Chi sono gli artigiani dell’innovazione?

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    Il momento pare quello giusto; sembra crescere il numero di persone che coniugano lavoro accademico, pratiche d’impresa e attivismo civico, sociale e culturale. Sarà pure una questione generazionale di precarietà, ma in sempre più casi si iniziano a intravedere traiettorie di vita capaci di contrastare questa condizione facendola propria e traendone vantaggio. Sarà ancora un gruppo esiguo di individui, ma il fatto che queste biografie inizino a trascendere gli storici settori delle scienze dure potrebbe rappresentare un indicatore interessante. Questi segnali ci impongono una crescente attenzione al fenomeno.

    Nel 1957 in Landmark of Tomorrow Drucker conia il termine knowledge work. Anche se non usa mai il termine knowledge worker, a differenza di quello che molta letteratura ha successivamente sostenuto, l’autore americano getta le basi per una categoria ancora in ascesa, della quale fanno parte gli individui tratteggiati poco fa.

    Muovendo dal terreno del management in comune con Drucker, nel corso degli anni ’70 Argyris e Schön conducono degli studi sul rapporto tra azione e riflessione che poi Schön proseguirà fino a coniare, partendo addirittura dal pragmatismo di Dewey, il concetto di reflective practitioner.

    Gli artigiani dell’innovazione sociale, a cui più recentemente si sono aggiunti gli innovatori culturali, potrebbero rappresentare un sottoinsieme di questa categoria, ma per dirlo con certezza abbiamo la necessità di saperne di più.

    Knowledge workers e reflective pactitioners rappresentano due categorie di lavoratori, forse tra le più importanti, che si affermano fin dalle prime fasi di nuova organizzazione della produzione mondiale in senso immateriale, quella che poi prenderà i nomi di new/net/knowledge economy di Rullani o di cognitive capitalism di Vercellone, Negri e Fumagalli.

    Seppure le due categorie e le due visioni presentino profonde differenze, posseggono un singolo, ma fondamentale tratto in comune: rilevano ed enfatizzano il peso del fattore conoscenza nei rapporti sociali di produzione. L’immaterialità della conoscenza diventa quanto di più materiale sia possibile immaginare nel definire le condizioni del lavoro.

    Tutto ciò non lo scopriamo oggi. Da almeno 40-50 anni è fervida una letteratura che si occupa di questi fenomeni prodotta di una pluralità di discipline (storia, sociologia, management, economia, psicologia e altre ancora), in alcuni casi con approcci e approdi molto differenti e in altri dentro uno stesso confine disciplinare. È questo il caso, ad esempio, del management, dove da un lato abbiamo lo sviluppo di tutto un filone di knowledge management che produce tools e tecniche di estrazione del valore dai processi di produzione di conoscenza, dall’altro i critical management studies che svelano i meccanismi di sfruttamento e dominio promossi dai colleghi dello studiolo a lato.

    Dopo il Settimo Programma Quadro e l’evoluzione dell’Horizon 2020, la nuova programmazione europea mette a sistema questa impostazione e sviluppa sempre più programmi, azioni e progetti finalizzati a produrre conoscenza e trasferirla nel modo più rapido possibile dentro le imprese, le istituzioni e le altre organizzazioni sociali. Queste iniziative cercano di rispondere ad una precisa domanda: come veicolo verso le organizzazioni sociali in modo efficace ed efficiente la conoscenza prodotta altrove? Da questo punto di vista rispondono solo parzialmente agli stimoli posti dalle categorie e dalle visioni prima presentate, che invece ipotizzano che la produzione di conoscenza sia centrale dentro i processi di produzione delle organizzazioni sociali in qualsiasi loro forma.

    Si iniziano a confrontare due idee di trasferimento di conoscenza: da un lato si conferma l’idea storica che alcuni luoghi siano deputati alla ricerca di base e che altri debbano svilupparne le applicazioni, secondo gli schemi ampiamente codificati del trasferimento tecnologico o di conoscenza università – industria; dall’altro crescono i sostenitori dell’idea che i tre processi di produzione, applicazione e ‘commercializzazione’ di conoscenza siano sempre più inseparabili dentro un sistema multi-stakeholder. Se nel campo delle scienze dure entrambe le idee sono verificabili empiricamente, le riflessioni teoriche e pratiche sull’innovazione sociale e culturale – cioè dal lato delle scienze molli – tendono ad essere meno accurate e a pendere nettamente per la seconda ipotesi.

    L’ipotesi oggi più in auge è quella di fondare il rilancio dell’economia, soprattutto urbana, su economia sociale, green jobs e nuovo artigianato, tutti conditi da una buona dose di necessaria creatività. Recentemente questo approccio lo ha spiegato in modo chiaro ed efficace, cosa tutt’altro che comune, Cristina Tajani e sul tema hanno scritto anche Annibale D’Elia e Paolo Venturi.

