Verso una teoria dello sguardo meccanico. Dialogo con Simone Arcagni

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    Un taglio di lettura possibile dell’ultimo lavoro di Simone Arcagni, L’occhio della macchina, consiste nell’accogliere l’invito a esplorare le condizioni di possibilità di una risposta alla questione capitale sollevata nelle prime pagine, ovvero “che cosa vuole l’occhio della macchina?” Questione al tempo stesso urgentissima e quanto mai sfuggente. Da un lato, infatti, implica l’attribuzione di per sé problematica di volontà o desiderio alla sfera del macchinico. Dall’altro rinvia a un supplemento di domanda, ovvero “da chi lo vuole?”, a chi o a cosa sarebbe rivolta questa eventuale istanza. Una riflessione che non solo apre il fronte delicato del rapporto che l’uomo intrattiene con la macchina, ma che soprattutto deve affrontare la questione di come una macchina provvista di livelli crescenti di intelligenza e autonomia possa “vedere” – e qui l’atto va inteso al contempo nel senso più concreto e in quello più lato – l’umano e l’uomo.

    teoria occhio

    Simone, con queste motivazioni forti insisti sulla necessità che lo sguardo della macchina sia interrogato da una filosofia dell’informatica capace di elaborare i concetti e le relazioni del vedere computazionale, sul difficile crinale tra il determinismo che ha ispirato tanta parte del progresso tecnologico e l’intuizione della complessità che ha aperto strade nuove. Come ha dimostrato Paolo Rossi, la scoperta delle macchine da parte dei filosofi nel Seicento ha avuto ripercussioni profonde sulla concezione dell’uomo, della conoscenza, del rapporto con la realtà non-umana. Nell’ambito specifico del visuale (penso ad esempio agli studi di Martin Jay) l’uso della prospettiva ha avuto un ruolo chiave nel plasmare un “regime scopico” della modernità. Ci sono davvero delle fratture insanabili rispetto a questa tradizione nella riflessione contemporanea? E quali potrebbero essere a tuo avviso gli elementi chiave del regime scopico vigente?

    Sul piano della teoria non ci sono fratture insanabili. Anzi dobbiamo proprio ricorrere alle tradizioni teoriche che si sono stratificate nel tempo per poter essere in grado di costruire un nuovo tracciato teorico, o quanto meno, nuovi approfondimenti rispetto a una materia che è cambiata.

    Abbiamo biosgno di una tradizione filosofica a cui rifarci, alla capacità di sguardo di studiosi di estetica e di tradizioni ermeneutiche. Il punto è che però queste tradizioni devono essere aggiornate rispetto all’oggetto di analisi. La frattura insanabile è avvenuta proprio a livello di tecnologia. Il digitale rappresenta una “rivoluzione” (come afferma Floridi), un cambio di paradigma e quindi richiede nuovi strumento e l’aggiornamemto delle teore, una nuova prospettiva nell’ambito della storia della tecnologia e della filosofia della scienza. Il digitale ha avuto e ha un impatto “rivoluzionario” sia sociale, che culturale, politico, economico e così via

    Io non mi sono occupato di immagine bensì di dispositivi, e la logica dei dispositivi visivi digitali è completamente cambiata rispetto a quelli ottici. Questi ultimi vengono assunti dalla macchina digitali come modelli, mentre il digitale ingloba, dall’altra esplora nuovi territori: la visione automatica, la visione non ottica, la visione dei sensori. Il computer non è fondamentalmente una macchina per la comunicazione, non è propriamente un media, ma un calcolatore che elabora dati. Un archivio, una memoria e un centro di elaborazione che assume dati e li rielabora. La visione digitale rientra in questa logica e quindi può liberare potenzialità nuove può vedere ciò che non si vede e ciò che non è nemmeno ottico, può analizzare, interpretare, rielaborare l’immagine; la può costruire ex novo, la può riconoscere e può partorire immagini di nuovo tipo come nel caso dell’hyper imaging

    A più riprese ti richiami a un processo di «“riontologizzazione” del reale per il tramite dell’occhio computazionale», insistendo sul fatto che la sfera visuale non è più legata soltanto all’immagine, ma «si presenta come universo multisensoriale, interattivo, responsivo, “autonomo”, “intelligente”, o quantomeno “smart”». È un esito che, tra gli altri, era stato lucidamente previsto da Kittler già sul finire degli anni Ottanta nel suo Grammophon, Film, Typewriter, dove si parla del flusso di un unico medium ibrido che assorbe e rielabora in sé l’intero spettro sensoriale, estendendone le possibilità oltre l’umano. Non c’è il rischio che le specificità conoscitive del vedere, che fin qui tanto hanno informato lo sviluppo della conoscenza umana, si smarriscano? E sul piano cognitivo, non si prospetta un’atrofia dell’immaginazione, che trova sempre meno spazio rispetto alla quantità e alla diversità degli stimoli?

