Inglesorum. Sul capitalismo linguistico

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    Comincio questa mia collaborazione con cheFare enunciando due principi a cui mi atterrò, da qui all’eternità: i) nessuna teoria può essere assunta come chiave interpretativa di tutto; ii) dividere il mondo in buoni e cattivi non aiuta a cogliere la complessità delle cose. La complessità, appunto. In uno spazio come questo, siamo chiamati a interpretare la complessità che ci circonda: cheFare non chiederebbe di scrivere articoli a un professore universitario se non sperasse di ricevere indietro un minimo di intelligibilità, una piccola luce, non fosse altro che quella fioca di una candela. Ma appunto la complessità che ci circonda la dobbiamo interpretare, non semplificare, pena lo spegnersi di quella piccola luce. Ma questo non vuol dire che non possiamo farlo con parole chiare, senza ricorrere a tecnicismi o all’ostentazione delle tante ore passate a leggere libri. Ho imparato dal mio maestro che la semiotica si può fare senza troppi paroloni e senza che il lettore se ne accorga.

    A proposito di paroloni, oggi vanno di moda quelli in inglese: il vostro capo ha fatto “un briefing coi propri partner sulla governance di una nuova location fresca di restyling, viste le nuove chance offerte dal jobs act”. A voi è sembrata una cosa importante, ma in realtà ha solo fatto due chiacchiere veloci coi colleghi su come sfruttare i benefici fiscali che può avere qualora assuma un ventenne nel nuovo bar che ha appena ristrutturato. Ma non poteva dire la stessa cosa in italiano? Chissà. Io non credo sia un caso che il vostro capo certe cose le dica in inglese.

    Stimolati dall’iniziativa di Anna Maria Testa #dilloinitaliano, di recente i linguisti hanno cercato di prendere posizione su questo fenomeno. I linguisti sanno perfettamente che non si può, e nemmeno si deve, fare nulla contro la trasformazione della lingua e la modificazione del lessico tramite termini stranieri. Non solo, sanno anche che il Dizionario è di fatto la registrazione di una serie di pratiche che rendono la lingua un organismo vivo. E tuttavia, ad esempio nella recente edizione del Devoto-Oli curata da Luca Serianni e Maurizio Trifone, si è provato a porre un argine a questo fenomeno attraverso una regola semplice: l’anglicismo è accettabile qualora manchi un’espressione italiana corrispondente, in caso contrario è bene usare la parola italiana. Ma questo è esattamente il nostro problema. E cioè: perché anche in presenza di un perfetto equivalente italiano, si usa comunque la forma inglese? E soprattutto, è davvero equivalente dire “ma che bella location” e “ma che bel posto”, per usare l’esempio del presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini, che ha in passato fatto sua la battaglia #dilloinitaliano? La mia impressione è che ci sia un effetto di senso diverso nell’usare l’espressione inglese e che sia esattamente questa diversità ciò che è importante indagare. Non è un caso che l’istinto omicida ci salga con l’inglese e non con l’italiano.

    Sia chiaro, apprezzo e condivido l’iniziativa di Anna Maria Testa e dell’Accademia della Crusca: la lingua è un corpo vivo che ha (anche) la forma delle pratiche sociali che la usano, esattamente come il nostro corpo ha (anche) la forma della vita che facciamo. Per questo, se l’evoluzione di una lingua è un processo organico, resistere ai cambiamenti linguistici serve a creare l’ostacolo evolutivo contro il quale i cambiamenti della lingua devono prevalere per affermarsi. Tuttavia, non credo affatto che dire “che bella location” abbia lo stesso significato del suo equivalente italiano, almeno se nel significato di una frase pulsa la vita sociale dei parlanti che usano i segni. E mi ricordo di qualcuno molto importante che giudicava fondamentale “studiare i segni nella vita sociale” ( F. de Saussure, Corso di linguistica generale, Roma-Bari, Laterza). Che con “location” ci sia qualcuno che sta cercando di venderci qualcosa, infiocchettandoci un posto che poi così bello non è?

    capitalismo linguistico

    Mi sono imbattuto di recente in questo manifesto che pubblicizzava un corso di formazione universitario di taglio teologico in un formato evidentemente ricalcato da modelli economici da un lato e da modelli da social network dall’altro, tanto che a prima vista mi era sembrato molto simile a un meme. Incuriosito, ho cercato se davvero esistesse questo “corso di alta formazione post laurea” in “management pastorale” e non solo ho scoperto che era alla terza edizione (e magari ora ce n’è già una quarta), ma che si poteva leggerne il programma serissimo e dettagliatissimo, in cui si insegnavano materie come “Leadership e gestione creativa”, “Burnout, “Teamwork” e “Problem-solving creativo”.