    A mio avviso queste e molte altre riflessioni, tra le più interessanti e produttive in circolazione, scontano la sottovalutazione di un fenomeno preciso: fino ad oggi molte di queste esperienze di innovazione sociale e culturale sono state edonistiche e fortemente autoreferenziali. Un esempio per tutti, l’ormai datato Etsy: chi può dire che i prodotti siano fatti realmente per il mercato e non per appagare l’ego degli stessi produttori? Un altro esempio più recente, l’iperproliferazione di coworking: in quanti casi rispondono ad una domanda reale e in quanti brandizzano pratiche di condivisione dell’ufficio che ci sono da sempre o naming di open space d’impresa?

    Senza porci questi interrogativi, anche in modo pregiudizievole se serve (e comunque farlo non guasta mai), è davvero difficile pensare di produrre una riflessione sul lavoro, è probabile produrre una reiterazione di discorsi generati nelle policies (nel nostro caso soprattutto europee) e dalle politics (soprattutto da sinistra).

    Ci sono due domande a cui forse è preliminarmente necessario dare una risposta, prima di poter anche solo iniziare una riflessione accurata: a) le categorie analitiche fin qui prodotte sono ancora valide o richiedono una revisione? b) quali sono le caratteristiche e le condizioni materiali di lavoro di questi lavoratori? La prima è necessaria per tentare una risposta accurata alla seconda.

    Fino ad oggi la presenza di sempre più individui che vivono a scavalco di accademia e altre organizzazioni (imprese, associazioni, fondazioni, etc.) è stato quasi per nulla indagato e ancora molto poco notato. Come si anticipava, questo fenomeno può rappresentare una forma di resistenza al precariato in cui vivono queste categorie di lavoratori.

    In parte però queste figure appaiono sempre più spesso come nodi di reti complesse che si assumono l’onere e l’onore di facilitare il trasferimento di conoscenze tra il mondo della ricerca pura e accademica e quello del suo uso. Questo, però, è difficile farlo di rimessa ed è più probabile che sia agito con forte intenzionalità e grandi motivazioni, che contrastano con la prima ipotesi. Di loro si è detto ancora poco o nulla ma ci si inizia a riconoscere e ci ritrova in alcuni circuiti. (in ordine rigorosamente alfabetico e solo a titolo di esempio Marco Baravalle, Francesca Battistoni, Tiziano Bonini, Emanuele Braga, Viviana Carlet, Giulia Cantaluppi, Salvatore Iaconesi, Barbara Imbergamo, Bertram Niessen, Elena Ostanel, Ivana Pais, Agostino Riitano, Flaviano Zandonai, etc ne sono un buon campionario).

    È questo ciò che qui si vuole approfondire: chi sono? Come vivono? In quali condizioni lavorano? Che immaginario di futuro sono in grado di produrre?

    In questi giorni una ricerca in corso da due anni (Knowledge workers: from reflective practitioners to researchers in action? A preliminary study, iniziata nell’ambito di una borsa di ricerca a Ca’ Foscari – Management e proseguita a Iuav nel corso degli studi dottorali in Pianificazione e Politiche Pubbliche) entra nella sua seconda fase e questo post è prima di tutto un invito rivolto a tutti quegli individui che lavorano con la conoscenza per contribuire a questo lavoro, compilando questo questionario.

    Questo step della ricerca nasce da una riflessione generale. In questi ultimi 5 anni si è davvero molto parlato e scritto su questi nuovi lavori e nuovi lavoratori, a fronte però di un lavoro di ricerca (conricerca lo avrebbero chiamato in un passato non troppo lontano) davvero poco accurato. Ad eccezione di pochissimi casi – e tra questi spicca il rapporto di ricerca Lavoro conoscenza sindacato. Una ricerca tra i lavoratori cognitivi dell’Ires Emilia Romagna, Ires Toscana, Ires Veneto (Di questa ricerca, in particolare dei lavori di Nicoletta Masiero e Daniele Dieci, si ripropongono pedissequamente alcune domande con obiettivi di futura comparazione) – si è prodotta o cavalcata più una moda che un fenomeno preciso e pesato e questo ha avuto delle fortissime ripercussioni, sia analitiche che operative. Ad esempio si è molto osannata la condizione di nuovi lavoratori creativi e culturali e si sono promosse le opportunità che si aprivano di fronte a loro, salvo poi aprire gli occhi e leggere il saldo in rosso del conto concorrente, quando c’è e non è ancora necessario usare la prepagata ricaricata da mamma e papà.

    Questo non è sempre vero, il fenomeno presenta luci ed ombre, forse in egual misura. Quello che però appare sempre più certo è che si tratta di una trasformazione del lavoro troppo importante per poterla semplificare e banalizzare in un tutto giusto o tutto sbagliato, è necessario invece (citando Flaviano Zandonai) separare il grano dall’oglio.

    Ora che questi fenomeni sono messi al centro di un preciso disegno di società della conoscenza promosso da politiche europee, partiti di destra e sinistra, strategie d’impresa, movimenti sociali, etc… È davvero necessario e strategico aumentare il quadro di conoscenze disponibili. Sullo sfondo si radica una domanda: questi soggetti cosa rappresentano e come agiscono nella riorganizzazione dei rapporti sociali di produzione e riproduzione?

     

    Immagine di copertina: ph. Markus Spiske da Unsplash

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