Squarciare l’infosfera: lo stato d’agitazione permanente di Luther Blissett e Wu Ming

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    Diversi anni fa, entrando nel locale che mi ha cresciuto e ha contribuito a educarmi alle cose che non si insegnano, mi trovai davanti al piccolo palco, soprelevato non più di due centimetri dal pavimento, allestito per una nuova esibizione dal vivo. Dalla strumentazione intruppata lungo la parete corta tappezzata di locandine, dal numero di sgabelli, sedie ed aste del microfono, provai ad indovinare il numero dei componenti del gruppo: non poteva trattarsi di un one man show.

    Tutte queste divagazioni che esorcizzavano l’attesa furono bruscamente interrotte da un ragazzo che si avvicinò a due aste per affiggere due manifesti essenziali, scarni, entrambi in bianco e nero. Il primo che vidi, nell’attesa che sistemasse il secondo, recava al centro una scritta dal carattere snello, tesa forse più del necessario, come sottoposta a due forze contrapposte e quasi sul punto di sfibrarsi e dissolversi a partire dal centro, come una fune nodosa ed esausta.

    La frase recitava: Che il compimento di questa vita sia nella perfezione della catastrofe? Subito in basso a destra campeggiava il nome dell’autrice di quella che a tutti gli effetti si presentava come una citazione: Barbara D’Urso.

    A fare da campo al testo una foto della presentatrice, colta evidentemente in un momento concitato, mentre con la bocca spalancata, stravolta, si piega in avanti. Le braccia piegate in corrispondenza del gomito, come se avesse voluto appoggiare le mani sui fianchi; sullo sfondo alcune facce dai connotati indefiniti, un paio di lenti che riflettono le luci dello studio, alcune capigliature, tre colli in bella vista: il pubblico, doverosamente anonimo, informe, esploso nelle forme, che riveste il catino infuocato in cui viene preparato l’incantesimo televisivo.

    Il secondo manifesto esibiva una fattura punk che esalta il do it yourself: una scritta a pennarello. Anche questa sembrava una citazione, stavolta anonima: Nel mondo realmente rovesciato il vero è un momento del falso.

    Quella sera si esibì un collettivo di sperimentazione musicale e poetica ormai sciolto da anni, si trattava di uno spettacolo transmediale, durante il quale le tre voci che si intrecciavano dialogavano e si scontravano a loro volta con le immagini e i frammenti di video proiettati su uno schermo alle loro spalle.

    Fu uno spettacolo allucinato e delirante, che non capii completamente, a dispetto degli applausi calorosi che riservai al collettivo a fine esibizione. Fra gli elementi che non colsi dello spettacolo c’erano anche quei due manifesti: come interagivano col resto? Perché Barbara D’Urso? Cosa significavano quelle immagini prese chissà dove e ricombinate insieme, senza alcun legame fra di loro? A cosa serve quel cut-up? Perché, nonostante tutti i miei limiti, mi aveva attirato così tanto? Quell’applauso non era un atto del tutto bugiardo, lo spettacolo mi aveva accalorato.

    Devono aver subito una simile sensazione di straniamento – sebbene più potente e destabilizzante – coloro i quali sono stati investiti dagli esperimenti di distruzione e riproduzione della realtà del Luther Blissett Project, di cui il documentario di Dario Tepidino, Luther Blissett, presentato per la prima volta al Biografilm Festival di Bologna nel 2019, ricostruisce la storia.

    Si tratta di un tributo alla comunità di agitatori e agitatrici culturali, artisti e artiste, militanti che, con l’intenzione di contestare i metodi di acquisizione e diffusione delle notizie da parte degli organi istituzionali, hanno deciso di darsi e mettere in comune un nome non scelto a caso, perché recava in sé, nella sua storia (Luther Loide Blisset è stato un calciatore che ha militato anche nel Milan prima dell’avvento di Berlusconi, con prestazioni non sempre all’altezza delle previsioni), l’equivoco, il bidone inaspettato che sorprende tutti, che vanifica gli investimenti, che delude le attese. Ma si trattava anche di un nome che forniva la motivazione e l’impulso al loro intervento sulla realtà. Evidentemente, se qualsiasi nome è un posizionamento che favorisce l’individuazione, la scelta del multiple name, di un nome che non identifica pienamente, rispecchia l’esigenza di agire passando inosservati, di muoversi tra luce e ombra con la garanzia dell’opacità, moltiplicando l’azione del singolo che si riconosce nella collettività ed agisce per depistare.

