Servono alleati, non oppressori: una conversazione per una rivoluzione iraniana

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    Ciò che sta accadendo in Iran in seguito alla morte della ventiduenne Masha Zhina Amini, uccisa dalla polizia morale per non aver indossato correttamente l’hijab lo scorso 16 settembre, è di importanza cruciale. Dall’inizio delle proteste 319 persone sono morte e circa 15mila sono state arrestate. La grande maggioranza dei membri del parlamento iraniano ha di recente chiesto la pena di morte per i manifestanti incarcerati. L’escalation delle violenze assume connotati ogni giorno più inquietanti.

    Come ogni evento che si intuisce verrà in seguito considerato uno spartiacque storico, non può essere ridotto a un resoconto dei fatti. La sua comprensione implica in primo luogo l’ascolto delle dirette e dei diretti interessati. E un’attenzione particolare per le sfumature, i paradossi, i processi culturali in atto, la forza vitale di un movimento che ogni giorno assomiglia sempre più ad una rivoluzione. Ho incontrato Parisa e Soheil, una donna e un uomo iraniani che da anni vivono in Italia e che stanno seguendo attivamente ciò che accade nel loro paese. Parisa, nata ad Isfahan, una città dell’Iran centrale, si è trasferita a Milano quindici anni fa, lavorando prima nell’ambito del design, oggi in quello della comunicazione digitale. Soheil, originario di Shiraz, capitale della Persia nel XVIII secolo, ha studiato informatica in Iran per poi trasferirsi a Milano nel 2011. Dopo gli studi in nuove tecnologie dell’arte all’Accademia di Brera, lavora come programmatore e fotografo. Di seguito sono riportati i punti salienti di una conversazione tesa tra la rabbia e la speranza, l’angoscia per la distanza e la fiducia che dall’unità possa darsi il cambiamento.

    Non si tratta più di un semplice movimento. Quello che sta accadendo oggi coinvolge l’intero popolo iraniano

    Parisa: Quello che sta accadendo nelle ultime settimane mi riporta a una sensazione già provata.  Vivevo già in Italia quando nel 2009 sono scoppiate le proteste del Movimento Verde. In Iran si manifestava per chiedere le dimissioni di Mahmoud Ahmadinejad, nominato presidente grazie a risultati elettorali truccati. So bene cosa si prova ad essere lontani da casa in un momento che sembra decisivo per la lotta. Ai tempi ero molto attiva anche da Milano. Organizzavo manifestazioni ed incontri. Mi arrabbiavo per l’ignoranza e l’indolenza che incontravo in Italia rispetto all’Iran. Nei tredici anni che mi separano dai tempi del movimento verde ho capito che spendermi per informare sarebbe stato più utile.

    Soheil: All’epoca del Movimento Verde vivevo ancora in Iran. Partecipavo alle manifestazioni e non mi venivano risparmiate le aggressioni da parte della polizia. C’era un’enorme energia, sembrava la volta buona perché qualcosa cambiasse. Ma la fiamma si è spenta, i leader che avevano appoggiato le proteste hanno fatto dei passi indietro. Il popolo si è dovuto adattare tornando all’ordine. Ma quelle di allora erano proteste nate per questioni elettorali, quindi politiche in senso stretto. Questa volta è diverso.

