Che cosa è l’innovazione sociale trasformativa?

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    Il modello del mondo fluido si adatta molto bene a descrivere come vanno oggi le cose in generale, e le forme sociali in particolare, sia per descriverne i problemi, sia per cercare di trovarvi delle soluzioni. Per ora poniamoci questa semplice domanda: come si generano e come si mantengono nel tempo, le forme?

    Per il mondo solido la risposta sarebbe potuta sembrare ovvia: le forme si creano agendo su dei materiali (in senso fisico o metaforico). Poi durano perché, essendo solide, appunto, se nulla d’altro succede, hanno la naturale propensione a farlo. In altre parole: le cose potevano essere prodotte e, una volta prodotte, se null’altro succedeva, erano desti- nate a durare. Ovviamente non era così. O, almeno, non era precisamente così. Ma, per molto tempo, questo modo di vedere è stato quello dominante. Quello che, in un mondo in cui i cambiamenti avvenivano lentamente, permetteva di interpretare la realtà e i suoi eventi con un suficiente grado di precisione.

    Pubblichiamo un estratto dal libro di Ezio Manzini, Politiche del quotidiano che verrà presentato oggi alle 18.00 presso la Triennale di Milano con Stefano Boeri, Annibale D’Elia e Giordana Ferri.

    Cosa cambia se ci riferiamo al mondo fluido? L’esperienza ci insegna che anche nel mondo fluido si creano delle forme, come i vortici o le strutture laminari di un flusso. Questo succede quando molte particelle sono indotte dalle condizioni al contorno a muoversi in modo ordinato. Quando ciò avviene, la forma si autoproduce e si mantiene fintanto che permangono le condizioni al contorno che l’hanno generata.

    Questo modo di guardare ci induce a vedere anche il risultato delle nostre azioni come un intreccio di forme fluide, la cui esistenza è resa possibile e probabile agendo sul loro ambiente. E la cui durata nel tempo dipende dalla permanenza di queste condizioni. In altre parole, in un mondo fluido, le forme sociali richiedono che si creino le condizioni favorevoli alla loro nascita e che poi se ne abbia cura.

    “Creare condizioni favorevoli” e “avere cura” sono due attività che, adottando questo modello di lettura, assumono un ruolo fondamentale e caratterizzante dell’attività umana. Nel mondo solido le persone erano portate a immaginarsi, o a immaginare gli altri, come individui potenti, in grado di lasciare segni indelebili: dei demiurghi capaci di agire direttamente e con forza sul mondo, cambiandolo per sempre. Il mondo fluido, invece, ci parla dell’azione collettiva come unica possibilità per costruire ambienti favorevoli. E ci dice dell’importanza dell’attenzione e dell’ascolto delle cose nel tempo, della premura nella loro manutenzione. In breve, dell’importanza delle attività di cura.

    Il mondo fluido, così come oggi lo conosciamo è caratterizzato dalla diffusione, e ora dalla crisi, dei modelli economici e delle idee, e dalle prassi politiche del neoliberismo. Non è nelle intenzioni di questo libro approfondirne la natura e le tragiche conseguenze. Però la loro pervasività è tale che non è possibile trattare i temi di cui qui ci occupiamo senza tenerne conto. Senza considerare cioè che, colonizzando l’innovazione tecnologica, tali conseguenze hanno concentrato in poche mani enormi quantità di potere e ricchezza; ha creato disoccupazione, sottoccupazione, marginalizzazione e, come reazione, l’involuzione antidemocratica cui stiamo assistendo in diverse parti del mondo. Inoltre, cercando di ridurre ogni aspetto della vita alla categoria della competizione e dell’efficienza economica, esso sta esasperando i processi di disgregazione sociale, di desertificazione di tutto ciò che è pubblico e relazionale, e di mercificazione dei beni comuni.

    Però, per quanto pervasivi siano i modi di pensare e di fare neoliberisti, essi non occupano l’intera scena. Uno sguardo più attento alla realtà contemporanea ci permette di osservare un paesaggio sociale composito e dinamico in cui esistono anche altri modi di pensare e di fare. Essi sono il risultato dell’iniziativa di persone creative e intraprendenti che, confrontandosi con un problema o con un’opportunità, immaginano e mettono in pratica delle soluzioni nuove dotate di valori, al tempo stesso individuali e sociali (da gruppi di mutuo-aiuto, a comunità di cura, da forme di produzione in piccola scala, alla rigenerazione dei beni comuni urbani). Queste iniziative tendono a (ri)connettere le persone con i luoghi dove abitano e a rigenerare fiducia reciproca e capacità di dialogo. E, così facendo, a creare nuove comunità.

    Nel tempo queste attività, prodotte all’inizio da piccoli gruppi di entusiasti, si sono estese, sono evolute e hanno trovato un riconoscimento istituzionale fino a delineare delle significative controtendenze riscontrabili in tutti gli ambiti della vita quotidiana: servizi sociali collaborativi, forme di produzione distribuita e aperta, welfare collaborativo, reti alimentari basate su una nuova relazione tra produttori e consumatori e proposte di città intese come beni comuni. Tratto comune a tutto questo è che le persone coinvolte rompono con l’individualismo proposto dalla cultura dominante e decidono di collaborare per arrivare, assieme, a dei risultati che abbiano valore per ciascuno e per tutti. Cioè, per i partecipanti e per la società nel suo complesso.

    Questo insieme di attività che parte dall’iniziativa di piccoli gruppi e può arrivare a incidere sulle istituzioni e sulla politica anche su grande scala, è ciò cui, di qui in avanti, mi riferirò usando l’espressione innovazione sociale: un termine che negli ultimi anni è stato molto usato, attribuendogli diversi significati. Per me significa questo: un cambiamento del sistema sociotecnico la cui natura e i cui risultati hanno anche un valore sociale, nel doppio significato di soluzione a problemi sociali e di (ri)generazione dei beni comuni fisici e sociali.

    Per ottenere questi risultati è necessario che il cambiamento sistemico che si produce sia radicale. Il che richiede di ridefinire il sistema di senso in cui si pongono i temi e si trovano le soluzioni e, così facendo, di ridefinire le relazioni tra gli attori, compresi anche i rapporti di potere che le caratterizzano.

    Infine, ma per me è proprio questo che rende quest’innovazione sociale così interessante, poiché si basa sulla collaborazione e rigenera i beni comuni essa è critica rispetto alle idee e alle pratiche dominanti e ciò che propone possono essere dei passi concreti verso la sostenibilità sociale e ambientale.

    Detto tutto questo, va chiarito che quest’innovazione sociale, “l’innovazione sociale trasformativa”, è un sottoinsieme dell’innovazione sociale nel suo complesso. Ci sono infatti innovazioni che vanno in direzioni diverse da quella che qui ho indicato, che non hanno un carattere radicale e si limitano a proporre delle modifiche incrementali. O che vanno in direzione del tutto opposta a quella della sostenibilità ambientale e sociale. Per cui va inteso che, quando in questo libro scrivo “innovazione sociale”, quest’espressione va letta come una formula abbreviata per dire: innovazione sociale che trasforma l’esistente mettendo in atto dei passi verso la sostenibilità.


    Immagine di copertina: ph. Alain Pham da Unsplash

    Note