Narrativas silenciadas: 400 anni di storia afro discendente censurata

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    “Il Brasile senza le radici afro-brasiliane non sarebbe il Brasile, la Colombia non sarebbe la Colombia senza quelle afro-colombiane, e Cuba non sarebbe Cuba.”

    Aida Bueno Sarduy, Antropologa afro-discendente cubana1Afro-discendente: ogni persona discendente diretta di schiavi africani..

    Ottobre 2017, un paio d’anni fa.

    Mentre la città di Barcellona s’incendiava per le proteste causate dal referendum non autorizzato sull’indipendenza della Catalogna, all’aeroporto di Barcellona atterrava Angela Davis, politica, attivista contraria alla discriminazione raziale e a favore dei diritti umani, professoressa di Storia della Coscienza all’università della California, ex membro delle Pantere Nere, dirigente storica del Partito Comunista degli Stati Uniti.

    Era stata invitata a tenere una conferenza pubblica dal titolo “La rivoluzione oggi” al CCCB, il Centro sulla cultura contemporanea di Barcellona. La sala era piena di gente africana e afro-discendente e molti sono rimasti fuori ad ascoltarla mentre la conferenza veniva video-proiettata in diversi spazi pubblici.

    A livello personale posso dire che sentir parlare quella sera Angela Davis è stato come essere presa per mano ed essere invitata gentilmente a farmi da parte. Il consiglio che indirettamente ho raccolto è stato quello di intraprendere un cammino solitario, laterale, a bordo strada, di conoscenza profonda, di silenzio, di ascolto e di studio che mi ha portata prima di tutto a prendere consapevolezza del luogo dal quale parlo e scrivo. Un luogo ricco di tutti i privilegi che accompagnano fin dalla nascita le persone bianche di origine europea come me.

    Sentir parlare quella sera Angela Davis è stato come essere presa per mano ed essere invitata gentilmente a farmi da parte

    Se avessimo dovuto attenerci al solo racconto dei fatti storici, stavamo seduti di fronte a una donna inserita da Nixon nella lista dei terroristi più pericolosi degli anni ’60. Catturata, condannata per rapimento, complotto e assassinio, è riuscita a salvarsi scegliendo la pratica rivendicativa dell’autodifesa, con l’intenzione di richiamare alla memoria dei presenti i molti imputati neri indigenti costretti a difendersi da soli.

    La sua voce, oggi così come allora in quel tribunale, era pacata, pausata.

    “E voi? – chiese a un certo punto alla platea riunita a Barcellona – avete iniziato a curare gli effetti della colonizzazione? Avete affrontato in qualche momento della vostra storia l’eredità lasciata dal franchismo? (…) Quando vediamo la violenza contro la comunità afro-discendente negli Stati Uniti non possiamo pensare che sparisca assumendo poliziotti migliori o poliziotti che siano “meno” razzisti o che abbiano partecipato a un corso d’aggiornamento sull’antirazzismo. Se nel frattempo manteniamo intatto l’apparato della polizia e quest’apparato incorpora alcune delle dinamiche del colonialismo, sarà difficile risolvere problemi che affondano le proprie radici nello schiavismo.”

    Ecco qui quello che stava facendo quella temibile ex-terrorista: stava connettendo i puntini neri su una pagina bianca e l’immagine che a fine serata ne è risultata è la mappa precisa di un percorso compiuto da noi esseri umani che racconta una ferita profonda, sanguinante, provocata da 400 anni di schiavismo. Una ferita che aspetta ancora di essere sanata. Una ferita che torna a sanguinare perché nessuno ha ancora mai fatto veramente i conti con quel trauma. Una cicatrice invisibile fatta di narrazioni silenziate nei libri di scuola, nelle aule universitarie, nelle biblioteche, nelle librerie se non per qualche rara eccezione dovuta alla testardaggine di alcune – pochissime – persone.

