Una recente sperimentazione italiana legata al design per l’innovazione sociale è “Cittadini Creativi”. Si tratta un progetto nato all’interno del Dottorato di Ricerca che l’autrice ha svolto al Politecnico di Milano, con l’obiettivo di creare uno spazio di incontro tra cittadini, designer, istituzioni e attori locali, un contenitore collaborativo per co-progettare e co-produrre servizi per la vita quotidiana in un quartiere di Milano. […]
Contesto: un quartiere e la sua comunità creativa
Questo progetto di ricerca è partito dall’individuazione di una comunità creativa esistente, situata nella Zona 4, un’area di Milano che presenta un buon numero di iniziative sociali e servizi informali di mutuo-aiuto, e per questo promettente.
Si è scelto dunque di lavorare a scala di quartiere: negli ultimi anni, in particolare in Italia, la strada e il vicinato stanno vivendo una nuova felice stagione, basti pensare al fenomeno delle Social Street.
Un estratto da L’età della condivisione a cura di Gregorio Arena, Christian Iaione
Questo ritorno al quartiere era stato già descritto da Maffesoli nel 2007, il quale lo aveva definito come il ritorno al tempo delle tribù: “all’autonomia della borghesia sta succedendo l’eteronomia del tribalismo, in qualsiasi modo lo si possa chiamare – quartieri, vicinati, gruppi di interessi diversi, reti – assistiamo al ritorno di un investimento affettivo e passionale”(ibid., p. 190). Si mette quindi l’accento sul noi e sulla quotidianità, il che significa ricentrarsi sul concetto di prossimità, proprio perché “l’epoca contemporanea privilegia lo spaziale e le sue diverse modulazioni territoriali” (ibid., p.194).
Il quartiere e le pratiche di vicinato acquistano un nuovo senso, soprattutto se supportati dal sistema delle ICT che offre straordinarie possibilità e rapidità di contatto. È proprio grazie all’accelerazione tecnologica che è stato possibile il ritorno alle tribù, ai micro-gruppi: non a caso il paradigma della rete può essere considerato come la riattualizzazione dell’antico concetto di comunità, un’aggregazione esistenziale e operativa, un modello che viene dalle culture arcaiche e pre-industriali basate sul commercio/scambio e sulla collaborazione comunitaria. Le comunità creative sono gli eredi di queste culture e il loro aggiornamento tecnologico non si limita all’uso ordinario delle tecnologie esistenti, ma a un utilizzo originale e inedito, mettendo prodotti e servizi normalmente disponibili nel mercato all’interno di un nuovo sistema (Jégou e Manzini, 2008).
L’idea iniziale di Cittadini Creativi è dunque quella di focalizzarsi sulla prossimità e la quotidianità di una comunità creativa e di supportarne le attività attraverso un insieme di metodi e strumenti provenienti dalla ricerca in design dei servizi, portando quindi la ricerca fuori dalle università e dentro la società, mettendola in contatto diretto con la città e i suoi abitanti.
La sperimentazione è avvenuta in un luogo simbolo dell’attivismo civico milanese: la Cascina Cuccagna, uno spazio salvato dal degrado e dall’abbandono grazie alla mobilitazione di un gruppo di cittadini, attivando una “rete di competenze, energia, professionalità e risorse” (Moulaert e Vicari Haddock, 2009, pag. 213).
La preparazione del progetto ha richiesto un anno di “immersione ambientale” all’interno della comunità. Attraverso metodi di ricerca etnografica, l’autrice è entrata in contatto con un gruppo di circa trenta cittadini, in parte già attivi nel quartiere, in parte semplici interessati, ma tutti disponibili ad iniziare una sperimentazione per “riprogettarsi la vita quotidiana” e conseguire risultati reali, ossia dei servizi di interesse generale che ricadono sul territorio e sulla comunità locale.
La sperimentazione: co-progettare servizi di interesse generale
Una volta creato il gruppo di cittadini, il progetto parte con un programma di appuntamenti settimanali per raccogliere idee e sperimentarle in ambiti differenti: il cibo, gli oggetti usati ogni giorno, le competenze messe in campo per risolvere problemi burocratici, le mansioni domestiche da svolgere e molte altre attività che si possono trasformare in servizi efficienti e collaborativi. Ogni sessione è caratterizzata da un allestimento temporaneo per simulare situazioni di servizio da testare, migliorare o cambiare usando il design dei servizi e la progettazione partecipata. Si tratta di un percorso di partecipazione leggera e creativa, proprio perché tutti possono diventare “designer della propria quotidiana” almeno per qualche mese, possibilmente divertendosi.
