La nuova direttiva sul copyright si concentra sui contenuti invece che sui dati

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    Esistono leggi ontologicamente buone o cattive? A leggere le cronache che hanno fatto seguito all’approvazione della direttiva sul copyright, sembrerebbe di sì.

    L’editoria, con un blocco granitico, ha salutato la nuova normativa come la panacea di ogni problema del giornalismo; analoghi toni trionfalistici sono stati espressi anche dall’industria creativa.

    La direttiva approvata è caratterizzata dall’essere un patchwork, dove le norme sono slegate le une dalle altre e rispondono a esigenze emergenziali, più che a un disegno unitario: si spazia, così, dal data mining alla tutela del patrimonio culturale; dall’utilizzo delle opere fuori commercio agli obblighi di trasparenza nella gestione e nella negoziazione dei diritti.

    L’attenzione – sia degli studiosi sia dei media – è stata però essenzialmente catalizzata su due sole disposizioni, l’art. 11, relativa al compenso dovuto agli editori in caso di utilizzo di parti di contenuti editoriali, e l’art. 13, che si occupa della responsabilità dei gestori delle piattaforme di condivisione.

    Entrambi gli articoli, a dispetto del principio di generalità delle norme giuridiche, sembrano avere un destinatario chiaro: Google e i suoi servizi Google News, da un lato, e YouTube, dall’altro. Solo incidentalmente, poi, la ricaduta è sugli altri operatori, il cui potere economico è certamente più circoscritto o sui quali l’impatto della direttiva è attutito.

    La valutazione di una nuova regola giuridica dovrebbe rispondere a una domanda preliminare, che, diversamente da quello che potrebbe credersi, non riguarda se la norma sia giusta o sbagliata – ammesso che esistano norme giuste o sbagliate -, ma se le misure adottate siano o meno efficienti.

    Se ci domandiamo se sia giusto che chi utilizza opere tutelate dal diritto d’autore e contenuti creati da altri per svolgere attività di business, ricompensi adeguatamente gli autori, la risposta non può che essere banalmente affermativa. Se, però, ci interroghiamo sulla capacità delle regole di raggiungere gli obiettivi prefissati, allora l’interrogativo diviene più complesso. Allo stesso modo, la questione si complica nel momento in cui analizziamo le ricadute delle norme nell’assetto complessivo del sistema della comunicazione e della produzione culturale.

    Spagna e Germania, negli anni passati, avevano adottato strumenti legislativi che imponevano agli aggregatori di notizie – Google News in testa – di corrispondere un compenso agli editori. Per quanto è dato sapere, queste norme non hanno portato alcun beneficio economico al mondo giornalistico: alla fine, il pallino è rimasto nelle mani di Big G, che, in qualsiasi momento, può decidere di eliminare i propri servizi – che non sono particolarmente remunerativi per il gigante di Mountain View – e di chiudere i rubinetti. Una strada alternativa, già praticata, per aggirare la previsione della direttiva è quella di aggregare notizie provenienti da fonti di informazione stabilite fuori dai confini europei: si pensi al caso delle notizie sulla Spagna fornite da giornali sudamericani. Il risultato sarebbe un ritorno economico pari a zero per l’industria editoriale e, verosimilmente, un abbassamento qualitativo delle notizie. Uno scenario che non può non destare preoccupazione, in presenza di un pubblico tendenzialmente allergico agli approfondimenti, che si accontenta di informarsi leggendo i soli titoli delle notizie e confondendo fonti di informazione autorevoli e fake news.

    Leggi anche l’articolo di Tiziano Bonini sulla direttiva UE sul copyright

    Discorso diverso, ma che muove dai medesimi presupposti, potrebbe esser fatto anche per l’art. 13. È sacrosanto che YouTube debba pagare per i contenuti, seppur caricati dagli utenti, che portano traffico alla piattaforma e arricchiscono la società per mezzo degli investimenti pubblicitari. Così come è da ritenersi oramai anacronistica l’opzione del laissez-faire legislativo, che ha comportando l’esplosione di modelli anarco-liberisti, che hanno facilitato la creazione di posizioni monopolistiche.

    Tuttavia, la strada corretta è davvero quella di imporre una negoziazione preventiva con i titolari dei diritti prima della pubblicazione dei video? Per questa via, non si rischia di trasformare YouTube in un editore – ruolo che, secondo alcuni, già rivestirebbe – assegnandogli il potere di scegliere cosa pubblicare e cosa no?

