Ultimo lascia l’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa nella primavera del 2016. Ora l’istituto non ha più internati, sono stati tutti trasferiti in altre case della follia. Dunque, il più antico manicomio criminale d’Italia è ormai chiuso; gli altri lo hanno di poco preceduto o seguito. Alcuni sono destinati a farsi spazio di città, altri attendono nuove incarnazioni del male.
È ancora presto per sapere se abbiamo assistito alla dissoluzione dell’istituzione dell’estremo o alla trasmutazione della sua forma compatta, per quanto non ci vorrà molto a capire se si è stati testimoni della dismissione di una logica o della sua disseminazione in miniatura, della sua riterritorializzazione pulviscolare. Certo è che si è provveduto a sopprimerne la forma architettonica senza incidere sull’architettura istituzionale, dato che sono rimasti pressoché immutati i codici giuridici dell’imputabilità e della pericolosità a basamento della struttura. A sostegno di questa modalità di soppressione si è mobilitato un discorso più morale che politico, che ha ritenuto intollerabili le condizioni igienico-sanitarie più che quelle di pensabilità dell’istituzione. La psichiatria è stata così riproposta nella sua matrice storica di costola dell’igiene pubblica, e si è coagulato consenso attorno a un certo dissenso del decoro.
Nuovi princìpi di organizzazione dei servizi e nuove tecnologie di trattamento degli individui avevano da tempo creato le condizioni per una diversa gestione dei rischi in campo psichiatrico, come annunciato da Robert Castel con discreto anticipo. Un movimento giurisprudenziale ha poi accompagnato la rimodulazione del sistema di prevenzione, spostando la responsabilità del controllo dalla capacità di tenuta delle mura manicomiali a quelle profetiche dello psichiatra, attribuendogli una “posizione di garanzia” in funzione della quale dovrebbe rispondere degli atti dei suoi pazienti, che si trovano così nella strana condizione di essere ritenuti, nello stesso tempo, più prevedibili e più imprevedibili del resto della popolazione; un semplice aggiornamento, in sostanza, dell’omessa custodia degli alienati di mente, sanzionata dagli articoli 714 e 715 del Codice penale no al 1978.
Oggi, dunque, l’ospedale psichiatrico giudiziario non si frantuma per il cedimento del suo piano d’appoggio: l’associazione tra follia, incapacità e pericolosità. Questa equazione elastica, che periodicamente allenta o serra i nessi – come in alcuni interventi di ideoplastica riduttiva effettuati dalla Corte costituzionale o come, a contrario, nell’attuale propensione al neurodeterminismo di alcune branche dei saperi forensi –, è infatti un’equazione resistente, che pervade la doxa e permea la missione del dotto.
Esempio ne è un articolo sulla dismissione degli OPG apparso sul domenicale del “Sole 24 Ore”, a firma di Gilberto Corbellini – maître à penser in storia della medicina e in bioetica – ed Elisabetta Sirgiovanni, assegnista di ricerca in Storia della medicina. Nell’incipit si legge che: “È sbagliato mescolare i violenti criminali con gli altri malati mentali. Un errore simile fu fatto ai tempi della legge 180”. Questa asserzione categorica dall’apodissi morbida funge da monito verso una incombente recidiva storica, che si nutrirebbe del retaggio degli anni sessanta e del “clima ideologico anti-asili degli anni settanta”, quando “in Italia si affermava un movimento culturale, ispirato al pensiero di Franco Basaglia, avverso ai manicomi in quanto frutto anche se non soprattutto di una concezione medica della malattia mentale. Queste idee contenevano gravi errori, dovuti a pregiudizi anti-illuministi e anti-scientifici”.
Ora, siccome “non è il caso di cadere negli stessi errori della legge 180”, è, al limite, ipotizzabile dismettere l’opg ma non la nozione di pericolosità sociale. Infatti, scrivono ancora gli autori, “aiutare la costruzione di strutture che puntino alle migliori condizioni per il trattamento dei malati psichiatrici criminali non dovrebbe sfociare automaticamente nell’idea che queste persone non siano malate, o peggio che non siano pericolose socialmente. Si va dai killer seriali a sangue freddo, agli stupratori, agli stalker, agli affetti da psicosi deliranti e allucinatorie violenti: tutti con alto grado di recidivismo. In molti casi, per sfortuna, la medicina non è ancora in grado di guarirli e riabilitarli ed è compito delle istituzioni e dei governi garantire la sicurezza per tutti gli altri”.
Ed eccolo grondare da queste righe il folle pericoloso, che si contorce e confonde nelle nosografie, a volte si contrae, altre si espande, si dirada e poi si addensa, ma non smette di ripresentarsi. Lo ammanta una duplice pericolosità: una pericolosità sociale post delictum, possibile conseguenza giudiziaria di un reato, e una pericolosità praeter delictum, automatismo sociale che si innesta sull’idea di una totipotenza criminogena, una sorta di generica e indefinita capacità a delinquere la norma sociale quanto quella giuridica.
Nell’immaginario collettivo, infatti, non si dà un pazzo non pericoloso, poiché tassi variabili di pericolosità si distribuiscono lungo l’intera scala della follia, che una lunga tradizione ha racchiuso fra la dementia e il furor.