    Il Luther Blissett Project, con questo approccio anonimo ed informale, cominciò dal 1994 a confezionare notizie false, mettendo in crisi il sistema dell’informazione italiana – che, avendo fatte proprie quelle notizie alla ricerca ossessiva allo scoop, mostrò tutti i punti deboli e i lati scoperti – e, di conseguenza, generando psicosi ed isteria diffuse. Il movimento, compatto e disseminato, agile ed ubiquo, preparava le sue falsificazioni “etiche” per stuzzicare l’appetito inestinguibile, non sempre bilanciato da una accurata ricerca delle fonti e dell’attendibilità, dell’informazione mainstream, per mostrarne il cinismo e, quindi, la debolezza di un’istituzione decisiva per gli equilibri democratici – luogo canonico della rappresentazione della realtà, ma anche strumento di controllo politico e sociale- che risultava attaccabile su più fronti.

    Attaccato nel proprio territorio – coalizzato per mezzo di quelli che Barthes definiva effetti di realtà grazie a una copertura capillare ed estensiva – il sistema risultava scoperto alle imboscate del movimento che ambiva a mostrare le falle: le spie di una possibile crisi, se non addirittura del collasso, erano evidentemente endemiche a quell’ordine che poteva essere messo in discussione in qualunque momento, visto che il marcio andava soltanto portato in superficie. Se il sonno della ragione genera mostri, le crisi di sovrapproduzione, anche nel mondo dell’informazione, gonfia bolle che esplodono causando seri danni.

    Il documentario di Tepidino è un’opera ibrida, intreccia la storia del calciatore che ha prestato il nome al progetto e il racconto di alcune operazioni che si serve del contributo di diverse e diversi partecipanti. La descrizione del loro modus operandi, i ricordi , i contributi audio e video dell’epoca che testimoniano le azioni, le stesse fonti di archivio di giornali e redazioni cadute nella trappola, denunciano che la straordinaria porosità del sistema combinato radio-televisione-giornali (l’informazione mainstream e tutte le sue declinazioni ancora non battevano i percorsi gibbosi del web degli anni Novanta) è una diretta conseguenza dell’atteggiamento spregiudicato con cui le notizie vengono selezionate, vagliate, ri-prodotte e diffuse.

    Una volta aperto lo squarcio, il paradigma vacilla: gli ingegneri dell’infosfera, tutori della monocoltura estensiva, vengono avvelenati dal frutto marcio perché, storditi dal potenziale economico e mediatico della notizia, sospendono il “controllo qualità”.

    Luther Blissett, che dedicava molto tempo e fatica all’allestimento della notizia perfettamente falsa da dare in pasto ai giornali – rimestando fra loro le categorie di vero, falso, percezione, riflettendo sui “protocolli” delle leggende metropolitane e attingendo alle risorse dell’immaginario- rendono trasparenti i loro esperimenti, danno conto degli attrezzi impiegati e facendo ciò smascherano le storture e le dinamiche interne al sistema dell’informazione, che contribuisce a modellare le nostre percezioni, i nostri gusti e desideri e soprattutto risponde a dinamiche di potere e a esigenze di normalizzazione sociale e politica.

    Ciò che viene sottolineato, tanto nel documentario quanto in generale dai risultati del collettivo, è il potenziale esplosivo della scomposizione e ricomposizione degli elementi di realtà: un’operazione che può mettere in crisi gli statuti più granitici, ma anche uno strumento neutro che va maneggiato con cura, perché produce effetti opposti.

    Alla base della riflessione teorica e pratica di Luther Blissett c’è il detournement tanto caro a Debord (citato nella docufiction) e ai situazionisti: il cambio di prospettiva e di percezione dell’esistente innescato da questo principio può riprodurre la realtà infinite volte, squadernarla o annichilirla in base a come è orientato l’intervento su di essa. Tale assunto, che proviene dalla lunga trafila della controinformazione e della stampa libera, viene rilanciato da Luther Blissett che, adoperando sia i codici della performance d’arte e del flashmob sia un approccio più teorico, riformula la contestazione e decide di attentare direttamente al sistema dell’informazione istituzionale.

