Allo scoperto. Politiche e piaceri ambientali in tempi postumani

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    Pubblichiamo un estratto del libro di Stacy Alaimo “Allo scoperto. Politiche e piaceri ambientali in tempi postumani. A cura di Angela Balzano, traduzione di Laura Fontanella. Collana POSTUMAN3, diretta dal gruppo di ricerca indipendente Ippolita. Ringraziamo l’autrice, l’editore e Ippolita per la disponibilità.

     

     

    5 Origini Oceaniche, Attivismo Anti-Plastica e Neo-Materialismo in Mare

    Test atomici. Zone morte. Fuoriuscite di petrolio. Pesca industriale, eccessiva, a strascico, pesca con palangari, spinnamento degli squali, caccia alle balene. Catture e uccisioni accessorie, inquinamento da reti da pesca fantasma. Estrazioni e trivellazioni in alto mare. Rilascio di liquami delle navi da crociera. Deep Water Horizon, Fukushima. Inquinamento radioattivo, da plastica, da microplastica. Inquinamento sonico. Cambiamenti climatici. Acidificazione degli oceani. Collasso degli ecosistemi. Estinzione. La distruzione degli ambienti marini è dolorosa da contemplare. Dopo una settimana trascorsa presso il Golfo del Messico, dove la vita marina era scarsa, non sono riuscita a leggere La storia innaturale del mare di Callum Roberts, che descrive la sconcertante abbondanza di pesci e mammiferi che un tempo popolavano gli oceani. Robert sostiene che la nostra “amnesia collettiva” sulle condizioni dei mari del passato, sulla profusione di vita marina che accoglievano e sull’aver decretato “inverosimili” i “racconti sui pesci giganti o sui mari pieni di vita”, ci abbia portato a fissare l’asticella dei nostri parametri troppo in basso, “prendendo per normali le condizioni invece attualmente degradate dei mari”[1]. L’oceanografa Sylvia Earle sostiene che dalla “metà del XX secolo, centinaia di milioni di tonnellate di fauna e flora oceanica siano state rimosse dal mare; al contrario, centinaia di milioni di tonnellate di rifiuti vi sono state riversate”[2]. Sono innumerevoli le specie che sono state sovrasfruttate, portate all’estinzione; sono numerosissimi gli habitat marini distrutti. Il film di Robert Stewart, Sharkwater, mostra come il mercato della zuppa di pinne di squalo abbia portato al massacro degli squali stessi, un massacro che avviene su scala globale, secondo modalità tanto capillari che molte specie di squali potrebbero estinguersi[3].

    Alla pratica distruttiva della pesca a strascico, risalente al XIV secolo, si è aggiunta la pesca a strascico anche in acque profonde, che disturba proprio quelle creature a rischio d’estinzione, quelle non scoperte, o entrambe le cose, distruggendo le barriere coralline dei fondali, alcune delle quali hanno migliaia di anni. I palangari o palamiti, che si estendono per chilometri lungo l’oceano, attirano uccelli, mammiferi, tartarughe marine e pesci grazie ai loro centinaia, se non migliaia, di ami, creando vaste distese di morte e distruzione: la maggior parte degli animali, infatti, viene catturata e viene uccisa per esser poi scartata, dal momento che il fine ultimo è quello di raccogliere solo un particolare tipo di pesce. Sia che si tratti di palangari, di reti a strascico o di enormi reti da posta derivanti, la pesca industriale distrugge la maggior parte del pescato catalogando queste creature con l’epiteto di “catture accessorie”: creature vive rigettate in mare come rifiuti inanimati[4]. Jonathan Safran Foer, in Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?, sfida la nostra immaginazione chiedendoci di figurarci un ristorante: “Immagina che ti servano un piatto di sushi. Ma che contenta anche tutti gli animali che sono stati uccisi per servirti questo sushi. Forse ci vorrebbe un piatto di un metro e mezzo di diametro”[5]. Foer giustappone due scene che normalmente vengono separate: da una parte il cibo estetizzato e inerte sul piatto; dall’altra il momento della cattura, ossia l’istante in cui la vivacità degli animali viene soffocata dalla pesca industrializzata. Ma c’è un altro animale in questa scena: l’essere umano, un nodo centrale nelle reti di consumo inquinanti che distruggono le ecologie oceaniche.

    Trans-corporeità in Mare?