    “Avete sotto gli occhi come funzionano le cose da noi, negli Stati Uniti: – continuò Angela Davis– non abbiamo mai pensato seriamente al danno irreparabile causato dalla schiavitù dei popoli indigeni e di persone con discendenti africani. Si prova pena [per noi n.d.r] e non c’è la possibilità di instaurare un altro tipo di relazione sociale perché siamo presentati solo come persone verso le quali provare tanta tristezza (…) Vogliamo parlare di rivoluzione, no? È il modo in cui pensiamo al nostro mondo [il mondo afro -discendente n.d.r] che marca la differenza.”

    Terminato quell’incontro ho iniziato la mia ricerca personale e ogni data nella quale intoppavo studiando la tratta degli schiavi, il colonialismo, l’afro-discendenza, l’afro-femminismo era una scusa per sapere che cosa stavamo facendo noi nel frattempo, in quell’esatto momento.

    Per esempio: mentre Jane Austen correva furtivamente sul selciato delle strade di Londra per dare alle stampe anonimamente “Orgoglio e pregiudizio” c’erano altre donne che venivano da tempo strappate alla loro terra, separate dalla loro famiglia, allontanate dalla loro comunità e religione per essere caricate su barconi e vendute come bestiame. Arrivate in un paese sconosciuto, venivano esposte agli sguardi degli uomini nei mercati, nei porti, venivano vendute, venivano comprate e infine venivano utilizzate fuori e dentro casa per compiere i lavori più diversi: da pulire le stalle ad allattare i figli delle loro padrone. Se e quando questi esseri umani avevano il coraggio di scappare, i loro proprietari maschi e bianchi, pubblicavano annunci sui giornali locali promettendo laute ricompense per chi le avrebbe ritrovate. Nel redigere gli annunci di ricerca questi uomini dettagliavano minuziosamente le misure e le forme dei loro corpi soffermandosi sulla descrizione di cicatrici che loro stessi avevano inflitto come unici segni di “riconoscimento”.

    Quante volte le avranno guardate, quelle donne, quegli uomini bianchi? Per quanto tempo? Per farci che cosa?

    Parliamoci chiaro: non puoi conoscere a memoria nessun corpo con quel livello di dettaglio a meno che tu non lo abbia mappato più e più volte con i tuoi polpastrelli, la bocca, la lingua, gli occhi, i denti e le unghie. Quante volte le avranno guardate, quelle donne, quegli uomini bianchi? Per quanto tempo? Per farci che cosa?

    Abbiamo fotografie di queste donne? No: non permettevamo loro di avere dei ricordi. Abbiamo testi scritti da queste donne? No: non permettevamo loro di esprimersi. Davamo loro una abitazione propria? No: vivevano spesso ammassate in delle baracche. Abbiamo qualche descrizione di com’erano queste donne? Sì: quelle fatte dai loro padroni o redatte negli atti di compravendita. Questi sono gli unici documenti che abbiamo se volessimo iniziare a raccontare le loro storie silenziate.

    Abbiamo reso invisibili per 400 anni il loro racconto, le abbiamo disumanizzate in tutti i modi che avevamo a disposizione e continuiamo a rappresentarle così come siamo stati abituati a conoscerle nel grande schermo: incapaci di pensare, sottomesse, povere, incapaci di auto-riscattarsi, deboli, sporche, tristi, da compatire. Chiudiamo gli occhi e pensiamo il nome di una qualche autrice afro-discendente. Non ce ne verrà in mente nessuna.

    Mentre Jane Austen nel 1813 cammina a passi nervosi per le strade di Londra tenendo stretto sotto l’ascella “Orgoglio e Pregiudizio”, gli inglesi stavano discutendo se sarebbe stato necessario tenere degli archivi ufficiali sulla tratta degli schiavi. È curioso sapere che se volessimo informarci su questo tipo di commercio perpetrato in Europa, è proprio dal 1813 che possiamo partire, nonostante la tratta sia iniziata secoli prima e abolita ufficialmente in Inghilterra nel 1807 e negli Stati Uniti nel 1808.

    Tutti i documenti precedenti a quella data si possono recuperare solo compiendo minuziose ed estenuanti ricerche “in the private papers of the slave owner or in records about the owner or his or her proprety” (fonte) sempre e quando i proprietari di quegli archivi vogliano aprire i loro cassetti per mettersi di fronte a uno specchio e trovare la parole giuste per descriversi (fonte).

