Coworking e Fablab: quale direzione?

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    Negli ultimi tre anni si è scritto molto e detto ancor di più su coworking e fablab. Come vediamo accadere con un’intensità crescente, anche qui alcune singole pratiche sono dapprima state assunte all’interno di importanti documenti di policy e rapidamente sono riprecipitate nella realtà con volumi aumentati.

    Sono stati presentati come due tra i fenomeni più innovativi nei campi della produzione immateriale e materiale a livello globale ed enfatizzando questa dimensione sono state perlopiù messe in ombra alcune criticità in termini di efficacia (se tra i fablab prevale l’operatività didattica e divulgativa è anche perché non è ancora stato individuato il quid che li renderebbe appetibili per le imprese), efficienza (se molti coworking stanno virando verso il modello del business center è perché non sempre la troppa condivisione funziona) e impatto (al di fuori di ristrette cerchie di settore le persone continuano a non sapere cosa sono e come funzionano). A queste va aggiunto anche un comune problema di sostenibilità, che attualmente impone a molti promotori di coworking e fablab regimi retributivi bassissimi quando non nulli. Di tutto questo si è scritto e detto ancora troppo poco. Invece siamo stati bombardati da due favole che, al netto dei necessari adattamenti, potrebbero contendere il primato a Frozen.

    Nella prima… C’era una volta una società della conoscenza nella quale la produttività, che era potere, dipendeva dalla capacità di produrre e utilizzare informazioni e saperi che a loro volta scaturivano nell’ambito di processi complessi di interazione. Il coworking veniva allora identificato una delle più efficaci forme di governo della produttività.

    Nella seconda… C’era un volta un mondo nel quale il problema non era più trovare modi sempre più efficaci per produrre, ma di trovare modi sempre nuovi di far assorbire una tale capacità produttiva. Il potere non risiedeva più nella produzione di massa ma nella personalizzazione di massa e il Fablab era identificato come principe di questo nuovo regno.

    Una volta… non è più oggi? Da qualche mese è diminuita l’intensità, ancora elevata, con la quale il discorso pubblico ha raccontato queste favole (che come ogni favola avevano un ancoraggio morale alla realtà) e si sono aperte le prime crepe, che hanno preso la forma di critiche ai poteri demiurgici dei due fenomeni.

    Il discorso sui coworking e i fablab è già avviato ad una fase calante? È iniziata la corsa ad intercettare il prossimo trendy-topic? Se sì, ci stiamo esponendo al rischio di buttare via, assieme alle retoriche e alle réclame che in questi anni hanno accompagnato l’onda, quanto di sensato e strategico c’era, in comune, nei due discorsi in relazione al rapporto tra interazione sociale (conflittuale oltre che cooperativa e collaborativa) e innovazione.

    coworking

    ph. Valentina Sommariva

    Per questa ragione, prima di raggiungere il punto di oblio, potrebbe valere la pensa rispondere ad altre due domande: C’è qualcosa in quei discorsi che dovremmo salvaguardare? Se sì, chi potrebbe farsene carico?

    Una risposta articolata alla prima domanda ci porterebbe molto lontano, ma si possono intanto mettere ad elenco due questioni per impostare la ricerca di una risposta:

    1) L’assunzione delle dimensioni interazionali dei coworking e dei fablab nelle filiere produttive determina l’incorporazione della dimensione comunitaria nella stessa economia reale (Busacca, 2015). I coworking e i fablab diventano spazi di lavoro comune che si propongono di generare conoscenza organizzata e di qualità, nei quali i co-workers hanno libero accesso a e producono un apprendimento continuo e consapevole. Queste pratiche favoriscono così la possibilità di introdurre cambiamenti nelle modalità di produzione per perseguire un obiettivo comune a due o più membri della comunità. Comunità di pratica (Wenger & McDermott & Synder, 2002), comunità di azione (Zacklad, 2003; Pemberton-Billing & Cooper & Wootton & North, 2003) e comunità d’intenti (Wenger, 1995; Cigognini & Barella & Švab, 2005) si fondono originando comunità di progetto nelle quali una pluralità di attori collaborano (condivisione dei mezzi) e cooperano (condivisione dei mezzi insieme ai fini) per trovare soluzioni alla multiproblematicità del contesto nel quale operano.

