Emoticon e slang. Il linguaggio si fa minimal, le emozioni e i sentimenti small

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    Lo sappiamo benissimo ma ce lo chiediamo ugualmente. Giovani e adulti. Che mondo sarebbe senza le emoticon? Senza quelle simpatiche e accattivanti faccine che riproducono stilizzate le principali espressioni facciali umane per esprimere emozioni e sentimenti. Che ci regalano un attimo di leggerezza anche quando inviamo un messaggio non proprio positivo. Quando, seppur arrabbiati, scorriamo veloci la galleria di icone colorate alla ricerca di una faccia torva, al pari della nostra, e ci costringiamo ad un involontario e impercettibile sorriso per aver clikkato quella sbagliata e fuori contesto.

    E che dire degli slang? Del gergo giovanile di così esplosiva espressività. Di quel modo di dire le cose, così veloce e nuovo, che sembra il refrain di una canzone breve, lo scroscio d’acqua improvviso che rinfresca una considerazione ovvia, un discorso scontato o impegnativo, e ne rivitalizza i concetti innovando il lessico e canzonandone il significato. Ed è un fiorire di: tutt’ appo’, oki, storiarsi, taggare, flashiarsi, brasare, incicognirsi e tanto altro, parole che ci dicono qualcosa, o tanto, della generazione che li adopera. Slang parlato ma anche scritto, sui social, in chat, negli istant messaging. In qualunque forma sempre di slang si tratta.

    Ebbene sì, se senza emoticon e slang il mondo sarebbe più grigio, è anche vero che sarebbe lessicalmente più vario e articolato. Meglio rappresentato nelle espressioni linguistiche dei suoi fruitori, i giovani, maggiormente consapevoli di ciò che comunicano.

    Perché a ben guardare il rischio che si corre a rinchiudersi in emoticon e slang per esprimere il proprio mondo interiore, in una società che non ama declinare verbi che descrivono la soggettività e quindi il sentire dell’uomo, ma solo ciò che è relativo a performance, tecnicismi e acrobazie che puntano al successo come status, è di veder ridotto, o meglio rattrappito, il mondo emotivo e sentimentale di chi li utilizza. Soprattutto se li si usa in modo prevalente o, addirittura, assoluto. D’altra parte si sa gli oggetti che non adoperiamo smettono di avere valore, le cose che non nominiamo cessano di esistere. Sembra questo, al tempo d’oggi, complice il linguaggio che si è fatto minimal, il destino delle emozioni e dei sentimenti. Invisibili anche se comunicate attraverso le emoticon, le prime; poco frequentati in profondità anche se hashtaggati nei post di Facebook e nelle storie di Instagram, i secondi.

    Sembra infatti che emozioni e sentimenti vivano oggi piuttosto in superficie, iconologgizzati. Ma mentre per creare un un’emoticon il suo ideatore deve ben conoscere il significato che vuole raffigurare, il giovane che la utilizza non sempre ne possiede, in profondità, il contenuto semantico. E d’altra parte perché dovrebbe sforzarsi? Basta accedere al supermarket del proprio smartphone, all’espositore in cui stanno in bella vista, per clikkare quella che gli suggerisce la sua approssimazione emotivo-sentimentale di cui non ha colpa. E poco importa se la faccina con i cuori al posto degli occhi la usa nel significato sia di amore che di affetto. Chi gli insegna la differenza? Non esiste neppure una faccina mono-oculare che faccia sorgere il dubbio.

    Non esiste un moderno Polifemo dall’occhio-cuore spaiato.

    Così, se pur ha imparato che c’è differenza tra l’emoticon con una lacrima e quella che di lacrime ne ha due, ignora, poiché non si impartisce educazione emotivo-sentimentale nei luoghi dell’educazione, che esistono lacrime continue, intermittenti, intervallate da sorrisi, asciugate presto, trattenute, gioiose, di commozione. Così come accanto all’amore e all’odio esiste la nostalgia, il rammarico, la malinconia, il disappunto, la rimembranza, e molto altro ancora.

    Insomma, il mondo emotivo-sentimentale dell’uomo ha una dotazione molto più ricca delle emozioni e dei sentimenti di cui mostra di avere consapevolezza. Dove sono le faccine che li raffigurano? Non ci sono. Ne sia consapevole l’inventore.