    I dibattiti tra apocalittici e integrati, tra sostenitori del potere assoluto degli OTT e la libertà della Rete, sono francamente fuori dal tempo e dallo spazio, perché viziati da opposti assolutismi: ciò nonostante, il processo di law-making avrebbe forse dovuto dare il giusto rilievo anche a tali profili e prendere in esame gli effetti che l’art. 13 potrebbe avere su produzioni creative che si muovono nella linea d’ombra tra ciò che è ammissibile e ciò che è vietato da un diritto d’autore la cui area di intervento è divenuta, anche a causa della retorica ultraproprietaria del legislatore europeo, al contempo bulimica e asfittica.

    Né può dimenticarsi che, nell’ultimo decennio, abbiamo assistito al transitare radicale di internet da spazio di libertà verso luoghi proprietari, nei quali si sono costipati gli utenti, che trascorrono la maggior parte del loro tempo on-line all’interno di piattaforme e social network, le cui regole sono dettate, spesso in maniera arbitraria e capricciosa, dai gestori. Anche la metafora della navigazione, che presuppone un mare aperto, non sembra descrivere accuratamente la nuova internet, che forse meglio potrebbe essere rappresentata da recinti all’interno dei quali si muovono animali addomesticati.

    Un altro aspetto merita di essere evidenziato. La direttiva, il cui testo sul punto è stato modificato in corso d’opera, prevede che l’art. 13 non trovi applicazione nei casi in cui la piattaforma esista da meno di tre anni, il suo fatturato sia inferiore a 10 milioni di euro e i visitatori unici della piattaforma siano meno di 5 milioni al mese. Apparentemente sembrerebbe una soluzione corretta, perché esonera dall’osservanza di determinati obblighi – in primis quelli sul filtraggio – le piccole imprese. Resta però un dubbio: quale imprenditore sceglierà di investire in un settore sapendo che, allo scadere dei tre anni, all’avverarsi dei dieci milioni di fatturato o dei cinque milioni di visitatori sulla piattaforma, sarà obbligato al rispetto di regole che impongono l’adozione di sistemi tecnologici estremamente costosi?

    Gli utenti trascorrono la maggior parte del loro tempo on-line all’interno di piattaforme e social network le cui regole sono dettate dai gestori

    Lawrence Lessig, il padre delle licenze creative commons, ha detto recentemente che l’art. 13 è una norma che favorisce Google, anziché indebolirla, perché limita fortemente l’accesso al mercato di potenziali concorrenti. Se queste sono le premesse, sembra difficile dargli torto.

    L’analisi della direttiva non può non considerare poi un altro tema, che, a chi scrive, sembra centrale. Siamo davvero sicuri che incidere sulle regole del diritto d’autore fosse la soluzione migliore per ristabilire gli equilibri di mercato alterati dall’avvento delle tecnologie digitali?

    Stupisce, infatti, che, nell’attività di lobbying, non si sia dato spazio alla questione dei dati personali, che rappresentano la principale forza di mercato dei grandi operatori della new economy. La grande ricchezza dei gestori delle piattaforme, infatti, non è fondata necessariamente sui contenuti, quanto sull’immagazzinare e controllare costantemente le utilizzazioni degli utenti.

    Si diceva poc’anzi della trasformazione epocale della Rete, da spazio aperto a steccato chiuso. Il corollario di tale processo è che le piattaforme non monitorano più gli utenti, ma indirizzano i loro comportamenti: non siamo più al cospetto di un Grande Fratello, ma di uno strumento che ci spinge a tenere comportamenti frutto di un’illusoria autodeterminazione, come fotografare qualsiasi evento, regalando ogni momento della nostra esistenza alle piattaforme.

    La grande ricchezza dei gestori delle piattaforme non è fondata sui contenuti ma sull’immagazzinare e controllare costantemente le mosse degli utenti

    Tale scenario, apparentemente distopico, ma tristemente reale, ci fa comprendere che il valore che potrebbe bilanciare il mercato potrebbe essere dato proprio dalla condivisione – seppur in forma anonimizzata e aggregata – di tali informazioni tra gestori dei servizi di internet e titolari dei diritti.

    Qualcuno è davvero persuaso del fatto che valgano più i compensi per gli editori – compensi, al momento, solo ipotizzabili, in assenza di studi scientifici che spieghino il reale impatto economico della direttiva – che la messa a disposizione delle scelte e delle preferenze editoriali dei lettori, della tipologia degli articoli condivisi, dell’informazione sull’identità – suddivisa per fasce di età, sesso, posizione sociale, origine geografica e così via discorrendo –di chi condivide questi articoli? Il diritto d’autore – come si è scritto correttamente su questa testata – è solo il grimaldello per scardinare il potere dei giganti di internet: ma siamo davvero certi che la cassetta degli attrezzi del diritto non contenesse uno strumento migliore?


    Immagine di copertina da Unsplash: ph. Marino Pietropoli

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