    Parisa: Non si tratta più di un semplice movimento. Quello che sta accadendo oggi coinvolge l’intero popolo iraniano. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’omicidio di Mahsa Amini, una donna innocente, torturata a morte da un regime autoritario. Ma i motivi per cui lottiamo sono vecchi di quarant’anni, anzi, per la verità le radici vanno cercate ancora prima. A partire dalla Rivoluzione islamica del 1979, noi donne, da quando cominciamo a capire qualcosa – a otto o nove anni, che dal regime è considerata l’età della pubertà femminile – siamo obbligate a indossare il velo. Non è una scelta, è un’imposizione. Io sono cresciuta con l’hijab e non mi ha mai dato fastidio. Certo, avrei voluto poter scegliere, ma probabilmente avrei spesso scelto di indossarlo. Il paradosso è che all’epoca dello scià bastonavano le donne che volevano mettere il velo, ora bastonano le donne che non lo mettono. È da una vita che le donne iraniane in un mondo o nell’altro stanno combattendo. Reza Pahlavi – l’ultimo scià – credeva che per modernizzare un paese considerato arretrato come l’Iran fosse fondamentale occidentalizzarlo. Il problema è che dimenticava il contesto in cui interveniva. I villaggi remoti delle zone rurali sono luoghi in cui le donne portano il velo anche davanti al marito per una questione culturale, di abitudine. Forzarle a indossare la minigonna, a bere alcolici, ad andare a ballare è una violenza tanto quanto lo è stato in seguito richiedere il contrario. La tragedia, quindi, è un’altra: non tanto l’obbligo di portare il velo – in Iran nessuno si sarebbe mai sognato di fare una rivoluzione per l’hijab – ma piuttosto il fatto che non indossarlo o indossarlo male possa costare la vita. È un sopruso tanto grave da risvegliare una rabbia profondissima. Ognuno di noi ha sentito di aver perso una sorella. Guardo ammirata la reazione delle ragazzine, la loro lotta consapevole e compatta. E anche le donne anziane che hanno portato il velo per ottant’anni, credendoci, e oggi escono in piazza a dargli fuoco in segno di protesta.

    Soheil: Con l’omicidio di Mahsa Amini è stata superata una soglia, quella dell’inviolabilità della vita, oltre cui nessuno ha più potuto far buon viso a cattivo gioco. Da quando il regime ha iniziato a sedare le manifestazioni sequestrando, torturando e uccidendo i manifestanti, il popolo si è risvegliato dall’assuefazione degli anni passati. Era un’assuefazione dettata dalla necessità di sopravvivere, non dal consenso. Il fatto è che fino ad ora in Iran le proteste sono sempre partite dalle classi medio-alte, non riuscendo a includere le fasce più vulnerabili. Questa volta il movimento è trasversale perché l’oppressione riguarda tutti. Bisogna ricordare che parliamo di un paese reale in buona parte laico. I desideri e le ambizioni dei giovani iraniani non sono diversi da quelli dei giovani italiani. La differenza è che ci si è sempre dovuti ritagliare le libertà rubandole, per così dire. Non si rinunciava a fare una festa: la si faceva più lontano, si usavano certe precauzioni. Questo solo per fare l’esempio più banale. Ma oggi non stiamo più parlando di feste o di hijab: stiamo parlando di un regime la cui violenza ci costringe a cambiare parole. Non usiamo più la parola arresto: usiamo la parola rapimento, sequestro di persona. Nessun termine che implichi legittimità può più essere utilizzato quando si parla del Regime Islamico iraniano. I manifestanti vengono fatti sparire e se va bene riappaiono giorni dopo con il corpo martoriato. Altrimenti appare il cadavere. I lavoratori del settore petrolifero rischiano il lavoro e la vita semplicemente perché esercitano il diritto allo sciopero.

    Parisa: I miei genitori vivono ancora in Iran. Dopo i primi giorni di protesta WhatsApp è stato bloccato e non ho potuto contattarli. Ero terrorizzata dall’idea che fossero morti. Seguivo ossessivamente i canali Twitter e Instagram che riuscivano a riportare qualche notizia.

    Soheil: L’uso dei social come strumento politico è stato fondamentale. L’omicidio di Mahsa Amini poteva essere uno degli ennesimi soprusi e passare inosservato, come già era accaduto in passato. Ma abbiamo deciso di generare una twitter storm usando l’hashtag #mahsaamini, che dopo pochi giorni ha superato i numeri di #blacklivesmatter. L’intenzione era quella di rendere questo fatto una priorità globale. Sapevamo che i media tradizionali non ne avrebbero parlato e dovevamo trovare il modo di obbligarli a farlo. È partito tutto dal basso, dalla rete, una rete di individui che si sono uniti. Di certo non voglio paragonare un tweet dalla mia casa a Milano con la lotta di chi sta in Iran, nelle piazze, in prima linea a rischiare la vita. Ma è stato importante scegliere insieme un altoparlante specifico. Nel 2009 l’organizzazione delle manifestazioni passava attraverso Facebook. Da allora Facebook e Twitter in Iran sono bloccati. Adesso si è aggiunto anche Instagram. Ma la gente continua ad usarli trovando il modo di raggirare i blocchi. Le ragazze iraniane sono attive su TikTok come qualsiasi ragazza occidentale. Quando si è iniziato a parlare di ciò che stava accadendo in Iran molti italiani mi hanno detto che erano stupiti dalle ragazze iraniane: “Sembrano donne occidentali, libere, bellissime.” Mi veniva da ridere. Cosa ci si aspettava? L’occidente viene da decenni di demonizzazione dell’Iran. Non credo sia un caso che il femminismo liberal abbia taciuto fino ad ora. Non era una battaglia di cui si poteva appropriare con facilità. Le donne iraniane sono sul fronte, in prima linea. Gli uomini sono dietro di loro, al loro fianco.

