Cronache del corriere, il lavoro invisibile della quarantena

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    Durante i lunghi mesi di lockdown, molti italiani hanno fatto ricorso a servizi di consegna a domicilio, talvolta sperimentando questi servizi per la prima volta. In primis, nella fase uno: la spesa. Poi, nella fase due: la cena, con la riapertura dei ristoranti per asporto e take away. I dati dell’Osservatorio Consumi di Payback mostrano chiaramente le dimensioni di questa novità, monitorando una crescita del 227% di acquisto di cibo online nel solo mese di Marzo, prima principalmente al Nord, poi anche nel resto d’Italia.

    Anche Amazon ha visto i suoi ordini moltiplicarsi nello stesso periodo, costringendo l’azienda ad una riorganizzazione dei flussi di lavoro ed i clienti ad una attesa più lunga del solito per la ricezione delle merci ordinate.

    La crisi del Covid-19 è piombata sull’industria del delivery trasformandola in un’ancora di salvezza percepita per la frenetica società dei servizi dello scricchiolante tardo capitalismo occidentale. Sia per i singoli individui, sia per ristoratori e negozianti, le consegne a domicilio hanno rappresentato un modo per assaporare una parvenza di quella normalità che si è bruscamente interrotta tra la fine di Febbraio e l’inizio di Marzo 2020. Tutto questo, ovviamente più che legittimo, ci offre però una visione più da vicino del problema dell’invisibilità di quei lavoratori che materialmente effettuano queste consegne, i quali, se escludiamo il comparto sanitario, durante il lockdown sono stati, insieme ai lavoratori dei supermercati, la prima linea della resistenza degli altri al Covid-19.

    Il corriere, in particolare, è stato a tutti gli effetti il lavoratore invisibile della quarantena. Molto si è parlato – e giustamente! – dei tantissimi lavoratori che l’emergenza Covid ha mandato in crisi o in cassa integrazione, che rischiano di perdere il lavoro perché il loro datore di lavoro non sa se, e come, ritornerà ad operare, che attendono un aiuto dallo Stato e una prospettiva di futuro dalle aziende che li hanno sotto contratto.

    Abbiamo orgogliosamente applaudito il personale sanitario e ringraziato chi ha continuato a lavorare nei negozi di alimentari e nei supermercati, rischiando la loro salute per la nostra spesa. Si è parlato molto, altrettanto giustamente, dei braccianti e migranti “invisibili” che lavorano nella filiera alimentare, e dello sfruttamento che questi subiscono.

    Il corriere rappresenta quindi il perfetto alter ego dello smart worker nel film delle disuguaglianze al lavoro

    Dei corrieri, invece, sebbene con qualche eccezione, nel discorso pubblico si è detto poco o nulla. Certo, si dirà: il corriere tutto sommato ha continuato a lavorare normalmente. Es è proprio questo il punto: tra la sorpresa di una consegna puntuale e l’irritazione per un ritardo, a differenza di altri lavori il corriere è stato dato per scontato durante il lockdown, continuando a restare invisibile come era prima della quarantena. Il “nuovo normale” dei corrieri non è mai iniziato: è sempre lo stesso normale di prima.

    Anche qui, come in altri contesti, la crisi del Covid ci fa vedere più chiaramente alcune contraddizioni che già esistevano, come ad esempio la relazione osmotica tra lavoratori qualificati della conoscenza e lavoratori a bassa qualifica dell’economia del delivery. Nelle città globali come Londra, New York e Milano, la prima è la principale usership dei vari UberEats, Just Eat e Deliveroo, mentre la seconda vive in funzione di essa.

    Il corriere rappresenta quindi il perfetto alter ego dello smart worker nel film delle disuguaglianze al lavoro che il Covid-19 ha proiettato in questi mesi a schermo intero, a forza, nelle nostre vite. Ai privilegiati e fortunati che hanno potuto fare smart working comodamente dal loro divano, fanno da contraltare i corrieri che hanno portato cibo alle case dei primi, nella forma di una spesa, di un pasto caldo, o di un acquisto su Amazon, come se nulla fosse.

    Tutto ciò senza contare che, anche nel lavoro del corriere, esistono diseguaglianze interne che dividono ad esempio coloro che svolgono questo lavoro per un’azienda responsabile, con le dovute tutele e protezioni individuali, dai moltissimi che tutele e protezioni non ne hanno. In questo periodo abbiamo i lavoratori Amazon, dagli Stati Uniti all’Italia, da New York a Calenzano, mobilitarsi per richiedere il rispetto dei protocolli di sicurezza sul lavoro, e persino la pesante accusa di caporalato a carico di Uber Italy, commissariata per sfruttamento dal Tribunale di Milano proprio qualche giorno fa.