    Il nativo digitale 3.0, ma anche quello 2.0, dove imparerà la grammatura delle emozioni e dei sentimenti se il repertorio digitale banalizza e minimizza, e pertanto riduce di molto, la gamma di sfumature emotive possibili ad ogni soggetto? Perché dichiararsi innamorati o voler bene significa avere la capacità di operare una distinzione tra i sentimenti che nasce dalla possibilità non solo di riconoscere l’emozione del cuore, da cui si sviluppano i sentimenti, ma di riuscire ad attribuire ad essa una determinata intensità, una specifica grammatura e che nel nome ha il segno distintivo di una diversità e di una differenza. Come Tilmann Moser in Grammatica dei sentimenti ( Cortina, 1991) ci insegna.

    Che cosa possono fare i giovani per non mancare la crescita armonica di se stessi? Attraverso quali modi possono imparare a conoscere le proprie emozioni e sentimenti? Chi li aiuta a dare nome a ciò che sentono? A dare sistemazione concettuale ai tumulti dell’animo? Le emoticon delle varie messaggerie istantanee? Non pochi, e per tante ragioni soprattutto di salute, sono tra l’altro i richiami che i pediatri e gli psicologi fanno quasi quotidianamente circa l’uso dei telefono cellulare fin dalla più tenera età. Se si impara a conoscere e a rappresentare le emozioni e i sentimenti tramite le emoticon, quale educazione affiancherà, attribuirà significato e amplierà di possibilità espressive questo comodo repertorio digitale pronto all’uso? E lo slang nel suo efficace modo di rappresentare l’appartenenza ad un gruppo, il suo essere rottura dell’esistente linguistico e socio-culturale, non sarà forse anch’esso in qualche modo deprivativo di altre possibilità di espressione emotiva più distesa e meno banalmente omologante? In definitiva, scialla è riuscito a imporre calma e rilassatezza al destinatario o l’abuso teminologico, l’overdose che si è fatta di questa parola, ha fatto perdere il senso di neologica ribellione al già detto (in questo caso il tradizionale “stai sereno”, “non agitarti”) per cui uno slang nasce?

    Vengo al punto. Che relazione e che responsabilità ha in una società poco incline a dare valore alle emozioni e ai sentimenti il linguaggio minimal? Ne è solo lo specchio? Come influisce questa velocità e riduzione dell’espressione linguistica complessa, sulla conoscenza e sulla costruzione di significato relativi ai diversi aspetti del sentire umano? Si tratta solo di velocizzazione del parlato? Di efficacia di rappresentazione iconica? Di sintesi necessaria? Di modernità del sentire? O magari di ottimizzazione del tempo in un tempo che tempo non ha? Mi si scusi la ridondanza. E inoltre, la faccina con i cuori al posto degli occhi davvero fa lo stesso effetto del ti amo scritto in corsivo? E il mittente prova lo stesso turbamento del cuore, la stessa consapevolezza, nel dichiarare il proprio sentimento con l’emoticon che la tecnologia della comunicazione gli offre piuttosto che con le due paroline desuete, ma di grande impatto emotivo, poste l’una accanto all’altro? Perché nessuna faccina innamorata sarà mai un ti amo scritto per intero. Scritto per davvero. Non sarà per caso che l’educazione alle emozioni e ai sentimenti è stata sbrigativamente risolta anche dalle emoticon e da certi slang che a furia di rincorrersi e ripetersi educano ad una sintesi approssimata lì dove serve tempo per percepire e percepirsi, per stupirsi, per ascoltarsi, per andare in profondità, per dare nome a ciò che si muove e prende forma nell’intimo di ognuno? Non è che il linguaggio minimal è funzionale ad una educazione che si è fatta minima, se non addirittura inesistente, su aspetti di cui oggi invece si ha più bisogno che mai?

    Perché Goleman in Intelligenza emotiva (Rizzoli, 1996) così come Galimberti de L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani (Feltrinelli, 2007) hanno da tempo lanciato l’allarme sui rischi che la mancata alfabetizzazione emotiva comporta. Tra essi il crescere poco empatici, incapaci di percepire l’altro da noi e quindi i bisogni del mondo. Perché se è indubitabile che non sono una linguista, è certo che sono una pedagogista. E da studiosa dell’educazione osservo il cambiamento in corso e non mi piace. Ma per accorgersi che qualcosa non torna nell’equazione linguaggio-educazione rispetto alla questione delle emozioni e dei sentimenti non occorre essere bravi matematici, occorre essere capaci di ragionare in modo elementare. E sforzarsi poi di rifletterci su. Pedagogicamente per quel che riguarda la mia parte. Anche se non basta.


    Immagine di copertina: ph. Bernard Hermant da Unsplash

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