    In Bodily Natures: Science, Environment, and the Material Self, sostengo una concezione di trans-corporeità che sia in grado di tracciare gli interscambi materiali tra i corpi umani, i corpi animali e il mondo materiale in generale[6]. Poiché il sé materiale non può essere disgiunto da quelle reti che sono, sia economiche, che politiche, che culturali, che scientifiche, che sostanziali, ciò che un tempo era il soggetto umano, solo apparentemente delimitato, si ritrova in un vorticoso e incerto paesaggio, in cui le pratiche e le azioni che una volta non erano nemmeno lontanamente questioni etiche o politiche, improvvisamente, lo diventano. La trans-corporeità è un modo nuovo, materialista e postumanista, di intendere l’umano, di vederlo come un essere perennemente interconnesso ai flussi di sostanze, alle agentività degli ambienti. Le persone coinvolte negli ambiti attivistici, così come quelle che frequentano i movimenti per l’ambiente, per la salute e la giustizia ambientale, contro il cambiamento climatico, lavorano per rivelare e per rimodellare i flussi di queste agentività materiali attraverso le regioni, gli ambienti, i corpi animali e i corpi umani, anche quando il capitalismo globale e le strutture medico-industriali fanno di tutto per riaffermare un’ideologia ben più conveniente, costituita da prodotti benigni e ben definiti così come da singoli consumatori ben delimitati. Sebbene il riconoscimento della trans-corporeità debba cominciare proprio dai corpi umani e dai loro ambienti, tracciare gli interscambi sostanziali permette di rivelare la permeabilità dell’umano, dissolvendo i contorni che delimitano il soggetto. Il concetto di trans-corporeità deve la propria esistenza a Judith Butler e alla sua concezione del soggetto come individuo immerso in una matrice di sistemi discorsivi[7]; al contempo, però, la trans-corporeità trasforma questo stesso modello, insistendo sul fatto che il soggetto non solo non possa essere separato dalle reti delle agentività materiali intra-attive (Karen Barad) ma che non possa neanche ignorare gli inquietanti interrogativi epistemologici della società del rischio (Ulrich Beck)[8]. Inserita nel contesto del postumanesimo critico, la trans-corporeità, insistendo sulle inter- e le intra-connessioni materiali tra le creature viventi, le sostanze e le forze del mondo, nega l’eccezionalismo umano, considerando tutte le specie come facenti parte di un intreccio assieme a luoghi particolari e a correnti più grandi, forse irrintracciabili. La trans-corporeità, nella teoria, nella letteratura, nel cinema, nell’attivismo e nella vita quotidiana, è una modalità dell’ecomaterialismo[9], che scoraggia le fantasie di trascendenza e di impermeabilità che rendono l’ambientalismo un’impresa esteriore e meramente elettiva.

    […]

    Questa concezione, tanto persistente quanto comoda, tale per cui l’oceano viene visto come un vasto e potente pozzo senza fondo, entro cui qualsiasi cosa che vi viene gettata è libera di disperdersi nell’oblio[10], rende particolarmente difficile catturare, mappare e comunicare il flusso di tossine che coinvolge gli habitat terrestri, oceanici, umani. Inoltre, molti habitat marini, come quelli delle zone bentoniche e pelagiche[11], non sono solo relativamente sconosciuti a coloro che operano nel settore scientifico, ma sono spesso rappresentati come mondi “alieni”, il che preclude loro la possibilità di diventare oggetto di reale preoccupazione[12]. Mentre il rispetto delle singolarità straordinarie e degli animali marini che popolano gli habitat oceanici genera critiche postumaniste o inumaniste[13], la rappresentazione delle profondità come aliene le proietta al di là della portata dell’umano quando, in realtà, tutte le zone marine subiscono danni antropocenici. Due figurazioni diverse, aventi ramificazioni divergenti, legano gli esseri umani terrestri ai mari: si tratta di storie che raccontano dell’origine evolutiva e acquatica, tracciati trans-corporei di agentività materiali e di responsabilità lontane. […] Anche se il lungo arco evolutivo che lega gli esseri umani ai loro antenati acquatici può evocare modalità di parentela coi mari, sostengo che le formulazioni che culminano col porre l’essere umano in qualità di risultato di quel processo si concludano molto presto. Una trans-corporeità marina più potente permetterebbe l’immersione degli esseri umani all’interno delle reti globali del consumo, dei rifiuti e dell’inquinamento, catturando le strane agentività delle cose ordinarie delle nostre vite.

     

     

    [1] C. Roberts, The Unnatural History of the Sea, Island Press 2007, Washington, District of Columbia, p.xv.

    [2] S. Earle, The World Is Blue: How Our Fate and the Oceans Are One,  National Geographic Society, Washington, District of Columbia, 2009, p.12.

    [3] Sharkwater, dir. Rob Stewart, Sharkwater Productions e Diatribe Pictures, 2007.

    [4] Si veda Earle, World Is Blue, per ulteriori ecologie marine.

    [5] J. Safran Foer, Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?, trad. I. A. Piccinini, Guanda, 2016, p.58.