    È un gesto che – bisogna riconoscerlo – richiederebbe non solo una certa dose di fatica ma soprattutto la capacità di decostruirsi. Quanti sarebbero disposti a compierlo?

    D’altro canto l’unico terreno che permetterebbe la nascita di un sistema realmente rivoluzionario – lontano cioè dalle logiche che affondano le radici nel mondo coloniale e che hanno contribuito a costruire la società di oggi – deve essere ricco di memoria e di consapevolezza. Nessun gesto potrà mai dirsi rivoluzionario se nasce in una terra dove memoria e consapevolezza non siano presenti. Questo terreno per il momento continua invece a essere abitato soprattutto da storie scritte da uomini bianchi, nonostante già negli anni ’60 i movimenti sociali antirazzisti, sorti dalla necessità urgente di rompere la struttura del sistema capitalista, erano sostenuti soprattutto da donne afro-discendenti.

    Che fare, allora?

    Se l’è chiesto Aida Bueno Sarduy, afro-discendente cubana, afro-femminista, studiosa universitaria specializzata in antropologia sociale e culturale, esperta in studi avanzati riguardanti le dinamiche razziali e la cultura nera. Lei ha pensato di iniziare una ricerca approfondita sulle azioni di libertà intraprese dalle donne schiavizzate davanti ai tribunali di giustizia di Pernambuco (Brasile) alla fine del XIX secolo. Ogni donna afro-discendente che ha ricostruito i legami di parentela spezzati dal rapimento e dal trasferimento forzato costituisce un riferimento non solo epistemologico per Aida Bueno Sarduy ma anche spirituale. Sarduy ci orienta quindi verso una nuova prassi femminista sostenendo che cancellare dalla storia questi nomi che fanno parte della genealogia del femminismo non occidentale è perdere esperienze di emancipazione radicale, fatto che giova solamente al potere coloniale e schiavista, oggi convertitosi in “Stato Democratico”.

    Nessun gesto potrà mai dirsi rivoluzionario se nasce in una terra dove memoria e consapevolezza non siano presenti

    Quando Bueno Sarduy ha iniziato a pensare che fosse importante avere riferimenti biografici per un femminismo afro-centrato, aveva in mente che la scrittura accademica costringe con le sue esigenze a citare bibliografie ogni volta che si produce qualcosa. Pertanto immaginare di scrivere un articolo accademico senza queste bibliografie significherebbe commettere un errore formale. Una delle cose che l’afro-femminismo deve fare è uscire da questo quadro teorico e iniziare un salvataggio consapevole di biografie concrete e di donne specifiche a partire dalle quali costruire un nuovo progetto, una nuova narrazione nella quale loro siano le protagoniste.

    “Credo che ognuna di queste biografie – continua Aida Bueno Sarduy – sia un motivo per pensare a una nuova epistemologia, a nuovi concetti e soprattutto a un nuovo modo di parlare della nostra esperienza storica perché, essendo donne afro-discendenti, abbiamo il diritto di costruire – facendone una nuova lettura – il nostro passato. Voglio separarmi intenzionalmente dal modo accademico di costruire il discorso su di noi per cercare altre vie.”

    Ma come si possono scrivere biografie se non ci sono archivi né memoria?

    La sua più grande fonte di studio si trova presso la “Fondazione Joaquim Nabuco” a Pernambuco dove sta riscattando da tempo decine di lettere di libertà e documenti di vendita di schiavi. Aida ha anche accesso a un file che appartiene alla University of Florida – Digital Collections – nel quale sono digitalizzati decine di numeri del “Diario de Pernambuco” del XIX secolo e, insieme al lavoro della ricercatrice, storica e paleografa Benvinda Teixeira che ha studiato le tattiche di resistenza delle donne schiavizzate nella città di Recife del 1836-1842, è venuta a conoscenza di una sezione nei giornali dedicata esclusivamente alla pubblicazione di annunci di ricerca e cattura di schiave. Una fonte inaspettata di documenti.