Gli appuntamenti settimanali, vere e proprie sessioni di co-design, sono avvenuti da febbraio a giugno 2013, ogni giovedì, per due ore. Un programma intenso, diviso in quattro cicli tematici: servizi di scambio oggetti e competenze, servizi legali e burocratici, servizi alimentari e servizi culturali.
Ciascun ciclo si compone a sua volta di tre incontri, che possono essere visti come parte di un percorso di collaborazione progressiva. La prima sessione ha l’obiettivo di introdurre il tema, presentando buone pratiche esistenti in Italia e nel resto del mondo, in modo da trarne ispirazione e generare visioni alternative di vita quotidiana. I cittadini partecipanti selezionano gli elementi più promettenti dei casi presentati, che poi sono ri-organizzati nell’incontro successivo. La seconda sessione è infatti una sorta di brainstorming collettivo dove convergono ispirazioni, desideri, necessità. Nella terza sessione l’obiettivo è passare da un servizio ideale ad uno reale, individuando le risorse locali che potrebbero essere coinvolte nello sviluppo. Si tratta di una vera e propria sessione di prototipazione che utilizza mock-up fisici per presentare il servizio, più altri strumenti per applicare il servizio alla realtà della Zona 4. In quest’ultima sessione sono spesso coinvolti attori esterni, come associazioni locali e comitati, rappresentanti delle istituzioni e del terzo settore, consulenti professionali, soggetti che sono già attivi sul territorio ma che faticano a incontrarsi.
Durante le sessioni sono utilizzati vari strumenti che fanno parte del toolkit del service designer e del ricercatore sociale. Sono chiaramente adattati al contesto e resi più popolari e accessibili, per permettere un’ampia partecipazione.
Gli strumenti sono suddivisi in: inspiring tools, per stimolare l’immaginazione e il pensiero laterale (tavole di casi studio, carte di suggestione, video-storie ecc.); framing tools, strumenti per elaborare una maniera condivisa di fare le cose (mappe del sistema, customer journey map, rappresentazioni del front office e del back office di un servizio) e infine “implementing tools”, strumenti per sviluppare ulteriormente il servizio e legarlo alle risorse locali (service mock-up, mappe di localizzazione, business model canvas, giochi di ruolo ecc.). […]
Cittadini Creativi ha generato sei servizi i quali si trovano ora in differenti stati di evoluzione: alcuni potrebbero inaugurare un’inedita collaborazione con la sfera pubblica, altri si stanno trasformando in nuove start-up di servizio, gestite dai cittadini stessi che diventano così imprenditori sociali, altre ancora cercano connessioni con soggetti del terzo settore, con i quali condividono il sistema di valori.
Caratteristica della maggior parte dei servizi co-progettati è quella di partire dal miglioramento di un servizio già attivo sul territorio, non a caso fare innovazione sociale significa spesso partire dell’esistente. […]
È interessante notare come le storie dei sei servizi collaborativi differiscano tra di loro, e che l’effettiva progressione verso un servizio funzionante dipenda molto dal grado di attivismo dei cittadini: tutti quei servizi che hanno trovato un “eroe” o un “gruppo di eroi” che hanno preso in mano il progetto dopo la fase di co-design, sono riusciti a fare passi avanti. Il secondo fattore chiave nell’evoluzione di questi servizi è l’incontro con un soggetto “terzo” che potesse effettivamente accoglierne le attività: non tutti i cittadini desiderano fare impresa o costituirsi in una qualche forma, ecco perché l’incontro con una realtà del terzo settore o con il pubblico può contribuire a una reale co-produzione dei servizi fra più attori e non solo fra cittadini.
Un fab-lab di servizi collaborativi
Cittadini Creativi ha sperimento un nuovo formato di intervento e collaborazione nella città, un struttura a supporto delle comunità creative più promettenti, che può essere a tutti gli effetti definita come un fab-lab di servizi (Selloni, 2014). In questo luogo, i cittadini, veri e propri service makers (Selloni, 2013), autoproducono i servizi di cui hanno bisogno, operando in una zona ibrida a metà tra pubblico e privato, mercato e società, amatoriale e professionale, profit e no-profit, basandosi su modelli di condivisione, baratto e affitto di oggetti, prestazioni e competenze.