    2) Al di fuori di coworking e fablab, ispirandosi alla social inquiry di Dewey (1938) è possibile inquadrare i processi partecipativi di deliberazione come fenomeni cognitivi che attraverso processi sociali interattivi generano forme plurime di apprendimento e conoscenza nell’azione, al di fuori di una prospettiva razionalista che vincola positivamente la relazione tra intenzioni, conoscenza, scelta e pratiche (Pasqui, 2005). In questa direzione, l’attenzione è posta sui processi di costituzione di senso in comune, ovvero sui modi nei quali i processi sociali producono pragmaticamente significati inediti. Rientrando nel nostro perimetro di riflessione, coworking e fablab diventerebbero così pratiche impolitiche (Pellizzoni, 1998; Crosta, 2000) nelle quali sperimentare “l’esercizio dell’intelligenza sociale e della capacità della società di sperimentare nuove forme di partecipazione” (Pasqui, 2005), favorendo un esercizio che nella società delle differenze può assumere una forma politica in discontinuità con la tradizione classica (Arendt, 1989) e nella generazione di un’idea di pubblico come spazio dell’interazione sociale (Crosta, 2000).

    Il solo dubbio che un’analisi delle pratiche dei coworking e dei fablab possa sostenere una ricerca su questi due temi è di per sé ragione valida per tenere le lenti puntate su di loro.

    La risposta alla seconda domanda è altrettanto complessa e necessita una premessa epistemologica: se si assume una prospettiva interazionista e plurale delle pratiche (Pasqui, 2001), la domanda di partenza è allora mal posta perché le pratiche (anche l’innovazione è una pratica) perdono i caratteri di intenzionalità, razionalità e deliberazione e divengono eventi che accadono, anche non intenzionalmente, all’interno di campi strutturati di saperi, poteri, soggetti, abiti, routine e condotte (Wittgenstein, 1978; Bourdieu, 1980; 2003). Non c’è dunque un soggetto che mediante politiche o iniziative possa farsi carico delle pratiche di innovazione, ci sono piuttosto una pluralità di soggetti che nell’interazione producono apprendimento collettivo (Peirce-James, 2000; Dewey, 1938) ed esiti non sempre prevedibili. Se le pratiche di coworking e fablab sono quindi assunte come occasioni per accrescere la capacitazione, la domanda corretta diventa chi può favorire tali processi interazionali e plurali di capacity building?

    coworking

    ph. Valentina Sommariva

    Riformulata la domanda è ora possibile delineare alcune possibili piste di lavoro.

    Una prima risposta potrebbe (o forse dovrebbe?) essere la Politica, solo che già mentre la scriviamo ci accorgiamo di pronunciare una sciocchezza se è vero, come sostiene Bauman, che è ormai diffusa l’idea (che in alcuni casi assurge al rango di prova) “che i nostri leader non sono solo corrotti o stupidi, ma inetti” anche a causa di “istituzioni democratiche che non sono state progettati per affrontare situazioni di interdipendenza”.

    Una seconda risposta potrebbe essere quell’entità quasi mitica che chiamiamo società, però uno sguardo minimamente obiettivo non può non notare che le migliaia di pratiche di innovazione sociale realizzate e premiate negli ultimi anni hanno spostato di uno “zero-virgola” i processi globali, molto spesso strette nella contraddizione di un’operatività locale incapace di influire su forze e dinamiche che sono globali.

    Altri ancora, e siamo alla terza risposta, puntano almeno dagli anni ’90 sulla governance, intendendola una forma di strutturazione di interessi plurali intorno a strategie coerenti (March & Olsen, 1997). Anche decidendo acriticamente di fidarsi di questo punto di vista, non riesco a piegare la sensazione che sia come dare l’insulina ad un diabetico: funziona per tenere sotto controllo la malattia ed evitare crisi acute (che già non sarebbe male visti i cicli economico-sociali-politici degli ultimi 8 anni…), però non la affronta alla radice.