    Oltre a Kittler segnalerei anche Virilio che aveva già individuato nella “visione della macchina” (prima metà degli anni ’80) uno specifico della visione del computer come vista senza occhi, vista autonoma, vista intelligente etc.

    Non penso che smarriremo le specificità conoscitive del vedere, anzi siamo in qualche modo costretti a riesplorare tutte per poter alimentare le reti neurali, gli algoritmi, i software, i programmi e gli hardware delle macchine. Inoltre nel confronto con le macchine (sempre più stretto e simbiotico) siamo costretti a individuare nuovi modelli, ad apririci a nuovi paradigmi, persino a ridefinire un ambito cognitivo nuovo (ne è convino per esempio Joy Ito), complesso, accelerato, dall’andamento esponenziale.

    La macchina si sottrae sempre più al ruolo di strumento per assumere quello di entità quasi biologica che dialoga con noi, che propone un confronto sempre più complesso con la nostra intelligenza e con i nostri sensi.

    In tutto il volume dedichi un’attenzione approfondita al contributo delle scienze cognitive, nel cui ambito il processore informatico è stato spesso adottato come riferimento esplicativo per modellizzare il funzionamento della mente e del cervello. Potremmo dire che allo stesso modo gli sviluppi della computer vision stiano offrendo un referente paradigmatico per esplorare sotto una luce nuova questioni altrimenti irrisolte sullo statuto del vedere, dello sguardo e dell’immagine?

    La computer vision nasce nei laboratori di intelligenza artificiale (in particolare quello di Marvin Minsky) sotto la spinta di un neuroscienziato computazionale come David Marr che impara “nuovamente” come funziona l’occhio umano e l’acquisizione da parte del cervello delle immagini e il loro riconoscimento e poi offre queste nozioni al computer perché impari. Dando così seguito all’intuizione di Alan Turing per cui se il computer deve essere un cervello artificiale allora deve poter udire e soprattutto vedere e noi dobbiamo insegnarglielo (training). Le nostre competenze in campo ottico e cognitivo vanno così ad alimentare la “conoscenza” della macchina. Ma mentre operiamo in questa direzione affiniamo le nostre conoscenze e queste vanno nuovamente a finire nel training.

    Simone Arcagni

    Lo stesso uso dei computer nei campi delle neuroscienze imprime conoscenze nuove e più approfondite che, a loro volta, divengono informazioni preziose per la macchina e così via. Ora si lavora a macchine che sulla base di numeri spropositati di dati lavorano in autonomia per arrivare ai loro risultati, facendo errori, imparando (machine learning e deep learning) e questo spinge sempre più il rapporto tra uomo e machina ad una relazione simbiotica.

    L’intelligenza della macchina non sarà mai come quella dell’uomo ma è pur sempre una sorta di intelligenza che, per esempio, in ambito quantitativo non ha rivali e può quindi risultare fondamentale, per esempio, nell’ambito delle immagini, degli sguardi, del vedere. Dal momento che la macchina vede data e ripropone in chiave visiva data, la sua capacità di elaborare numeri spaventosi di data può rappresentare per noi umani la soglia di una nuova dimensione nell’ambito degli sguardi e del vedere.

    Quando parliamo di interazione uomo-macchina, in ogni caso, più che interpretativo l’approccio è sempre più dichiaratamente trasformativo. L’immaginario contemporaneo sembra registrarlo con crescente chiarezza. In Maniac, ad esempio, la miniserie diretta da Cary Fukunaga e trasmessa poche settimane fa su Netflix, abbiamo a che fare con una macchina capace di “vedere” attraverso la mente di soggetti psichiatrici e di intervenire – sia pure in modo rocambolesco – per curarli definitivamente. Ma il dispositivo opera in un non-luogo etico di arbitrio assoluto. Possiamo vedervi una metafora del destino della nostra società panottica tecnologicamente aumentata?

