PostMetropolis. Una serie mensile di Filippo Barbera per cheFare. La città non è finita. Ma non è neppure infinita. Cambiano i suoi confini, le sue funzioni e i rapporti che intrattiene con il policentrismo territoriale. Questo è Postmetropolis. Dove i confini creano i luoghi. L’ultima puntata qui.
PostMetropolis. Dove i confini creano i luoghi. Una serie mensile di Filippo Barbera per cheFare
Quanto vale una balena, ci siamo chiesti nel post precedente? A prima vista questa domanda può sembrare assurda, priva di una logica o forse soltanto provocatoria. Ma non è così, e nella sua apparente follia nasconde alcune (scomode) verità e ambiguità che stanno alla base del complesso legame che passa oggi tra finanza, ecologia e crisi climatica (Adrienne Buller, Quanto vale una balena, ADD, Torino, 2024). Nel 2019 i ricercatori del Fondo Monetario Internazionale (FMI) hanno calcolato che il valore di una singola grande balena in natura è di 2 milioni di dollari. Questa cifra rappresenta il contributo monetario che una singola balena apporta nel corso della sua vita all’ecoturismo e il valore delle 33 tonnellate di anidride carbonica che essa sequestrerebbe. La monetizzazione della natura in questo modo è sempre più promossa come soluzione per la conservazione e la gestione della natura. Adrienne Buller si riferisce a questo approccio come “capitalismo verde” e presenta un’argomentazione convincente sul fatto che si tratta in gran parte di un’illusione e non di una soluzione. Il “capitalismo verde” è descritto come un tentativo di affrontare la crisi ambientale e climatica globale creando un nuovo meccanismo di mercato per l’accumulazione capitalistica, riducendo al minimo le interferenze con l’attuale sistema economico globale incentrato sul mercato.
Una questione fondamentale è se sia ragionevole e realistico pensare che lo stesso sistema economico capitalista incentrato sul mercato, che è stato la causa principale della crisi ambientale e climatica, possa anche essere la soluzione attraverso l’adozione di un “capitalismo verde”. Alla luce delle prove presentate nel libro della Buller, la risposta è chiaramente negativa. I dati disponibili indicano che per affrontare la crisi ambientale e climatica è necessario un effettivo ridimensionamento della produzione economica e dei consumi nei Paesi più ricchi che compongono le economie del Nord. È un’idea scomoda, specie per chi – come noi – gode dei benefici di una crescita del PIL. Del resto, dobbiamo riconoscere che l’attuale sistema economico incentrato sul mercato non riesce a garantire alla maggior parte della popolazione globale, in particolare nelle economie del Sud, cibo, acqua, assistenza sanitaria, istruzione e sicurezza materiale di base adeguati. Quali sono dunque le possibili strade da percorrere per creare un futuro sano, equo e sostenibile per il pianeta e l’umanità e in che modo il rapporto con la dimensione di luogo ci può aiutare a rispondere alla crisi climatica?
Bruno Latour in “Tracciare la rotta” ha sostenuto che fino a prima della crisi climatica – e fino a quando il progetto della globalizzazione è stato “sostenibile” – ci si poteva riferire allo spazio come qualcosa al cui interno collocarsi anche solo tramite latitudine e longitudine. Con la crisi climatica e con l’infrangersi del progetto globale assistiamo invece al ritorno del “terrestre”, dove i luoghi e i loro correlati tornano ad assumere enorme rilevanza. Nella definizione fornita dal citato Bruno Latour, è il “terrestre” che sostituisce il “locale”, dove chi mi è prossimo è anche l’ecosistema, le piante e gli animali come generative di effetti ma prive di voice, cioè la Terra nel suo insieme intesa come Gaia. Come nell’ecologia politica si politicizza la natura e si ridefinisce la posta in gioco nell’arena pubblica, così la crisi climatica obbliga a ridefinire la “voce di Gaia” nelle pratiche insediative e produttive delle persone-nei-luoghi.
Secondo le Nazioni Unite, le foreste coprono il 31% della superficie terrestre mondiale e assorbono circa 15,6 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (CO2) ogni anno. Gli alberi producono effetti, ma non hanno voce. Così come gli animali e tutto ciò che pertiene al “terrestre”. Si pensi, per esempio, al suolo come ecosistema brulicante di vita e abitato in pochi centimetri da esseri viventi, un vero e proprio laboratorio che trattiene e cede l’acqua, sequestra la CO2, crea l’humus che rende fertile la terra e che permette la nostra vita e quella degli animali ed è una vera farmacia a cielo aperto. Pensare alle persone-nei-luoghi in rapporto non al locale ma al “terrestre” significa mettersi in grado di descrivere i diversi assemblaggi dove vita e lavoro delle persone si co-costituiscono con le specificità culturali, materiali, istituzionali, economiche ed ecologiche dei e nei luoghi.
Questa concezione mette in guardia dal considerare il locale come un livello di scala più grande, cioè come un ritaglio spaziale più piccolo rispetto al globale. È, questa, la cosiddetta trappola del locale. Se lo guardiamo dal punto di vista del “terrestre”, in realtà, tutto è transcalare, tutto connette il “vicino” al “lontano”: lo è l’acqua che beviamo, l’aria che respiriamo, il cibo e l’informazione di cui disponiamo. Il locale va quindi più correttamente interpretato come una strategia di uno o più gruppi di attori che mettono in pratica la transcalarità per scopi che possono più o meno coincidere con quelli delle persone-nei-luoghi. Così inteso, esso rappresenta non solo i valori e gli interessi di ciò che è nativo, auto-contenuto, originario, legato alla tradizione e “più piccolo”, ma l’insieme del capitale territoriale di interesse sovra-locale composto da biodiversità, equilibri ecologici e idrogeologici, risorse primarie ed economiche, culturali e paesaggistiche. Il terrestre mette quindi in guardia tanto dall’idea di spazio assoluto e tabula rasa quanto da quella del ritorno al centro, che non permette di concepire e valorizzare ciò che è periferico e marginale, limitandosi a condannarlo a funzioni ancillari, residuali o inevitabilmente reazionarie.
Per mettere correttamente a tema il “terrestre” occorre quindi chiamare in causa il metabolismo sociale e i processi di interscambio natura-economia. La riscoperta dei “taccuini ecologici” di Marx e la diffusione globale del libro di Kohei Saito “Marx in the Anthropocene. Toward the Idea of Degrowth Communism” vanno proprio in questa direzione.
Questo approccio ci chiede di non valutare tutto con il linguaggio e gli imperativi dei mercati, della finanza, dei diritti di proprietà o dei profitti. La balena ci dice che dovremmo valutare l’economia in base al suo servizio alla vita, mentre ora valutiamo la vita in termini anzitutto economici.
Immagine di copertina di Vipin Kumar su Unsplash