    Se invece, come da più parti si va affermando e come fa lo stesso Bauman nell’intervista poco sopra citata, siamo di fronte ad una fase di transizione da un paradigma noto ad uno ancora in costruzione, credo ci potrebbe essere un punto di vista pragmatico (nel senso di Dewey e Peirce, soprattutto), che avrebbe un effetto secondario non trascurabile: placare quel rumore di fondo e assordante che provoca il continuo proferir parola delle tifoserie avverse di entusiasti e detrattori dei coworking e dei fablab, così come dell’innovazione nelle sue ormai numerose declinazioni.

    Siamo in una fase di transizione. Sappiamo, più o meno, da dove veniamo. Non abbiamo la minima idea di dove arriveremo. In questo quadro, il mix tra intenzione e accidente è molto grande e potrebbe allora valere la pena alimentare una pluralità e una varietà di pratiche, lasciandole operare nella costruzione di senso e di altre pratiche ancora. Con una sola accortezza: valutarle criticamente. Pare retorica ma non lo è dato che il più delle volte le pratiche si dismettono o si dimenticano rincorrendo le nuove mode.

    Oggi lo Stato, gli attori privati e quelli ibridi sono vestiti di una serie di abiti che impongono loro di mettere l’economicità dei processi in cima alle priorità. Di fronte ad un bisogno crescente di innovazione e alla difficoltà di operare mediante economie di scala [Malgrado una certa retorica lo elida è ancora ampiamente riconosciuto che i bisogni sociali a cui l’innovazione sociale dovrebbe rispondere sono storicamente e spazialmente dati, identificati da gruppi più o meno ampi di esseri umani. Per quanto la crisi di risorse la stia minando, la ricerca di soluzioni specifiche, il più possibile ritagliate su misura, rimane allora una tensione costante nelle pratiche di innovazione], l’attenzione viene spostata sulle economia di replicazione, per le quali i modelli rappresentano lo strumento privilegiato di trasferimento (è qui possibile leggere la recente ascesa dei designer come protagonisti dell’innovazione sociale e culturale?).

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    ph. Valentina Sommariva

    Nella continua tensione tra innovazione e istituzionalizzazione, le pratiche di innovazione sociale che scelgono la via del modello corrono il rischio di limitare il potenziale della prima e di favorire un veloce slittamento verso la seconda. È evidente il possibile beneficio di chi disegna le policy, ma il rischio è che i tempi di percorrenza verso il nuovo paradigma potrebbero essere più lunghi del necessario, a scapito di chi le policy le promuove.

    La domanda preliminare, allora, potrebbe cambiare per diventare per chi può essere conveniente assemblare (Farias, 2011) piuttosto che modellizzare? I principali indiziati sono più o meno tutti noti e inventarne di nuovi potrebbe non servire, se non addirittura essere controproducente. La cooperazione sociale è tra loro: il suo stesso nome mette al lavoro tutte le dimensioni finora toccate e forse anche altre. Ma su questo fronte è già aperta una riflessione sia interna che esterna che, seppure lentamente, sta provocando alcuni slittamenti. Alcuni attori collettivi che scelgono intenzionalmente di intraprendere progetti di innovazione sociale sono anch’essi indiziati. Invece, se c’è un attore che scrive e dice molto (in alcuni casi anche troppo), ma del quale si scrive e si dice troppo poco, questo è l’Università, che nelle sue tre missioni (ricerca, formazione e terza missione) identifica tutte le forze necessarie ad attivare quei processi di cui si è scritto.

    Credo ce ne siano anche altri e forse non c’è una risposta univoca, però iniziare ad indicarne alcuni potrebbe essere il tentativo di cominciare un elenco… A volta l’errore non è nella risposta ma si nasconde nella domanda.

    Note