    Quando si è iniziato a parlare di ciò che stava accadendo in Iran molti italiani mi hanno detto che erano stupiti dalle ragazze iraniane: “Sembrano donne occidentali, libere, bellissime.” Mi veniva da ridere

    Parisa: La gravità delle violenze ha fatto sì che grandi nomi – artisti, registi, cantanti, scrittori famosi – si schierassero apertamente dalla parte dei manifestanti esprimendo sostegno e vicinanza. Questo serve a fare della questione iraniana una priorità nel dibattito pubblico mondiale. Appena l’Iran esce dalla scena, dalle notizie, dai media, è la morte assoluta. Ora chiunque possa portare l’attenzione su ciò che sta accadendo è utile alla causa.

    Soheil: Funziona anche al contrario. Non c’è solo un accordo su ciò a cui va dato risalto ma anche su ciò che va oscurato. Pochi giorni fa il regime ha rapito un ragazzo molto attivo politicamente, un rapper piuttosto famoso. È stato torturato e obbligato a girare dei video in cui appariva con il volto tumefatto e chiedeva scusa per aver incitato alla rivolta, invitando il popolo a disertare le manifestazioni e tornare all’ordine. Il video era agghiacciante: è stato mandato in onda sulla tv nazionale e pubblicato su internet. Noi abbiamo deciso insieme di farlo morire: non guardarlo, non ricondividerlo. Doveva sparire. Non bisognava fare da cassa di risonanza alla propaganda del regime. Se vogliono far diventare virale un contenuto noi lo cancelliamo. Ora questo video non si trova più.

    Parisa: Il vero obbiettivo è che i paesi europei e gli Stati Uniti smettano di fare affari con il regime. Avendo perso totalmente il consenso popolare, il denaro è l’unica cosa che lo mantiene in piedi. Le manifestazioni, gli scioperi e le proteste renderebbero la situazione disperata per qualsiasi governo, ma questo regime resiste perché continua a fare cassa. Con chi poi? Con gli stessi che ci mandano messaggi di solidarietà. Si vocifera che le famiglie dei pezzi grossi della Repubblica Islamica stiano comprando i visti per fuggire dal paese a prezzi esorbitanti.

    Soheil: Noi iraniani in Italia abbiamo un gruppo Telegram dove ci organizziamo. Oltre alle manifestazioni, cerchiamo di fare politica attiva sul territorio in altri modi. Di recente abbiamo mandato un’e-mail all’università di Bologna per mettere a conoscenza il rettore del fatto che l’ateneo ha fra gli iscritti la figlia del console Iraniano a Milano, appartenente ad una famiglia complice di un regime sanguinario.

    Parisa: È chiaro che il regime sia arrivato ad punto di non ritorno. Non so come andrà a finire ma so come non può tornare ad essere.

    Soheil: Nonostante la repressione continui e anzi non faccia che peggiorare, le fila delle proteste si ingrossano quotidianamente. Se tutte le città insorgessero ci si chiederebbe: quante persone può ammazzare il regime? Non è un movimento organizzato in maniera gerarchica, non ci sono leader, c’è una comunità, una nazione: magari disordinata, senza idee chiare sul futuro, ma unita dalla convinzione che qualcosa deve cambiare. E mi auguro accada senza ingerenze da parte degli interessi dell’Occidente. Ci servono alleati, non nuovi oppressori. Qualche giorno fa Joe Biden ha detto che molto presto gli Stati Uniti libereranno l’Iran. Abbiamo risposto “No grazie, ci pensiamo noi.” (ride)

     

    Immagine di copertina di Artin Bachan da Unsplash

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