Perché in Italia non esiste la democrazia culturale

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    I nuovi centri culturali sono spazi di confronto, di scontro e di trasformazione. Il lavoro che svolgono è inestimabile ma è necessario fare di più per sostenerli. Farlo significa superare gli ostacoli economici e pratici che li hanno limitati fino ad ora: dobbiamo condividere strumenti, conoscenze ed esperienze. Abbiamo bisogno di una presa di coscienza collettiva. Vogliamo unire le forze con tutti i nuovi centri culturali d’Italia. Compila il nostro questionario e raccontaci chi sei.


    Siamo un paese che non ha mai accettato fino in fondo l’idea di industria culturale e che continua a bamboleggiarsi con quei cascami tardo-romantici che identificano il successo di un prodotto culturale come un disvalore.

    Che l’arte e la cultura siano anche “merci” continua a essere considerato con orrore da gran parte dell’establishment culturale, soprattutto da quello che maschera con una patina di ostentato progressismo il proprio intimo, atavico, profondo e ontologico aristocraticismo. […]

    Pubblichiamo un’anticipazione dal volume di Gianni Canova, Ignorantocrazia (Bompiani). In libreria dal 23 ottobre

    La responsabilità di questa situazione va divisa fra molti soggetti diversi.

    C’è una responsabilità oggettiva dei direttori dei giornali e dei grandi media.

    C’è la responsabilità di chi ha gestito negli ultimi cinquant’anni la televisione pubblica.

    Ci sono le colpe della politica, che ha riservato alla diffusione della cultura risorse sempre scarse e talora vergognosamente insufficienti.

    Ma c’è una parte di colpa, una non piccola parte di colpa del deserto culturale italiano, che è anche e soprattutto degli intellettuali e dei professori.

    Di chi ha gestito l’università e la scuola pensando più alle carriere dei professori, e agli allievi dei professori, e alle scuole dei professori, e agli interessi degli amici dei professori e dei portaborse amici degli amici dei professori, che agli interessi delle giovani generazioni e del paese.

    Abbiamo coltivato un’idea di cultura solipsistica, del tutto indifferente al compito di diffondere il piacere della conoscenza

    Abbiamo coltivato un’idea di cultura solipsistica, snobisticamente criptica, del tutto indifferente al compito di diffondere il piacere della conoscenza. Abbiamo premiato il conformismo più che l’originalità, l’appartenenza più del merito. Abbiamo commesso la colpa più grave: abbiamo reso la cultura noiosa. Conformistica e noiosa. Peggio che bruciare i libri. Perché nel fuoco, almeno, c’è un odioso atto di censura a cui qualcuno si può ribellare.

    Ci salverà la tecnologia, pensano in molti. La rete arriverà laddove non sono arrivate né la politica né l’università. Io mi auguro che sia così, ma dubito molto che possa essere così: quanto più la rete allarga l’accessibilità, tanto più sarebbe necessario accrescere la conoscenza e la competenza.

    L’accessibilità gestita nell’assenza della competenza rischia di generare imprevisti effetti boomerang. Rischia di legittimare la pigrizia, l’inerzia, l’eterna ricerca del già noto: si ha l’universo a disposizione, ma ci si accontenta di passeggiare nel giardinetto sotto casa.

    L’accessibilità gestita nell’assenza della competenza rischia di generare imprevisti effetti boomerang

    Intellettuali e professori, purtroppo, non sono stati capaci di far scattare l’incanto: quel rapimento fatto di curiosità, seduzione e meraviglia che spinge ad abbandonare il porto sicuro per cercare se stessi nell’universo.

    Non siamo stati capaci di comunicare che la cultura si può trovare in luoghi inaspettati e che a volte, inaspettatamente, è la cultura a trovare noi.

    Oggi, chini sul nostro smartphone, siamo convinti di poter dominare il mondo con lo sguardo. Ma questa convinzione, temo, potrebbe rivelarsi una mera illusione.

    Lo scorso anno, gli studenti del mio corso magistrale sugli immaginari dell’era digitale, invitati a produrre narrazioni distopiche che mettessero il dito nella piaga delle contraddizioni tecnologiche e comunicative del nostro tempo, hanno consegnato – tra i tanti – un racconto che trovo provocatoriamente illuminante.

    I ragazzi hanno immaginato che in un futuro prossimo tutti vadano in giro col capo chino. Hanno immaginato che a furia di guardare sempre e solo in basso, ognuno verso il proprio iPhone, i muscoli del collo abbiano sviluppato una sorta di involuzione darwiniana e non riescano più a sollevare la testa.

    Così, nella distopia dei miei ragazzi, tutti camminano col capo chino. Sono connessi col mondo. Guardano un punto, e solo quello. Il loro display. Come il cavallo con il paraocchi: si illude di vedere il mondo, ma in realtà vede solo ciò che il suo padrone ha deciso che veda.

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