Così come si sta affermando lo scenario del making nell’autoproduzione di prodotti, Cittadini Creativi propone uno scenario analogo nell’autoproduzione di servizi. Anzi, si può affermare che i cittadini coinvolti diventano dei service thinkers e makers proprio perché il loro contributo può attraversare tutte le fasi del servizio, dalla generazione di idee alla realizzazione, all’erogazione vera e propria.
Un fab-lab di servizi collaborativi per la città è uno spazio fisico e virtuale che agisce da punto di riferimento, un agente sul territorio che supporta i cittadini nelle loro “iniziative” di servizio. Un collettore, che fa sinergia fra le attività (un po’ come la rete delle reti), ma è anche un laboratorio, un incubatore fatto dai cittadini e a disposizione dei cittadini, dove la figura del designer si fa da ponte e interprete di una visione comune, proprio in virtù delle sue capacità progettuali.
Creare un fab-lab di servizi significa inoltre offrire delle service facilities: l’idea è quella di sfruttare dei moduli di servizio, cioè dei “pezzi” di servizio che fanno parte di una piattaforma comune e che, combinati diversamente, danno luogo a diversi servizi, secondo il principio delle economie di scopo (Panzar e Willig, 1981). Alcuni esempi di moduli sono newsletter, formati di transazione economica, di valutazione e monitoraggio, calendari e programmazioni, ma anche risorse fisiche come spazi e mezzi di trasporto.
Co-progettare e co-produrre sono quindi le azioni principali di un fab-lab di servizi, la cui creazione tuttavia pone anche la questione del modello di governance. Si dovrebbe trattare di una governance partecipata che “governa” una rete di servizi collaborativi e di accesso ai beni comuni, affrontando diverse criticità, come: modalità per la creazione e il mantenimento dell’accesso/uso, rivalità e possibili congestioni, regole e condizioni di accesso, ruoli, meccanismi di controllo e di sanzione piuttosto che flessibilità nel modificare le regole.
Tutte queste attività coinvolgono direttamente designer e cittadini con diversi ruoli, i cui confini però sono spesso ambigui. In realtà anche il service designer è un cittadino, nel senso che opera inserito all’interno di un contesto e di una comunità determinata, ma lo fa con delle competenze tecniche e degli strumenti specifici che lo rendono differente. Egli è un attivista come gli altri cittadini e insieme “attivano” iniziative sociali e le portano avanti, ma a differenza degli altri lavora ad un costante processo di connessione, mediazione e facilitazione, utilizzando l’approccio denominato community-centred design (Meroni, 2008). […]
Il design per la collaborazione non è (solo) facilitazione
[…] Il design per la collaborazione è quindi un insieme di teorie e pratiche che sperimentano e integrano varie modalità di co-progettazione, co-produzione e co-gestione. Come si accennava all’inizio del paragrafo, queste attività non si riducono alla facilitazione dei processi tramite una scatola di attrezzi predefinita.
Si tratta di sviluppare una vera e propria “design knowldege” per la collaborazione, che è guidata da una forte visione “politica” che mette al centro il cittadino e la sua comunità.
Questo sapere è molto importante per il terzo settore, che ha bisogno di ritornare a progettare per l’utente dei suoi servizi e non per i bandi e finanziamenti che gli occorrono, ed è ugualmente cruciale per il settore pubblico, che è ripiegato su se stesso e il suo intricato sistema, su misura del quale modella le sue attività, anch’esso dimenticando che l’oggetto delle sue attenzioni è il cittadino, quell’utente che il design mette al centro perché questa è la sua vocazione.
Progettare, produrre e gestire con i cittadini, mettendoli realmente al centro è tutto sommato una rivoluzione copernicana: significa che essi sono il perno della collaborazione tra i vari attori attivi nella sfera pubblica e sociale, e, pur trattandosi di una collaborazione trasversale tra più soggetti, e quindi sia orizzontale che verticale, i cittadini rimangono l’attore chiave attorno al quale tessere una rete virtuosa di relazioni e valori.
Il testo è estratto dal volume L’età della condivisione (Carocci editore) a cura di Gregorio Arena, Christian Iaione