    Come sottolinea Repubblica, “l’emergenza Covid e l’esplosione dei servizi di consegna a domicilio “potrebbe aver provocato anche reclutamenti a valanga e non controllati” di fattorini, in un “regime di sopraffazione” di soggetti “reclutati in una situazione di emarginazione sociale”. Per chi fa ricerca da anni su questo tema, è la scoperta dell’acqua calda. Su questo asse, e su queste disuguaglianze, scorrono sotto traccia alcune delle più visibili differenze di classe del capitalismo digitale, che il lavoro dei corrieri e dei ciclofattorini incarna plasticamente e rende visibili nel nostro quotidiano, sulle nostre strade. Anche se non vogliamo vederle.

    Il courier work oltre il Covid-19

    Tra caporalato e sfruttamento, però, l’emergenza Covid ci offre una nuova visuale e una strana opportunità di riflessione sulle forme di lavoro a bassa qualifica soggette a varie forme di sfruttamento, piattformizzazione e controllo. Nei giorni scorsi, ad esempio, è uscito su NovaraMedia e MeansTV il documentario Reclaiming Work, realizzato da BlackBrown Films, un’agenzia di produzione audiovisiva indipendente che mette al centro dei propri lavori una critica alle disuguaglianze che in particolare affliggono le minoranze. Il documentario mostra un interessante esperimento di autorganizzazione cooperativa tra corrieri che lavorano via piattaforma a Madrid, che si pone direttamente in competizione con UberEats e gli altri giganti.

    Questo ci porta a riflettere sul futuro del courier work oltre il Covid-19. Se da un lato c’è il rischio di un nuovo, invisibile processo di deskilling del lavoro, magari numericamente non rilevante (per ora) ma che potrebbe diventarlo presto, costituito da quei lavoratori che sono “costretti” a riarrangiarsi come corrieri quando prima avevano altre mansioni, come ad esempio parte del personale di sala dei ristoranti e dei locali, dall’altro lato dietro alla percezione delle consegne a domicilio come ancora di salvezza per l’economia dei servizi post-lockdown resta il problema di fondo della sostenibilità del capitalismo di piattaforma nell’economia reale, se è vero che nessuna delle aziende della gig economy è tuttora in grado di generare profitto.

    Spesso si dice, talvolta a sproposito, che una crisi rappresenta allo stesso tempo un momento di difficoltà e di opportunità. Mai come in questo caso, però, la documentata crisi delle piattaforme generata dal Covid-19, con gli epigoni Uber e Airbnb costretti a licenziare personale e ridimensionare le proprie economie gonfiate dal venture capital, porta in luce la possibilità di un nuovo discorso pubblico sulla piattaformizzazione del lavoro e la sua scalabilità. La prospettiva del platform cooperativism, attraverso un modello in cui sono proprio lavoratori come i corrieri protagonisti di questo documentario a prendere il controllo dei processi produttivi, sottraendoli alle piattaforme monopoliste, torna così in luce come alternativa al capitalismo di piattaforma e al suo dominio incontrastato nel contesto del lavoro on demand.

    Come ricorda Martin Angioni la “santa alleanza” fra consumatori e piattaforme si può anche incrinare

    Se è vero che, nel “vecchio” normale, la prospettiva cooperativista soffriva di una sorta di brand disadvantage, essendo sostanzialmente incapace di competere con il vantaggio competitivo dato dalla facilità d’uso e di accesso delle piattaforme più conosciute, nonché con l’immaginario di coolness e il lifestyle che le caratterizza(va?), oggi nel “nuovo normale” del post-Covid si apre un inaspettato spazio di azione – discorsiva e pratica – per mostrare che un’alternativa esiste, per i lavoratori e per il pubblico, al monopolio delle piattaforme.

    Come ricorda Martin Angioni, ex ad di Amazon Italia nel libro Amazon Dietro Le Quinte, la “santa alleanza” fra consumatori e piattaforme monopoliste basata sulla convenienza a un certo punto si può anche incrinare. L’utente o consumatore, sottolinea Angioni, ha una doppia identità: oltre a questo è anche cittadino. A dispetto quindi della convenience che questi servizi offrono, può capitare che – anche grazie a eventi inaspettati e per certi versi rivelatori – questi “finiscano per violare un contratto sociale non scritto, con comportamenti eticamente dubbi”, per esempio in termini di lavoro e fiscalità. In questo modo, continua Angioni, “il cittadino-consumatore-utilizzatore capisce che la gratuità o il minor costo del servizio o del prodotto ha una contropartita”. È qui, nel disvelamento di questa contropartita invisibile offerto dall’emergenza Covid, che si apre lo spazio di azione per la prospettiva cooperativista, che può trovare nuovo terreno di attrattività.

    Questo radicale cambio di scenario è visibile già per altri temi, come ad esempio il reddito di base universale: una survey condotta a Marzo dall’Università di Oxford mostra come il 71% degli europei sia ora favorevole ad una forma universale di sostegno al reddito, una proposta spesso bollata come utopica e irrealizzabile.

    Allo stesso modo, l’impensabilità del platform cooperativism su larga scala prima della pandemia diviene oggi, improvvisamente, pensabile e possibile. Da qui a realizzarsi come un’alternativa compita, come sappiamo, ce ne passa. E però, come ci ricorda Rutger Bregman, a volte ciò che solo poco tempo prima sembrava utopico diventa, improvvisamente, realtà.

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