    Mi è subito sembrato che questo uso dell’inglese, che esprimeva in forma appealing (ops) cose che si potevano certamente anche dire in italiano, e questo suo richiamarsi a modelli che vengono dall’economia – che in teoria non dovrebbero regolare qualcosa come “la gestione delle anime” – fossero strettamente collegate. Ho poi fatto una ricerca più approfondita e ho trovato questo connubio tra forme di espressione economiche e anglicismi ricalcati dai linguaggi del web in moltissimi annunci di lavoro, ma anche nelle proposte pedagogiche dedicate ai nostri giovani più scolarizzati. In che cosa consiste allora questo collegamento? E non ha forse a che vedere proprio con il nostro problema dell’itanglish?

    Che le anime vadano gestite esattamente come si gestisce un’azienda (management pastorale) non è casuale. Che il reclutamento vada fatto tramite un itanglish attraverso lo stile dei social network nemmeno. Del resto l’inglese è stato la lingua del colonialismo prima e del grande capitalismo poi e, proprio dalle pagine di cheFare, Vincenzo Latronico mostrava come “fare cultura oggi in Italia significa in larghissima misura fare da mediatori, diffusori, traduttori di cultura prodotta in inglese”. Idea a cui Latronico aggiungeva un giudizio di valore: “tradurre (un libro, un film, un reportage) permette di avere un prodotto migliore a costi più bassi”. Vale la stessa cosa per le parole e per i concetti associati alle parole? La nostra lingua fa da mediatore, diffusore, traduttore di esperienze e concetti prodotti in inglese, che ci propongono “un prodotto migliore a costi più bassi”?

    Nel suo bell’articolo su Studio, Anna Momigliano ha di recente parlato di “capitalismo linguistico”. Il suo intento era più nobile, ma il mio prestito è letterale: c’è un mercato anche e innanzitutto delle parole, che si fanno concorrenza, che devono vendere se stesse e i loro significati. E allora io dico “green economy” e non “economia verde”, perché così sto evocando (o fingendo di evocare?) tutta una serie di valori che circolano in un supposto dibattito internazionale che tu non conosci, ma che certamente ti sembra importante e auspicabile conoscere. Che poi non lo conosca neanche io o che quel dibattito non esista, è un altro discorso. Il “briefing” vende tutta una serie di buone pratiche anglosassoni di analisi, esempio di rigore nella nostra view esterofila, che le nostre “brevi riunioni” certamente non propongono, legate come sono al pressapochismo italiano, alla pausa caffè (per questo sono brevi), ai controllori che non controllano e al fatto che Venezia è bellissima, ma nessuno ci vivrebbe mai.

    Ritorno al mio punto (e al mio tono) precedente. Il capitalismo linguistico è un fenomeno centrale nelle nostre società. Lo è perché ogni parola ne nega delle altre, è in competizione con delle altre, sta al posto di altre parole che erano ugualmente possibili e – gli economisti ce lo ripetono continuamente – il mercato è oggi molto più di una volta un mercato non soltanto nazionale. Perché i significati e le parole dovrebbero quindi fare eccezione? Del resto, il grande linguista Ferdinand de Saussure diceva che l’identità degli elementi di una lingua consisteva nel loro valore e, per spiegare questa idea, diceva che un valore linguistico funziona esattamente come la moneta.