    [6] S. Alaimo, Bodily Natures: Science, Environment, and the Material Self, Indiana University Press, Bloomington, 2010.

    [7] Si veda in particolare “Contingent Foundations” di Butler: “Sebbene l’io sia il punto di trasferimento di questo scambio, non ci basta affermare che l’io sia situato; l’io, questo io, è costituito da queste posizioni, e queste ‘posizioni’ non sono meri prodotti teorici, ma principi organizzativi pienamente incorporati nelle pratiche materiali e negli accordi istituzionali, quelle matrici del potere e del discorso che mi producono come ‘soggetto’ vitale”. Butler, “Contingent Foundations: Feminism and the Question of ‘Postmodernism” in Feminists Theorize the Political, ed. J. Butler e J. W. Scott, Routledge, New York, 1992, p.9.

    [8] K. Barad, Meeting the Universe Halfway, Duke University Press, Durham, New York, 2007; U. Beck, tr. it. La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000.

    [9] Per un nuovo approccio materialista all’ecocritica, in particolare, si veda l’interessante saggio di Serpil Oppermann Ecocriticism’s Theoretical Discontents, il quale traccia le ragioni dell’ostilità verso la teoria postmoderna e poststrutturalista nell’ecocritica. L’autrice sostiene: “Dobbiamo promuovere una prospettiva critica in cui sia la discorsività che la materialità (in altre parole, le pratiche discorsive e i fenomeni materiali) possano essere integrate in un approccio relazionale. La responsabilità di tale approccio deve, tuttavia, risiedere in una corretta identificazione delle preoccupazioni etiche, epistemologiche e ontologiche e in un più ampio interesse dell’ecocritica verso i sistemi umani e non umani”. Oppermann, “Ecocriticism’s Theoretical Discontents,” Mosaic 44, n. 2, 2011, p.155. Si veda anche S. Iovino e S. Oppermann, “Introduction: Stories Come to Matter,” in Material Ecocriticism, ed. Iovino e Oppermann, Indiana University Press, Bloomington, 2014, pp.1–17.

    [10] La cultura umana ha fatto corrispondere alla vastità dei mari l’idea che gli oceani siano impermeabili ai danni umani. Kimberly C. Patton, in The Sea Can Wash Away All Evils: Modern Marine Pollution and the Ancient Cathartic Ocean, Columbia University Press, New York, 2006, spiega che “molte culture hanno venerato il mare e, allo stesso tempo, hanno fatto in modo che le sue acque sopportassero e lavassero via tutto ciò che veniva considerato pericoloso, sporco o moralmente contaminante” (p.xi). A prescindere dalla persistenza di queste credenze religiose, sia la portata, sia la pericolosità di quello che viene scaricato in mare, è radicalmente cambiata rispetto ai tempi antichi. Tuttavia, le pratiche globali contemporanee di scarico di rifiuti, liquami, armi, sostanze chimiche, tossiche e di rifiuti radioattivi contano sul fatto che l’ampiezza e la profondità del mare disperderà ogni minaccia, facendo scomparire ogni sostanza nociva. Per ulteriori contributi circa la nozione di “dispersione”, si veda il mio saggio “Dispersing Disaster: The Deepwater Horizon, Ocean Conservation, and the Immateriality of Aliens,” in Disasters, Environmentalism, and Knowledge, ed. S. Mayer and C. Mauch,  Universitätsverlag, Heidelberg, Germany, 2012, pp.175–92.

    [11] Le zone bentoniche si trovano sul fondo del mare, mentre le zone pelagiche si trovano in mare aperto; le altre zone oceaniche si distinguono in base alla profondità.

    [12] Si veda Alaimo, “Dispersing Disaster.”

    [13] Ho intenzione di parlarne nel mio prossimo libro: Blue Ecologies: Science, Aesthetics, and the Creatures of the Abyss. Per leggerne uno stralcio, si veda “Violet-Black: Ecologies of the Abyssal Zone,” in Prismatic Ecologies: Ecotheory beyond Green, ed. J. J. Cohen, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2013, pp.233–51.

     

     

    Allo scoperto. Politiche e piaceri ambientali in tempi postumani
    di Stacy Alaimo

    A cura di Angela Balzano, attivista transfemminista, è docente e ricercatrice al Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino, è autrice di Per farla finita con la famiglia. Dall’aborto alle parentele postumane (2021).

    Tradotto da Laura Fontanella è traduttrice e ideatrice del laboratorio di traduzione politica Gender in Translation. È autrice di Il corpo del testo. Elementi di traduzione transfemminista queer (2019). Traduce per professione saggistica, libri per l’infanzia e giochi di ruolo.

     

    Immagine di copertina di Nick Jones su Unsplash

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