    Non si trattava più di tappare i buchi o evidenziare gli errori attraverso la contronarrazione, posizionandosi come vedette o speleologhi e speleologhe; il tentativo riuscito fu quello di attirare l’avversario in un luogo familiare, perché si consegnasse quasi docilmente, prima di tentare goffamente la ritirata. Questa strategia, inoltre, garantiva una maggiore visibilità, offriva la possibilità di mostrare a un maggior numero di persone un’impalcatura accidentata, pericolante, esposta ad attacchi ben più gravi. Il collettivo non intendeva sostituirsi a quel sistema, anzi mostrava la minaccia di uno scontro tra sistemi integrati capaci di una potenza di fuoco simile.

    L’operazione di detournement – che può esprimersi nella decontestualizzazione di un elemento interno al sistema oppure, all’opposto, nell’inserimento in un preciso ordine di un termine spurio – in questo caso è destituente, in quanto produce immediatamente un’esplosione di significati nuovi che rimangono inespressi in un sistema compresso volto all’autoconservazione, quindi alla riproduzione di effetti di realtà che blindano l’orizzonte di senso.

    Una volta aperto lo squarcio, il paradigma vacilla: gli ingegneri dell’infosfera, tutori della monocoltura estensiva, vengono avvelenati dal frutto marcio perché, storditi dal potenziale economico e mediatico della notizia, sospendono il “controllo qualità”. I garanti dell’attendibilità, travolti dal sistema che loro stessi foraggiano ininterrottamente, trascolorano in imbonitori da fiera.

    Il percorso delineato da Tepidino e dal suo staff nella docufiction è puntualmente provvisorio, procede per nuclei narrativi e descrittivi, perché non sarebbe stato possibile dar conto in un’opera agile ed ibrida della produzione completa del collettivo, espresso per mezzo di strategie combinate di azione diretta e comunicazione d’assalto. In più, mantiene una struttura aperta, non chiude: credo che questa scelta molto valida sia ispirata da un principio cardine del movimento, la ricerca continua, inesausta. Spettatrici e spettatori sono chiamati a proseguire la ricerca su Luther Blissett, più in generale al confronto, alla verifica e all’azione. Del resto, anche nell’ambito della produzione e del consumo culturale, le macchine perfette sono state smontate o sono esplose sotto la pressione di forze interne ed esterne. Maneggiamo quotidianamente schegge che vanno analizzate e ricomposte in un sistema non più fisso, ma snodabile, che accetti la plurivocità ed accolga la contraddizione. Questo invito alla liberazione e all’interazione è anche esito dell’approccio comunicativo e divulgativo dell’ecosistema dei blog negli anni Novanta, che vantava maggior apertura e minor controllo rispetto all’Internet 2.0 e alle piattaforme social -a dispetto, però, del minore accesso alla rete. Al di là di ogni nostalgia sospetta, le contestazioni e le azioni di Luther Blissett, per quanto si tratti di un’esperienza chiusa, rivendicano la propria applicabilità.

    Il rigetto di qualunque principio gerarchico di trasmissione, la reazione fruttuosa fra verticalità ed orizzontalità, la verifica puntuale, la promozione dell’azione collettiva che abbattesse la “quarta parete” che tiene distinta produzione e fruizione, tutti prodotti di quel mondo, in un saggio perfetto e diabolico di detournement, sono stati spacchettati e riutilizzati negli ultimi decenni, risignificati ed adattati all’uso sclerotizzato, assunti nella catena di montaggio post-fordista quotidiana: da possibili armi di smascheramento sono diventati nauseabonde concrezioni calcaree, disorientando ulteriormente un’opinione pubblica già fantasmatica. L’esperienza del Luther Blissett Project insegna a risignificare queste armi spuntate, a ricalibrare lo sguardo, ma soprattutto invita a coltivare la propria personale “luccicanza”, perché tutti possono prendervi parte.

    L’analisi delle azioni di contestazione politica, mediatica e culturale del collettivo rivela una dimensione illusionistica. L’illusionismo, pratica plurisecolare, si serve di trucchi semplici ma sofisticati per meravigliare, illudere e, in un’ultima istanza, convincere; inoltre, in quanto pratica retorica – e potenzialmente politica- con una propria grammatica e prammatica, può essere utile a isolare i trucchi, mostrarne il funzionamento e saggiarne l’utilizzo in sistemi complessi: uno strumento capace di demolire, soffocandole, le narrazioni tossiche e costruire nuovi testi transmediali. Se il mondo appare bloccato in un incanto funerario, non solo può essere re-incantato, ma è possibile scomporlo per enucleare le logiche interne: l’integrazione dei presunti opposti rimane la strada percorribile, incanto e disincanto procedono insieme.