Difficilmente però l’aura di pericolosità che avvolge la follia sarebbe così densa e intensa se fosse riducibile al solo potenziale di minaccia nell’interazione faccia a faccia. Altri strati panici devono aver ispessito questa paura nella sua storia. La maschera del folle custodisce una temibilità ben più radicale, che si tenta di fissare e costringere nella pura violenza di un gesto, alla quale però continuamente sfugge.
Il folle diviene simbolo e principio di disordine, l’elemento critico della modernizzazione occidentale
Un’altra pericolosità per sé o per gli altri si è certamente aggiunta nel collasso del lungo medioevo nell’età moderna, quando l’immaginario della follia è entrato in urto con le nuove forme dell’organizzazione sociale che si andavano allora instaurando. Se infatti, come ha scritto Weber, ogni ordinamento delle relazioni sociali seleziona un tipo umano al quale “offre le migliori possibilità di diventare predominante”, nel moderno il folle è la sua antitesi minoritaria, il contro-modello dell’ideal-tipo auspicato e prevalente. Che questo principio di congruenza fra organizzazione sociale e organizzazione morale, in base al quale ogni società ideale ha un proprio specifico individuo funzionale, vigesse anche per i nuovi alveari mercantili che si andavano componendo è stato teorizzato in modo esplicito da Bernard Mandeville già all’inizio del Settecento. Nel suo apologo, infatti, il repentino diffondersi di insetti convertiti a virtù compromette irrimediabilmente la prosperità del grande alveare, che era generata da un altro regime morale.
In un certo tempo, dunque, il folle diviene simbolo e principio di disordine, l’elemento critico della modernizzazione occidentale, la sociabilità difforme, inutile e dannosa. L’opera del canonico Tomaso Garzoni da Bagnacavallo è la miglior sintesi dell’irriducibile contrapposizione fra l’insania e l’organizzazione mercatale: nella sua ricostruzione della municipalità, le tassonomie di La Piazza Universale di tutte le professioni del mondo occupano uno spazio diverso dalle classi cazioni di L’hospidale de’ pazzi incurabili. La città è divisa: da un lato la piazza, il mercato, il forum, dall’altro il manicomio. Folle è, dunque, lo status di ciò che è inconsapevolmente antitetico all’ordine simbolico del mercato, inadatto alle sue pratiche e inabile ai suoi princìpi. E tanto più è pericoloso il folle quanto più è incapace di intendere e volere la mercatura. Senza sale in zucca e povero finanche di spirito, aggredisce e infrange il regime proprietario costitutivo della socialità moderna.
Le funzioni filosofico-politiche del contratto sociale non sono state, allora, che la ratificate la razionalizzazione del concreto processo di affermazione della contractual society
Se la società liberale, infatti, ha posto a proprio fondamento la proprietà, istituendo un preciso nesso fra proprietà e capacità, fino a strutturare una vera e propria antropologia gerarchica e dualistica, il folle è figura ontologica dello spossessamento, paradigma dell’individuo non-proprietario. È, infatti, l’estremo della cospicua massa dei non-proprietari: colui che non possiede a tal punto da non possedere neanche se stesso, colui che non possiede ma è anzi posseduto. Quando poi gli capita in sorte di disporre di qualcosa dà prova della propria inadeguatezza al possesso, non ne domina il sistema di regolazione, è sempre inappropriato, figura dell’eccesso e dello squilibrio, sia come dilapidatore che come accumulatore compulsivo.
Per di più, questo prototipo di non-proprietario, nella sua funzione integrale, è anche figura rigorosamente a-contrattuale. Molte delle altre figure che compongono l’esercito dei non-proprietari conservano, infatti, una mercatabilità che le trattiene nello spazio ideale della cittadinanza – per quanto aggrappate ai margini –, dato che molte di loro sono ancora trattabili sul mercato del lavoro, per cui “la definizione del contratto può ancora funzionare”. Questa capacità d’opera non è riconosciuta al folle, al quale eventualmente si riservano sottomercati mimetici e paralleli. Così, incapace di contratto, sarà messo sotto tutela, in una forma di relazione in cui la “reciprocità formale” è sostituita dalla “subordinazione regolata”. È in questo spazio che si apre il manicomio, ad accogliere chi, escluso dal circuito legittimo dello scambio, perde il diritto di libera circolazione fra gli uomini.
Le funzioni filosofico-politiche del contratto sociale non sono state, allora, che la ratificate la razionalizzazione del concreto processo di affermazione della contractual society. Nella trama materiale e quotidiana di questa nuova razionalità delle relazioni e degli scambi, il folle è emerso e si è definito per contrasto, facendosi sintesi e simbolo della trasgressione involontaria e irresponsabile del nuovo ordine.