    “Lavoro con 4 tipi di documenti – specifica -. Alcuni sono annunci del giornale di donne che sono fuggite, altri sono le così dette “lettere di libertà” offerte agli schiavi dai loro padroni, in vita o in testamento. Analizzo le condizioni in cui queste lettere venivano “regalate” e l’inconsistenza di molte di esse. Le “azioni di libertà”, invece, sono processi legali condotti da donne schiavizzate per comprare la loro libertà o per mantenerla quando questa veniva messa in discussione per qualsiasi motivo. Infine ci sono le “scritture di compravendita” e in questo caso analizzo nei dettagli le transazioni che, all’epoca, erano totalmente legali.”

    La questione che più continua a sorprenderla è che quando sono stati redatti c’erano presenti dei testimoni: uno notaio, un venditore, un compratore. Nella stanza in cui questi documenti sono stati prodotti c’era sempre un minimo di 4 o 6 persone che, d’accordo tra di loro, in maniera del tutto legale, stavano comprando e vendendo corpi di donne, di uomini, di bambini, di ragazzini e ragazzine.

    “Ho trovato atti di vendita nei quali bambini di 7 o 11 anni vengono ricevuti in eredità e trasformati in denaro. Nel documento è registrato tutto: il pagamento delle tasse all’acquisto e anche dettagli come ad esempio che lo schiavo o la schiava sono esenti da pignoramento o da qualsiasi altra carica. Tutto deve essere verificato per rendere valida la transazione.”

    In nessun momento c’è qualcuno che si chiede: “Ma che diavolo ci facciamo qui a vendere un bambino di sette anni?”

    “Qualche mese fa – continua Aida – ci siamo sorprese nel trascrivere il contenuto di una delle lettere di compravendita di una schiava e di sua figlia nel quale si legge di uno schiavista che chiede a un altro schiavista di vendergli la metà che gli manca per ottenere il completo possesso della bambina di nove mesi, figlia della schiava che appartiene a entrambi. La madre si chiama Antonia e i due uomini che pare siano fratelli l’hanno comprata al 50% a testa. La schiava ha dato alla luce una bambina di nome Collecta e, in quell’atto, uno dei due vende la parte della schiava che spetta all’altro, affinché l’altra parte ne abbia il “pieno dominio e possesso”. Immaginate che gli schiavi comprati “a metà” subiranno un maggiore sfruttamento, perché ciascuna parte vuole rendere redditizia la propria metà.

    L’idea di comprare la metà di una schiava mi è sembrata, davvero brutale, sconvolgente, incredibile e ancora non so cosa fare con questo documento ma pensare che si possa vendere il corpo di una donna tra due proprietari è assolutamente scioccante per me.

    Devo fermarmi ad analizzare al contenuto di questo documento ma la prima cosa che voglio sottolineare è che non ho bisogno di testi femministi occidentali per capire cosa è successo in quella stanza. Non ho bisogno di un femminismo illuminato per capire profondamente come quella donna possa essersi sentita con la sua bambina tra le braccia. Posso pensare a questi temi partendo da un altro luogo perchè la teoria femminista occidentale non esprime né spiega la nostra realtà come donne afro-discendenti. Le biografie che sto cercando di scrivere, i nomi di quelle donne, sono il nostro punto di partenza. La nostra letteratura.”

    Il punto in cui Aida Bueno Sarduy si colloca per studiare forma parte integrante del suo lavoro: non ai margini ma al centro con la consapevolezza che l’obbligatorietà di ricorrere sempre e necessariamente ai concetti occidentali per spiegare qualsiasi esperienza di vita sia una delle tante manifestazioni della colonialità.

    Ma non si ferma qui.

    In uno dei suoi primi interventi pubblici a Barcellona per parlare di sessualità nella letteratura africana dal punto di vista dell’antropologia della religione, Sarduy ha sottolineato come esistono altri modi di vivere e alcuni sono decisamente più felici di quello occidentale ma il rapimento della conoscenza da parte del potere coloniale ha provocato l’annullamento di altre prospettive. Ci sono altri modi di pensare alla vita che prescindono della tendenza della colonialità a imporre un’unica conoscenza: lineare, patriarcale e generatrice di patologie concrete. Grazie al recupero di alcuni miti africani che sono sopravvissuti nella tradizione orale afro-discendente è possibile studiarli.