    Esiste, a mio avviso, un altro motivo per cui il documentario non si esaurisce in un epilogo pacifico. Lo spirito del Luther Blissett Project, che continua a circolare e pulsare come patrimonio universale, è alla base dell’esperienza della Wu Ming Foundation.

    Luther Blissett, dopo il successo narrativo ed editoriale di Q, che ha rispolverato e diffuso presso una comunità più ampia l’urlo di battaglia – in cui sono concentrati vendetta e rivalsa, gioia e stupore – Omnia sunt Communia, ha considerato esaurita la propria esperienza (rinunciando a tutti i meccanismi asfittici che un successo letterario porta con sé) e ha cambiato aspetto, rimanendo fedele alle proprie battaglie. All’alba del Duemila, da questo fertile humus, è nato un gruppo di scrittori che, a partire dal blog Giap, ha continuato a muoversi e a cospirare, promuovendo contatti con diverse realtà culturali, politiche e sociali.

    Questa rapida ricognizione genealogica rende ancora più trasparenti le scelte di campo operate dai Wu Ming e la sua galassia: romanzi, reportage narrativi, le analisi sulla produzione e diffusione di fake news nell’acquario dei social e della stampa istituzionale (laddove l’esperienza di Luther Blissett come “bufalaro ante-litteram” appare decisiva); la nascita del collettivo Nicoletta Bourbaki – che ha aumentato la potenza di fuoco di questo network di movimenti occupandosi di combattere il revisionismo storico sul web -, così come di Alpinismo Molotov (che analizza l’impatto dell’uomo sulla natura e rilancia la difesa delle aree interne contro la «strategia dell’abbandono»); l’appoggio ai movimenti contro le grandi opere, il lavoro sul rimosso coloniale nelle nostre città. Inoltre, in questa rapida e parziale carrellata, è doveroso ricordare la scelta di disertare i social network mainstream, portata definitivamente a compimento con la chiusura dell’account twitter.

    I Wu Ming, pur sacrificando un’ampia porzione della propria visibilità, hanno continuato a credere nella comunità che si raccoglie attorno a Giap, non solo rivendicando la possibilità di un dibattito meno paralizzato e molto meno esposto alla tossicità apparentemente ineliminabile delle discussioni social, ma anche rigettando il pensiero binario che vorrebbe opporre alla scelta delle piattaforme più note il deserto più nero, la condanna deliberata all’inessenzialità e al silenzio.

    Questo tipo di posizionamento provvisorio, perché non sacrifica l’azione, non vada letto come una distinzione di purezza, ma piuttosto come l’urgenza di non abbandonare un metodo circolare di scomposizione e ricomposizione, per certi aspetti filologico (ma senza quelle storture accademiche che rischiano di associarlo o, peggio, sovrapporlo a una postura antiquaria ed iper-specialistica), applicabile agli ambiti più disparati.

    L’esperienza di Luther Blissett non può essere sradicata dai movimenti, le prospettive, le lotte che, almeno dai primi anni Novanta – se decidiamo di non considerare in questa sede le sedimentazioni che vengono da un passato ancora più lontano – hanno collaborato, pur tra le distinzioni e le sconfitte epocali, per ripensare continuamente il mondo e le nostre vite. Mi sembra inoltre, che in questa nuova epoca di movimenti e contestazioni, i metodi (che rigettano i modelli granitici) adottati e ripensati, le riflessioni interne ai collettivi e ai movimenti dal basso condividano la stessa energia e lo stesso orizzonte comune di chi ci ha preceduto e che continua a sprigionare una forza intermittente ma costante, carsica.

    In questi ultimi anni soffocanti e negli ultimi mesi drammatici, in cui i sistemi (non solo quello dell’informazione e della comunicazione globale) pur rischiando il collasso continuano a rovinare dichiarando la relativa stabilità delle strutture portanti, in cui il pensiero della complessità è impedito dalla paura della morte e del tracollo economico e dal congelamento coatto di ogni rinnovamento (al netto di stanchi appelli al mondo che c’era e al mondo che verrà), la riscoperta della comunione di intenti fra generazioni diverse amplifica e corrobora la vocazione a sfidare, con illusionismi vecchi e nuovi, l’ipnosi riprodotta all’infinito, il «deserto del reale».

    Note