    La nostra società non è panottica a mio modo di vedere: ha disseminato sguardi e occhi e produce immagini e visioni che mai nessuno potrà vedere. Nel panottico c’è sempre uno sguardo. Nell società digitale non c’è questo sguardo o quantomeno è debole e incapace di abbracciare tutto il visivo. La nostra società quindi produce occhi computerizzati che acquisisicono ed elaborano quantità straordinarie di dati di varia derivazione (calore, movimento etc.). Questa dimensione del vedere è del tutto nuova, sia dal punto di vista tecnologico che da quello sociale e ambientale. Questo però non significa aver creato un vuoto ma semplicemente che abbiamo bisogno di ciò che l’uomo da sempre ha saputo fare meglio e che lo contraddistingue: negoziare.

    Dobbiamo negoziare una uova dimensione sociale, acquisire e rielaborare i caratteri di una nuova società e di nuovi modelli economici, culturali etc. Dobbiamo capire il fenomeno e governarlo, muoverci in ambito normativo ma anche in quello etico. Servirci di paradigmi e di teorie e costruirne di nuovi.

    Si può dire che ogni estensione tecnologica della facoltà umana del vedere abbia generato mostri. L’universo microscopico rivelato da Antoni van Leeuwenhoek era popolato di minacce segrete e letteralmente ubique, e l’accesso a quello macroscopico reso possibile dal cannocchiale di Galileo incrinò com’è arcinoto le fondamenta di una tradizione antropo-teologica millenaria. Anche l’immaginario contemporaneo è colorato di inquietudini rispetto all’occhio della macchina, penso ad esempio al visore inespressivo di HAL 9000. Possiamo dire che tuttavia in questo caso quel che più spaventa non è l’amplificazione dell’umano ma l’autonomia dall’uomo?

    Quello che spaventa è l’autonomia delle macchine. Pensiamo anche banalmente ai problemi che stanno nascendo riguardo ai droni o alle auto che si guidano autonomamente. Pensiamo al problema della ricerca sui data che sembra sempre più affidata ad algoritmi che si autoregolamentano e che elaborano dati con autonomia, tanto che non siamo nemmeno in grado di risalire alle operazioni che hanno portato ai risultati (il fenomeno della cosiddetta black box).

    In uno degli ultimi capitoli associ l’ossessione panottica per il vedere tutto e per il vedere sempre tipica della società contemporanea della sorveglianza al mito dello sguardo divino, dell’occhio di dio. Questa formula mi ha fatto pensare a una pagina di Underworld di DeLillo dove l’occhio di dio è quello di Louis che vede le ossa della sua mano attraverso gli occhi chiusi mentre è a bordo di un B-52 che sorvola un sito segreto nel Nevada durante l’esplosione di una bomba nucleare. Forse però nell’occhio “divino” della macchina che vede tutto e da tutte le angolazioni, ben oltre le capacità e la singolarità dell’occhio umano, o in quello lanciato nello spazio siderale, che esercita una visione in assenza dell’uomo, possiamo intravedere il bagliore di un’indifferenza sovrana. Siamo sicuri che l’occhio di questo dio-macchina sia ancora modellato su quello umano, e che si interessi ancora agli uomini?

    È proprio quello che ho voluto sottolineare in questo libro. Per generare l’occhio della macchina abbiamo usato le nostre conoscenze sull’occhio e sul cervello, poi abbiamo iniziato a esplorare le specifictà di questo occhio. In una prima fase abbiamo ancora immesso modelli culturali (la prospettiva nella computer graphics per esempio) ma la tendenza è sempre più quella di liberare le potenzialità della macchina. Siamo, a mio parere, al limitare di una nuova dimensione scopica che è quella della macchina autonoma.

    Se è vero che ancora dirigiamo la macchina, applichiamo le nostre guide, le nostre logiche, d’altra parte le stiamo donando margini di autonomia tali che questa macchina resta sempre dipendente da noi ma allo stesso tempo sviluppa specificità e peculiarità che solo fra qualche anno affronteremo in pieno. E di fronte a questa “autonomia controllata” dovremo comportarci come di fronte a elementi biologici, dovremo impararne il comportamento, le dinamiche di crescita, gli sviluppi.

    Dovremo avviare ma poi osservare, annotare, vedere crescere, dialogare. Abbiamo bisogno quindi di una nuova biologia delle macchine o di una filosofia biologica delle macchine.


    Immagine di copertina: ph. oldskool photography da Unsplash

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