Da allora, la ciclotimia dell’economico e della ragione è stata espressa da un unico lessico dell’equilibrio e della crisi. La pericolosità del folle si è così costituita in proporzionalità diretta con la sua mancata inscrivibilità nel sistema di obbligazioni dello ius mercatorum, da cui lo esclude lo statuto fragile della sua parola. Il contratto gli è, infatti, indisponibile a causa di una parola inattendibile, squalificata e dunque inadeguata a stringere patti. Non è in grado di partecipare al sacramento del linguaggio. Significativamente l’articolo 222 del Codice penale prevede ancora il sordomutismo fra le condizioni dell’ordine di ricovero in opg in caso di proscioglimento dell’imputato. Dunque, le restrizioni alla libera circolazione della sua parola ne comprimono la partecipazione alla libera circolazione dei beni.
Scrive in proposito Foucault: “Dal profondo del Medioevo il folle è colui il cui discorso non può circolare come quello degli altri: capita che la sua parola sia considerata come nulla e senza effetto, non avendo né verità né importanza, non potendo far fede in giustizia, non potendo autenticare un atto o un contratto, non potendo nemmeno, nel sacrificio della messa, permettere la transustanziazione e fare del pane un corpo”.
Le parole di Foucault richiamano implicitamente ma chiaramente la nozione di “infamia”, come elaborata dalla riflessione giuridica e teologica no al xiii secolo, prima che si ampliasse ancora nel movimento verso l’età moderna. Nozione che esclude il folle dallo scambio fiduciario e dal circuito sociale del credito. Siccome la sua parola non è impegnativa, ed è sempre revocabile, non è un uomo di parola e non gli si può dar credito. E, ancora una volta, l’affermazione va interpretata in senso letterale.
Il folle è uomo del discredito perché non partecipa materialmente della politica del credito, del prestito principalmente su pegno che, dalla nascita dei monti di pietà, ha operato la minuta e quotidiana partizione dei non-proprietari in solvibili e insolvibili, no a uniformare il giudizio morale su quello economico; si è buoni o cattivi prima di tutto come pagatori. Ma fra le figure screditate o screditabili, il folle è ancora una volta l’estremo, perché non appartiene alla stirpe degli insolvibili ma alla genìa degli inaffidabili, gli è precluso preliminarmente, cioè, l’accesso stesso al sistema del credito e della sua meritocrazia.
Questa inaffidabilità lo pone sul margine esterno della comunità; abita certamente un territorio sociale ma non accede alla cittadinanza, o almeno a quella sfera compiuta e iniziatica della cittadinanza propria di chi conosce, capisce e pratica le regole del gioco economico.
È stato, ancora una volta, Max Weber a rilevare la correlazione fra legame debitorio e legame comunitario che connota lo spirito dell’epoca moderna, in cui il tasso di cittadinanza è funzione di quello di credito. Come manifesto dello spirito del capitalismo, assume un documento di Benjamin Franklin in cui si legge che: “Un uomo deve tener conto delle azioni più irrilevanti che pure influenzano il suo credito. Il colpo del tuo martello che il tuo creditore sente alle 5 del mattino o alle 8 di sera lo tranquillizza per sei mesi”. Ma il folle, povero anche di questo spirito, non riceve a prestito poiché la sua affidabilità creditizia è totalmente o grandemente scemata, per cui non è chiamato a stipulare polizze di rassicurazione sociale.
Il folle è dunque il residuo simbolico delle relazioni di des, l’elemento non integrabile nella relazione di debito, e non è rilevante quanta di questa costruzione identitaria si nutra di esperienza reale. La più esplicita formalizzazione di questa fondamentale partizione dell’umanità in individui affidabili e inaffidabili è probabilmente quella incistata in un articolo dall’apparenza meramente procedurale del Regolamento sui manicomi e sugli alienati, adottato col Regio decreto 615 del 16 agosto 1909.
L’articolo 40 richiedeva, infatti, che l’atto di notorietà, che doveva essere ricevuto dal pretore per autorizzare l’ammissione provvisoria dell’alienato in manicomio, dovesse risultare dalle deposizioni giurate di quattro testimoni “riconosciuti come persone probe e degne di fede”, in contrapposizione evidentemente all’infamia del folle.
Louis Althusser è stato certamente l’analitico più acuto di questa relazione fra inaffidabilità creditizia e follia. Nelle pagine dell’autobiografia in cui analizza la meccanica psichiatrico-giudiziaria dell’ordinanza di non luogo a procedere emessa nei suoi confronti nel 1981, pone il discrimine fra la condizione di reo e quella di folle-reo proprio nella esclusione di quest’ultimo dalla “ideologia del debito”.
L’inapplicabilità del lessico creditizio differenzia, infatti, l’internamento dalla reclusione: contraria- mente al detenuto, l’internato non ha una pena da scontare, né un debito da saldare o conti da chiudere con la società. Rappresenta l’inutilità marginale del sistema di credito sociale, di cui costituisce l’ideale di pericolo; per questo la dismissione dell’ospedale psichiatrico giudiziario non può implicare quella della pericolosità sociale. Oggi questa funzione di inutilità è di nuovo palese, dato che la crisi economica di questi ultimi anni ha restituito visibilità a quanto la possibilità di accesso al credito segni ancora la soglia d’ingresso nell’unione comunitaria. Dunque, non è ancora tempo per un’altra smorfia della paura.