    Sarduy ha sottolineato come esistono altri modi di vivere e alcuni sono decisamente più felici di quello occidentale

    “Il pantheon Yoruba presente a Cuba e in Brasile – sottolinea Aida Bueno Sarduy – che discende dalla violenta deportazione di schiavi provenienti dal Benin, dal Togo e dalla Nigeria, è ricco di storie di antenati divinizzati che hanno vite sessuali diverse, intense e che vivono esperienze e aprono a possibilità più complesse di quanto i sistemi religiosi in occidente abbiano pensato. Si tratta di diversi tipi di sessualità che emanano cosmo-visioni dove il piacere e il desiderio non sono concepiti come azioni peccaminose o immorali. I comportamenti sessuali, le predisposizioni affettive verso ciò che è considerato “femminile” o “maschile”, si trovano agli estremi di uno spettro amplissimo di possiblità. Il pantheon Yoruba è pieno di miti dove gli dei hanno una sessualità complessa e hanno rapporti sessuali diversi a seconda del momento o in relazione a chi possono trasformarsi: esseri maschili o femminili, virili o sottomessi.”

    I rapporti di genere che si creavano nelle comunità, riflettendo la complessità del pantheon Yoruba, non erano oppressivi come in una famiglia patriarcale e l’ambiente non era ostile alle donne ma nemmeno agli uomini, agli omosessuali, ai bisessuali, ai bianchi che appartengono alla comunità come fossero anche loro figli del santo.

    Culture e culti invisibili continuano a battere nelle vene di quei paesi in cui 11 milioni di esseri umani provenienti dall’Africa sono stati brutalmente deportati e schiavizzati. Persone che sono state rapite mentre facevano il loro lavoro quotidiano, mentre coltivavano, mentre cucinavano, mentre erano tranquilli nella loro terra con la loro famiglia. Persone che hanno sofferto questo strappo, che sono state deportate e costrette a intraprendere un viaggio senza ritorno. C’è da chiedersi come culture che sono discese direttamente dal commercio legale di comprare, sequestrare e vendere esseri umani per quasi quattrocento anni abbiano avuto la forza di ricostruirsi nonostante un potere che ha voluto rompere le loro vite, la loro autostima e i loro legami familiari.

    “Una parte importante delle critiche alla nostra cultura afro-discendente e al nostro modo di esprimere la gioia, è sempre giudicante – continua Bueno Sarduy -: stiamo tutto il giorno ballando, suonando musica, festeggiando quando il sistema ci avrebbe voluto amareggiati, risentiti. Voglio dire, non si perdonano di non essere riusciti a imprimere a fuoco la morale della sconfitta. La musica, la poesia, la cucina, la danza, anche la lingua del dominatore è segnata dalle nostre radici afro. Loro hanno lasciato il loro segno su di noi, ma anche noi li marchiamo e non con il ferro, come hanno fatto ai nostri antenati con estrema crudeltà – cosa che non dimentichiamo – noi li marchiamo con la nostra gioia, con la nostra creatività, creando i piatti più sofisticati e delicati, con i nostri ritmi e balli che mescolati con i vostri e con altri hanno formato i ritmi nazionali, che oggi sono i vostri preferiti e con i quali si identifica la maggior parte della popolazione in America Latina. Che vi piaccia o no, le nostre musiche nazionali sono la samba, la cumbia, la rumba, il joropo, non l’opera, né la musica chiamata classica.”

    E conclude:

    “Qualunque cosa dicano, se cancellano da ogni cultura con radici afro -discendenti tutto ciò che queste popolazioni hanno portato all’identità nazionale, quelle nazioni si troveranno senza personalità. Il Brasile senza l’apporto afrobrasiliano non sarebbe il Brasile, la Colombia non sarebbe la Colombia senza le radici afro-colombiane, e Cuba non sarebbe Cuba senza la radice afro. Che vi piaccia o no, dovete accettarlo.”

    Note