Benefit corporation: un caso studio

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    Nuovi abitanti si aggirano per il modo dell’innovazione, le B-Corp. Arrivano da lontano e sono atterrate anche all’interno del nostro ordinamento.

    Con l’approvazione della legge di stabilità sono state introdotte in Italia le società benefit, imprese che “nell’esercizio di una attività economica, oltre allo scopo di dividerne gli utili, perseguono una o più finalita’ di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse”.

    Già la lettura di questo primo articolo conferma come il target sia rappresentato da società (di persone, di capitali, cooperative, etc.) e come di conseguenza si esca da una dimensione prettamente non profit, quasi evocata dalle finalità di beneficio comune che impone di perseguire la norma, per entrare all’interno di un contesto esclusivamente imprenditoriale.

    Quando si parla di Benefit Corporation, ci si riferisce a due fenomeni diversi ma complementari ovvero da un lato le B-Corp – una certificazione che può essere ottenuta da qualsiasi impresa privata che rispetti determinati standard – e dall’altro la Benefit Corporation, una vera e propria forma giuridica introdotta per la prima volta negli Stati Uniti e da qualche mese anche in Italia con la denominazione società benefit.

    E’ utile sottolineare come in Italia, rispetto a questa nuova figura societaria, non siano state introdotte ne deroghe ne tantomeno agevolazioni, di conseguenza – come ha sottolineato in un articolo pubblicato su Vita il Professor Stefano Zamagni – la scelta di intraprendere questo percorso rappresenterebbe principalmente un investimento sul “capitale reputazionale” delle aziende.

    Al di là di questa necessaria e doverosa precisazione, è del tutto evidente che questo nuovo movimento cerca di superare i tradizionali concetti di sostenibilità e responsabilità sociale d’impresa, facendo si che gli stessi diventino parte integrante di un modello di business che incorpora sia la dimensione economica che quella sociale.

    C’è da dire che il provvedimento ha un impianto molto soft, aspetto di certo positivo; se è vero infatti che le norme creano fiducia e altrettanto vero che una legislazione troppo stringete rischia di soffocare sul nascere dei processi di innovazione, che necessitano invece di regole semplici e di immediata applicazione.

    Solo per fare un esempio la proposta di legge su la “Disciplina delle piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi e disposizioni per la promozione dell’economia della condivisione”, il cd. “Sharing Economy Act”, è già protagonista di un dibattito molto acceso ed anche l’esperienza del crowdfunding equity based, la cui disciplina è stata modificata di recente, dimostrano quanto sia complesso riuscire ad intercettare (da un punto di vista normativo) la direzione di fenomeni mutevoli ed in costante evoluzione.

    Si ha l’impressione di muoversi all’interno di un contesto che non vede più l’impresa come volta esclusivamente alla massimizzazione del profitto, ma che guarda piuttosto all’affermazione di un “altro” capitalismo in grado di far attecchire formule imprenditoriali innovative e sostenibili.

    Delle manovre di avvicinamento c’erano già state, dalla norma sull’impresa sociale passando per le start-up innovative a vocazione sociale, da tempo si cerca di codificare un fenomeno che assume delle dimensioni sempre più rilevanti e che, spesso, sfugge alle classificazioni tradizionali.

    Come emerge da alcuni studi sull’argomento, sono oltre 61.000 le imprese di capitali operative nei settori di attività previsti dal D.Lgs 155/06 (assistenza sociale, istruzione, turismo sociale, ricerca ed erogazione di servizi culturali, tutela dell’ambiente etc.), a fronte di qualche centinaio di imprese sociali ex lege e poche decine di start up innovative a vocazione sociale (si veda il Rapporto di Iris Network, “L’impresa Sociale in Italia: identità e sviluppo in un quadro di riforma” a cura di P. Venturi e F. Zandonai).

    Si tratta certamente di un bacino all’interno del quale andranno a pescare le (potenziali) società benefit, la cui disciplina potrebbe rappresentare un appiglio per quei soggetti alla ricerca di riferimenti normativi precisi.

    Tornano al contenuto del provvedimento, è utile fissare alcuni concetti essenziali ovvero: attività economica, beneficio comune, bilanciamento degli interessi, misurazione dell’impatto.

    Questo è il terreno su cui dovranno camminare le società benefit, ragionando non solo nell’ottica di dover rendicontare rispetto all’ attività di beneficio comune svolta – sul punto vi è l’obbligo di depositare un report annuale da allegare al bilancio – ma anche e soprattutto di valutare l’impatto generato utilizzando uno standard esterno, indipendente, credibile e trasparente, che tenga conto di diverse aree di valutazione fra le quali il governo d’impresa, i lavoratori, l’ambiente, etc.

    È inutile dire che la sfida principale è legata alle metriche ed agli strumenti di valutazione che saranno utilizzati per misurare l’impatto delle società benefit, in quanto occorrerà necessariamente individuare degli indicatori specifici e, soprattutto, condivisi.

    Anche il mondo dell’impact investing e degli investitori pazienti potrebbe guardare con interesse a questo nuovo movimento. Se è vero che – come riportato nel report della Social Impact Investment Task Force italiana istituita in ambito G8 – l’impact investing è un’attività di investimento in imprese che operano con l’obiettivo di generare un impatto sociale misurabile e compatibile con un rendimento economico, il modello delle società benefit potrebbe rappresentare un target di primo piano.

    Resta fermo il fatto che siamo all’interno di un contesto liquido dove le vecchie e rigide bipartizioni fra profit/non profit, impresa/sociale non sembrano più raccontare bene l’ambiente all’interno del quale ci si muove; si sta passando infatti da qualifiche basate su requisiti (formali) definiti ex ante, ad un sistema che si regge invece sulla misurazione dell’impatto.

    Un dato è certo: si tratta di imprese for profit che perseguono un duplice scopo, di lucro e di beneficio comune. Le due dimensioni sembrano collocarsi sullo stesso piano: mentre nei modelli sviluppati fino ad oggi il raggiungimento di una finalità sociale veniva supportato da una infrastruttura imprenditoriale, in questo caso le due dimensioni sembrano viaggiare su un binario parallelo: l’attività di impresa non è – infatti – funzione di una finalità di interesse collettivo, come accade per le imprese sociali, ne tantomeno il beneficio comunque rappresenta un “di cui” dell’attività di impresa.

    In ogni caso, la diffusione globale del modello suggerisce di non sottovalutarne gli sviluppi: di certo occorre leggere il fenomeno all’interno del contesto italiano dove il Terzo Settore avverte le società benefit come un possibile competitor, alcuni imprenditori come un’opportunità in grado di conferire maggiore efficacia al proprio business, altri come l’ennesima etichetta.

    Di recente nel corso di un convegno il sociologo Aldo Bonomi – ricordando la visione imprenditoriale di Adriano Olivetti – ha paragonato le società benefit all’uovo di Colombo e forse è anche vero che era già tutto previsto, come presagiva un articolo di qualche anno fa: “We are in a new era. For-profit businesses are tackling social and environmental issues, nonprofits are developing sustainable business models, and governments are forging market-based approaches to service delivery. Out of this blurring of traditional boundaries, a different model of enterprise is emerging, driven by entrepreneurs who are motivated by social aims” (H. Sabeti, The For Benefit Enterprise, Harward Business Review, 2011).

    Note