Il modello del mondo fluido si adatta molto bene a descrivere come vanno oggi le cose in generale, e le forme sociali in particolare, sia per descriverne i problemi, sia per cercare di trovarvi delle soluzioni. Per ora poniamoci questa semplice domanda: come si generano e come si mantengono nel tempo, le forme?
Per il mondo solido la risposta sarebbe potuta sembrare ovvia: le forme si creano agendo su dei materiali (in senso fisico o metaforico). Poi durano perché, essendo solide, appunto, se nulla d’altro succede, hanno la naturale propensione a farlo. In altre parole: le cose potevano essere prodotte e, una volta prodotte, se null’altro succedeva, erano desti- nate a durare. Ovviamente non era così. O, almeno, non era precisamente così. Ma, per molto tempo, questo modo di vedere è stato quello dominante. Quello che, in un mondo in cui i cambiamenti avvenivano lentamente, permetteva di interpretare la realtà e i suoi eventi con un suficiente grado di precisione.
Cosa cambia se ci riferiamo al mondo fluido? L’esperienza ci insegna che anche nel mondo fluido si creano delle forme, come i vortici o le strutture laminari di un flusso. Questo succede quando molte particelle sono indotte dalle condizioni al contorno a muoversi in modo ordinato. Quando ciò avviene, la forma si autoproduce e si mantiene fintanto che permangono le condizioni al contorno che l’hanno generata.
Questo modo di guardare ci induce a vedere anche il risultato delle nostre azioni come un intreccio di forme fluide, la cui esistenza è resa possibile e probabile agendo sul loro ambiente. E la cui durata nel tempo dipende dalla permanenza di queste condizioni. In altre parole, in un mondo fluido, le forme sociali richiedono che si creino le condizioni favorevoli alla loro nascita e che poi se ne abbia cura.
“Creare condizioni favorevoli” e “avere cura” sono due attività che, adottando questo modello di lettura, assumono un ruolo fondamentale e caratterizzante dell’attività umana. Nel mondo solido le persone erano portate a immaginarsi, o a immaginare gli altri, come individui potenti, in grado di lasciare segni indelebili: dei demiurghi capaci di agire direttamente e con forza sul mondo, cambiandolo per sempre. Il mondo fluido, invece, ci parla dell’azione collettiva come unica possibilità per costruire ambienti favorevoli. E ci dice dell’importanza dell’attenzione e dell’ascolto delle cose nel tempo, della premura nella loro manutenzione. In breve, dell’importanza delle attività di cura.
Il mondo fluido, così come oggi lo conosciamo è caratterizzato dalla diffusione, e ora dalla crisi, dei modelli economici e delle idee, e dalle prassi politiche del neoliberismo. Non è nelle intenzioni di questo libro approfondirne la natura e le tragiche conseguenze. Però la loro pervasività è tale che non è possibile trattare i temi di cui qui ci occupiamo senza tenerne conto. Senza considerare cioè che, colonizzando l’innovazione tecnologica, tali conseguenze hanno concentrato in poche mani enormi quantità di potere e ricchezza; ha creato disoccupazione, sottoccupazione, marginalizzazione e, come reazione, l’involuzione antidemocratica cui stiamo assistendo in diverse parti del mondo. Inoltre, cercando di ridurre ogni aspetto della vita alla categoria della competizione e dell’efficienza economica, esso sta esasperando i processi di disgregazione sociale, di desertificazione di tutto ciò che è pubblico e relazionale, e di mercificazione dei beni comuni.
Però, per quanto pervasivi siano i modi di pensare e di fare neoliberisti, essi non occupano l’intera scena. Uno sguardo più attento alla realtà contemporanea ci permette di osservare un paesaggio sociale composito e dinamico in cui esistono anche altri modi di pensare e di fare. Essi sono il risultato dell’iniziativa di persone creative e intraprendenti che, confrontandosi con un problema o con un’opportunità, immaginano e mettono in pratica delle soluzioni nuove dotate di valori, al tempo stesso individuali e sociali (da gruppi di mutuo-aiuto, a comunità di cura, da forme di produzione in piccola scala, alla rigenerazione dei beni comuni urbani). Queste iniziative tendono a (ri)connettere le persone con i luoghi dove abitano e a rigenerare fiducia reciproca e capacità di dialogo. E, così facendo, a creare nuove comunità.
Nel tempo queste attività, prodotte all’inizio da piccoli gruppi di entusiasti, si sono estese, sono evolute e hanno trovato un riconoscimento istituzionale fino a delineare delle significative controtendenze riscontrabili in tutti gli ambiti della vita quotidiana: servizi sociali collaborativi, forme di produzione distribuita e aperta, welfare collaborativo, reti alimentari basate su una nuova relazione tra produttori e consumatori e proposte di città intese come beni comuni. Tratto comune a tutto questo è che le persone coinvolte rompono con l’individualismo proposto dalla cultura dominante e decidono di collaborare per arrivare, assieme, a dei risultati che abbiano valore per ciascuno e per tutti. Cioè, per i partecipanti e per la società nel suo complesso.
Questo insieme di attività che parte dall’iniziativa di piccoli gruppi e può arrivare a incidere sulle istituzioni e sulla politica anche su grande scala, è ciò cui, di qui in avanti, mi riferirò usando l’espressione innovazione sociale: un termine che negli ultimi anni è stato molto usato, attribuendogli diversi significati. Per me significa questo: un cambiamento del sistema sociotecnico la cui natura e i cui risultati hanno anche un valore sociale, nel doppio significato di soluzione a problemi sociali e di (ri)generazione dei beni comuni fisici e sociali.
Per ottenere questi risultati è necessario che il cambiamento sistemico che si produce sia radicale. Il che richiede di ridefinire il sistema di senso in cui si pongono i temi e si trovano le soluzioni e, così facendo, di ridefinire le relazioni tra gli attori, compresi anche i rapporti di potere che le caratterizzano.
Infine, ma per me è proprio questo che rende quest’innovazione sociale così interessante, poiché si basa sulla collaborazione e rigenera i beni comuni essa è critica rispetto alle idee e alle pratiche dominanti e ciò che propone possono essere dei passi concreti verso la sostenibilità sociale e ambientale.
Detto tutto questo, va chiarito che quest’innovazione sociale, “l’innovazione sociale trasformativa”, è un sottoinsieme dell’innovazione sociale nel suo complesso. Ci sono infatti innovazioni che vanno in direzioni diverse da quella che qui ho indicato, che non hanno un carattere radicale e si limitano a proporre delle modifiche incrementali. O che vanno in direzione del tutto opposta a quella della sostenibilità ambientale e sociale. Per cui va inteso che, quando in questo libro scrivo “innovazione sociale”, quest’espressione va letta come una formula abbreviata per dire: innovazione sociale che trasforma l’esistente mettendo in atto dei passi verso la sostenibilità.
Immagine di copertina: ph. Alain Pham da Unsplash