiunti accentuano l’interdipendenza tra gli attori e generano vere e proprie comunità di progetto caratterizzate da elevati livelli di competenza. L’oscillazione continua tra esperienze di collaborazione (condivisione dei mezzi) e di cooperazione (condivisione dei mezzi con i fini) promuovono fenomeni che sono fortemente social e un repertorio crescente di innovazioni in una fase storica in cui la domanda di innovazione sociale è ampiamente diffusa.

    Come per il concetto di flessicurezza anche qui, nell’ambito del coworking, i temi della flessibilità e della protezione sociale convergono alimentando una contraddizione crescente tra dimensione mutualistica e collettiva e spinta all’individualizzazione della protezione sociale. Questo avviene in un momento in cui le politiche pubbliche per il lavoro, pur cercando di ricombinare in modo innovativo i fattori in gioco, sono ancora progettate e implementate secondo modelli che rispondono ad una “vecchia” organizzazione del lavoro. La grande fatica dei Centri per l’Impiego e i sonori tonfi di imponenti programmi per l’occupazione come Garanzia Giovani sono due di molti indicatori del fenomeno appena descritto.

     

    Mentre leggevo e producevo queste analisi e riflessioni nella testa mi si è formata un’idea: cosa potrebbe accadere se per le persone disoccupate di una città mettessimo a disposizione uno spazio minimamente attrezzato (qualche PC, una connessione wifi e alcuni telefoni) ad accesso libero e poco strutturato? Quei fenomeni a cui abbiamo accennato poco sopra descrivendo gli elementi di successo del coworking si potrebbero integrare o addirittura sostituire in un’ottica di disintermediazione alle attuali forme di mediazione domanda-offerta di lavoro, affermando una dimensione collettiva e cooperativa nella ricerca attiva del lavoro.

    Riconosciuta la crescente importanza del fattore conoscenza come componente del valore della produzione e del lavoro, la dimensione cooperativa del coworking favorirebbe la circolazione di un volume crescente di conoscenze che implementerebbero il capitale relazionale, culturale e sociale degli individui alla ricerca di lavoro. Non è un’idea nuova, anzi la storia del movimento cooperativo ha già prodotto un fenomeno simile e oggi nel mondo assistiamo alla nascita di soluzioni collaborative per la ricerca del lavoro.

    Quello che però mi viene da mettere sul piatto per aprire un ragionamento collettivo è che la storia italiana dell’impresa sociale e la sua parziale ridefinizione nell’ambito del fenomeno coworking parrebbero suggerirci che questi ultimi potrebbero rappresentare la via italiana all’innovazione sociale nell’ambito delle politiche per il lavoro. Che ne dite? Potrebbe valere la pena discuterne?

     

    Foto di Jason Richard su Unsplash

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