    Negli ultimi anni abbiamo assistito alla trasformazione di una società in cui è l’economia a dettare le risposte e le soluzioni ai domini non economici, dando loro forma attraverso le proprie specificità. Non soltanto l’economia sta esportando i suoi modelli e i suoi temi, ma sta contagiando i suoi problemi e sta dettando le sue soluzioni. Lo sta facendo con l’Università (in questi ultimi anni ho assistito a riforme di corsi di laurea e accorpamenti di dipartimenti che non hanno avuto pressoché nulla a che vedere con qualsiasi forma di progetto culturale, bensì con esigenze economiche di risparmio), lo sta facendo con la sanità e con la ricerca. Lo sta facendo con la politica, a cui detta appunto le sue soluzioni. Negli ultimi due decenni è ormai la norma assistere regolarmente a un gruppo di tecnici economisti che sanzionano positivamente o negativamente le scelte politiche degli stati, che vedono ormai fortemente determinate e condizionate le loro scelte da modelli di tipo economico.

    Non so se è la parola più appropriata, perché porta con se tutta una serie di tratti disforici che vorrei evitare, ma confido nel mio lettore e parlo senza alcuna retorica negativa – e con intenti solamente descrittivi – di una colonizzazione dell’economia sui domini non-economici (politica, cultura, ricerca etc.). E da che mondo è mondo, ogni colonizzazione ha sempre cercato di installare la propria lingua all’interno di un tessuto culturale che non la implicava e che, in diverse forme, ha cercato di resistere. Dietro l’anglicizzarsi dell’italiano c’è innanzitutto questo. Ma attenzione, non si tratta affatto della colonizzazione dell’inglese sull’italiano: si tratta della colonizzazione del dominio dell’economia sul dominio della lingua, o meglio, del dominio dell’economia su quel mondo della vita dentro cui la lingua rappresenta lo sfondo della nostra percezione del mondo.

    Prendiamo il mondo del lavoro, che è tutto un florilegio di lavori “in inglese”: il personal trainer, il copywriter, lo youtuber, l’influencer, il buyer, il seller, il manager etc. Alcuni di questi lavori sono legati alla rete e altri no, ma poco importa.

    Come vendereste voi un vecchio lavoro in crisi? O un nuovo lavoro incerto? Come reclutereste persone in una posizione che per la vostra azienda è centrale, ma che per ragioni di profitto non potete permettervi di pagare adeguatamente? Come cerchereste di promuovere qualcosa che potete soltanto pagare poco? Come cerchereste di rendere meno visibile la vostra operazione economica, infiocchettando il concetto per nascondere il più possibile le condizioni reali che offrite o per compensarle attraverso qualcos’altro? La strada più naturale è vendere significati a parziale bilanciamento, di modo da far accettare una condizione economica altrimenti inaccettabile. É la stessa cosa che succede con l’Iphone: non è il telefono che vale 1200 euro, è lo status di possederlo che apre una serie di esperienze che per molti vale la pena pagare quella cifra, nonostante l’esborso economico non sia concorrenziale. Posso far accettare condizioni economiche non concorrenziali soltanto se vendo bene uno status e un’esperienza. Di fatto funziona: mi sento di fare qualcosa di più prestigioso se dico che faccio il copywriter, piuttosto che se dico che scrivo testi per presentare prodotti commerciali a fini di vendita. Di fatto faccio la stessa cosa (scrivo per vendere), ma l’effetto comunicativo è differente innanzitutto per me stesso. E molti altri in fondo non sanno cos’è un copywriter: percepiscono che suona bene, si sentono in colpa perché non sanno cos’è e non indagano oltre.

    Iperbole? Certamente, ma l’anglicismo di norma ha il significato di dare un nome nuovo a una vecchia esperienza, al fine di far credere di fare cose più nuove e interessanti delle precedenti. O di importare esperienze e ruoli che in altri posti sono fatti meglio rispetto a come li facciamo qui. É come una mano di stucco con successiva imbiancatura che si dà per ravvivare una parete bucata da troppi chiodi e da vecchi quadri: non ti dico il finale, te lo spoilero! Non ti do un due di picche, ti friendzono! Non ti provoco, ti trollo! Cosa faccio? La stessa cosa che facevo prima quando ti provocavo, ti dicevo il finale e ti davo un due di picche, ma il fatto di cambiarne la parola la fa percepire come un’esperienza altra e differente. E anche io me ne autoconvinco. E quando matcho, faccio gossip e mi stretcho? Abbino, spettegolo e mi stiro, ma l’effetto che sto dando di me non è lo stesso che darei se mi esprimessi in italiano. Perché il linguaggio non esprime un’esperienza, gli dà forma. Ed è per questo che la scelta dell’inglese non è quasi mai equivalente a quella dell’italiano. Non è un caso che i linguisti chiamino questi fenomeni “prestiti”: la nostra è una lingua fortemente indebitata, nelle parole e nelle esperienze che sembrano originariamente fatte altrove e venire importate, in una sorta di import/export esperienziale e linguistico.

