Giovedì 25 maggio alle 19 Rosetta arriverà da WeMake, il Fablab e Makerspace in Via Privata Stefanardo da Vimercate, 27. Il tema della serata è l’accessibilità, e la città accessibile come spazio di incontri e di scambi, ma anche l’analisi dei limiti e delle barriere ancora presenti e come poterli superare. Ne parliamo con Maria Chiara Ciaccheri, ospite della serata, progettista e facilitatrice, ha svolto approfondita ricerca sul tema soprattutto nei musei degli Stati Uniti.
Cosa significa parlare di accessibilità degli spazi e della città?
Parlare di accessibilità degli spazi significa parlare di complessità e di cittadinanza: significa immaginare città consapevoli della inevitabile differenza che le abita. Credo che nella sua migliore accezione, anche applicata alla vivibilità urbana, accessibilità significhi soprattutto mettere in discussione gli stereotipi e, insieme, le griglie di pensiero. L’accessibilità dovrebbe sottintendere un ragionamento di tipo sistemico, che tenga traccia delle barriere nel loro complesso e, parimenti, della percezione che le stesse o persino la loro rimozione, veicolano.
Il potenziale enorme di questa disciplina configura luoghi articolati da concepirsi secondo nuove modalità di apprendimento, percezione e mobilità; scelte decisive ad una nuova qualità della partecipazione di tutti, a prescindere da come siano montate le due ruote su cui ci si muove.
Cosa è ancora inaccessibile? La Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità favorisce l’indipendenza, la libertà, l’autonomia, la possibilità di fare scelte, l’accrescimento della consapevolezza. Sono solo propositi o ci sono dei cambiamenti in atto?
Tutto sta nella definizione che vogliamo dare di accessibilità e se ci accontentiamo di standard minimi, per altro non sempre definiti o comunque raggiunti. Con riferimento alla disabilità intellettiva e sensoriale, ad esempio, occorre spesso porsi questioni di natura prettamente comunicativa.
Basta anche solo immaginare la segnaletica mal posizionata in una stazione o la locandina di un evento sovraccarica di informazioni e illeggibile: dove collochiamo il confine dell’accessibilità? E soprattutto, a chi ci riferiamo? Il tema centrale credo stia, nello specifico, nella necessità di maturare una nuova competenza culturale, per altro non solo associata alla disabilità motoria e alla rappresentazione statica del suo simbolo prevalente.
Quell’immagine del resto (così come le proposte, per quanto accessibili, equivoche o posticce) rischiano di rafforzare un immaginario che è quanto di più distante dal concetto di libertà.
Sempre la convenzione Onu all’art. 30 prevede: Gli Stati riconoscono il diritto delle persone con disabilità a prendere parte su base di uguaglianza con gli altri alla vita culturale e adottano tutte le misure adeguate a garantire alle persone con disabilità:
1. l’accesso ai prodotti culturali in formati accessibili;
2. l’accesso a programmi televisivi, film, spettacoli teatrali e altre attività culturali, in formati accessibili;
3. l’accesso a luoghi di attività culturali, come teatri, musei, cinema, biblioteche e servizi turistici, e, per quanto possibile, a monumenti e siti importanti per la cultura nazionale”.
Qualcosa sta cambiando? Qualcosa è cambiato?
In ambito culturale, in Italia, l’attenzione al tema, per ragioni diverse, pare crescere progressivamente. Quello su cui mi interrogo però, sono i rischi connessi ad un fare che non sempre indaga approfonditamente gli impatti che genera, soprattutto nella definizione di pratiche che pare vogliano risolvere un problema dei singoli, agendo in un’ottica compensativa rispetto a modelli ritenuti normativi.
In questo senso l’introduzione di certi cambiamenti, anche qualora forzati o di tendenza, può rappresentare una strada per lo sviluppo di nuovi approcci critici e di metodo, indirizzati anche al coinvolgimento di altri pubblici. Allo stesso modo però, inevitabilmente, può sottoindere dei rischi, distorcendo ulteriormente, a furia di semplificazioni, la complessità di una disciplina e le reali esigenze di alcuni.
Quali strumenti o pratiche potrebbero rendere le città e gli spazi per tutti? Quali strumenti o pratiche lo stanno già facendo?
Il mio sguardo è soprattutto orientato alla pratica museale che, per certi aspetti, offre un modello interessante scalabile anche su altre dimensioni. Un tema trasversale che interessa anche il rinnovamento sul fronte urbano e degli spazi è quello della messa in rete delle competenze, che includano in primis persone con disabilità.
Trattandosi di una disciplina ibrida, il confronto resta una chiave imprescindibile ma, anche in questo specifico, è necessario associare alle scelte un rigore metodologico sul piano della gestione del processo che assegni comunque i ruoli in base a competenze di tipo professionale.
Come è cambiato il tuo lavoro in questi anni?
In questi anni di lavoro indipendente in ambito museale, la mia attività è progressivamente cambiata, al pari delle mie riflessioni sul tema. Inizialmente mi sono occupata soprattutto di progettazione di attività educative mentre oggi è maggiore la richiesta sul fronte della formazione e dell’aggiornamento del personale museale e degli studenti universitari.
Anche la mia percezione della disciplina però è progressivamente cambiata: faccio sempre più fatica ad identificarne i margini del settore rispetto ad ambiti legati alla facilitazione o all’interpretazione museale (sono tutte questioni di accessibilità cognitiva) e al tempo stesso, sento di coglierne spesso una deriva retorica che mi infastidisce.
Quali sono alcuni modelli o pratiche adottate all’estero che sarebbe bello importare in Italia?
Da un punto di vista interno alle organizzazioni, seguendo buone pratiche sviluppate all’estero, sarebbe importante prefigurare l’accessibilità all’interno di un piano strategico e dunque sul lungo periodo.
Quello che risulterebbe decisivo è ripensarne la necessità, considerandola un prerequisito e non una proposta da definire al termine di un processo. Un altro ambito sul quale si lavora pochissimo in Italia, soprattutto in area museale, concerne il tema della valutazione, anche in un’ottica di empowerment della persona con disabilità.
Ci sono inoltre poche sperimentazioni peer to peer (anche se alcune eccellenti) o comunque capaci di ragionare attentamente sui temi della percezione della disabilità a partire da progettazioni, quando possibile (non sempre lo è, e anche questo è un tema retorico), di tipo inclusivo.
Parlavamo prima di cultura e di prodotti culturali, aggiungerei anche le nuove tecnologie a questo elenco. In che modo cambiano la prospettiva o potrebbe cambiare?
Le nuove tecnologie nell’ambito della disabilità hanno un potenziale enorme, ridefiniscono i confini del museo e i suoi approcci comunicativi. L’attenzione, come sempre nell’ambito delle nuove tecnologie, sta nella necessità di identificarne la valenza esclusiva e l’usabilità. Negli Stati Uniti, ad esempio, sul fronte dell’accesso di parla molto dei Beam, telerobot telecomandati che consentono anche a coloro che fisicamente non possono visitare il museo di muoversi a distanza fra le sale, interagendo in modo attivo.
C’è un’approfondita ricerca in corso, per esempio, sulle potenzialità dei beacon per le persone cieche. Soluzioni non necessariamente costosissime che però non tutte le istituzioni si possono permettere, soprattutto nella definizione di strumenti d’eccellenza.
Del resto basterebbe alle volte anche solo un sito ben fatto in cui l’accessibilità sia comunicata con chiarezza. Così come in generale: che siano piuttosto soluzioni piccole ma complesse nella progettazione, intuitive nell’uso e comunque, sempre, ineccepibili e sottoposte a una valutazione della propria efficacia.