    Ma anche qui non è questione di bene contro male. Se la lingua dà forma all’esperienza e l’esperienza è ormai sempre più transnazionale, i prestiti possono esprimere non solo l’indebitamento della nostra lingua e della nostra esperienza, ma anche il capitale con cui possiamo produrne di nuova. Del resto, la stuccatura non ha soltanto la funzione di nascondere l’esperienza precedente, ma anche quella di allestire lo spazio per una nuova esperienza possibile, diversa da quella che facevamo prima. É ad esempio il caso del selfie, che non è in quasi nulla equivalente all’autoscatto. L’autoscatto era una pratica individuale che rimandava ai limiti tecnologici delle vecchie macchine fotografiche, il selfie è una pratica eminentemente sociale, in cui la foto nasce per essere condivisa all’interno di una forma di gestione e di controllo della propria immagine, che passa dai mille scatti tutti uguali di una scena ai filtri di bellezza applicati alla foto in tempo reale. Non è un caso che la parola nel primo caso esprimesse una macchina che lavorava da sola e nel secondo caso il vezzeggiativo del “sé”.

    Il prestito dall’inglese quindi non è sempre buono così come non è sempre cattivo: è un fenomeno complesso e come tale va studiato. Da un lato può dissodare un vecchio terreno per aprirlo a una nuova esperienza. Dall’altro può nascondere la realtà, abbellendola a fini di vendita, agendo sul terreno della nostra esperienza al fine di organizzarlo produttivamente. Bisogna sempre farsi estremamente sospettosi quando qualcuno vi parla di placement e similari. Molte volte sta tentando di vendervi qualcosa e l’anglicismo è funzionale a questo scopo. Mi piacerebbe vedere una televendita di Wanna Marchi nel 2017: ho il sospetto che parlerebbe molto di wellness, light, look e fitness.

    In questa seconda forma, l’anglicismo è una specie di restauro di esperienze vecchie per poterle vendere come nuove. E innanzitutto a noi stessi. Si usa un nuovo linguaggio per deviare dalla forma standard dell’esperienza e della sua banalità o per far credere di starne importando una differente. Quando l’anglicismo non apre a una nuova esperienza nasconde comunque quella vecchia, e spesso gli dà forma in termini economici. Come nel caso dei tanti giovani precari che si vogliono creativi e che tendono a vivere ossessivamente l’itanglish come mantra, bandiera o canto di iniziazione delle idee che propongono, perché stanno innanzitutto vendendo loro stessi dentro a un mercato senza rete in cui nessuno li protegge dall’aggressività degli altri giovani che si vogliono creativi e che usano l’itanglish come mantra, bandiera o canto di iniziazione delle proprie idee (devo questo suggerimento a Giacomo Giossi – comunicazione personale -, che ringrazio).

    Tutti i colonizzatori hanno sempre cercato di imporre la loro lingua, e non per alfabetizzare, ma piuttosto per sradicare nel colonizzato la sua cultura e la sua esperienza. Ma non sempre le esperienze vecchie sono migliori delle nuove e vanno difese ad ogni costo. Tuttavia, almeno una certa forma di anglicismo non è neutra: dietro c’è un tentativo di cancellazione dell’esperienza al fine di sostituirla con un’altra esperienza più adatta a fini produttivi, perché plasmata a questo scopo. Il jobs act, il fertility day e le tante governance fanno questo all’interno dello spazio della politica italiana. Il briefing, il wellness e la location fanno lo stesso all’interno dello spazio della nostra vita quotidiana. E senza che molti di noi se ne accorgano. Quando il vostro capo faceva “il briefing sulla governance coi propri partner” voleva far credere di fare una cosa meno banale di quella che stava facendo. Esattamente come certe serate rappresentate il giorno dopo sui social network: sembrano tutte infinitamente divertenti, quando non sempre lo sono state.

    In questa forma, l’itanglish assomiglia pericolosamente al latinorum.

    Note