Il bilancio sociale di cheFare è stato selezionato tra i progetti finalisti del Fedrigoni Top Awards. In attesa del verdetto abbiamo chiesto al designer Stefano Vittori di raccontarci la genesi del progetto ideato nello studio Falcinelli&Co.
“Ricordo che certe volte rimasi io stesso perplesso quando Adriano Olivetti rispondeva con silenzio al mio tentativo di usare quella che è la prima formula del professionista, la formula di chiudersi nel discorso tecnico. Nella tecnica professionale c’è in fondo la nostra difesa, perché là ci sono le nostre certezze, là ci muoviamo bene, conosciamo gli argomenti e anche i trucchi e le finte. Ma per Adriano tutto questo bagaglio era scontato. Lui aspettava più in là dove la tecnica diventa realtà delle cose immerse nel mondo e nella società”
— Ettore Sottsass parlando di Adriano Olivetti in Stile Industria
Rileggo queste righe e mi conforto. Capisco che anche grandi designer si sono scontrati con la necessità e la difficoltà di raccontare il proprio lavoro al di là del tecnicismo e della forma. Potrei partire con un racconto ai limiti del feticismo sulle scelte cartotecniche, sul metodo di stampa e sulle scelte estetiche, ma credo sia più interessante raccontarvi il corpo a corpo tra noi progettisti e la redazione di cheFare. Raccontarvi di come le visioni, le intuizioni e le necessità di questa squadra si sono condensate in questo strumento in forma libro che per il momento chiameremo “bilancio sociale”.
Quando nello studio grafico Falcinelli&Co. sono stato incaricato di realizzare questo progetto non ero ancora pienamente consapevole di cosa parliamo quando parliamo di innovazione culturale, ma al primo punto del brief c’era proprio la necessità di raccontare l’attività quotidiana in questo campo. Raccontare cheFare attraverso i fatti, i progetti, le collaborazioni, le cose accadute dalla sua costituzione ad oggi, salvaguardando della forma “bilancio sociale” solamente l’approccio. Gli interlocutori dovevano essere gli stakeholder principali dell’associazione, ma il linguaggio doveva essere chiaro e non per forza per gli addetti ai lavori. Da parte mia anche nel trattamento visivo delle informazioni c’era la volontà di utilizzare codici semplici e diretti, autorevoli ma non noiosi.
Per trovare la voce giusta con cui raccontare la storia abbiamo chiesto alla redazione di realizzare un moodboard, una cartella con un collage di immagini selezionate per gusto estetico o per affinità ideologiche. Trovarci dentro la grafica di AG Fronzoni, il rock di Iggy Pop, il design sperimentale di Jean Prouvé, la guerriglia intellettuale di Hito Steyerl e l’arte di Daniel Buren mi ha fatto capire da subito che avevamo a che fare più con una visione del mondo che con dei semplici suggerimenti visivi. Cosa di quei designer e artisti potevamo portare dentro questo progetto?
Sicuramente la filosofia della scuola Fronzoniana, del comunicare facendo un uso strutturale del bianco e dei vuoti, era una cosa che sentivamo nostra. Discutendo in studio eravamo d’accordo che in altri lavori di questo tipo c’era grande carenza di ariosità. Tutti i report e i bilanci che andavamo a studiare erano fitti di informazione. La trama delle pagine, costellata di cifre, sembrava una prigione per il bianco sottostante e una penitenza per l’occhio del lettore.
Quando inizio a progettare, per farmi venire idee, faccio un esercizio, provo ad immaginarmi come sarebbe quel lavoro interpretato da un determinato designer. Riflettendo sul lavoro di Fronzoni, l’uso metodico del bianco e nero mi sembrava una scelta interessante e ancora contemporanea ma immaginando di fare la stessa scelta in questo progetto vedevo una contraddizione con gli altri riferimenti segnalati.
Da un lato l’opera dell’artista concettuale tedesca Hito Steyerl, con il suo linguaggio eterogeneo e multilivello. Con i suoi temi complessi e ampi che indagano il ruolo dei media e delle immagini digitali nel mondo globalizzato. Dall’altro l’opera colorata e immediatamente godibile dell’artista francese Daniel Buren, in cui le installazioni dipinte con strisce colorate di tinte primarie instaurano un dialogo con l’architettura circostante. Due mondi filosofici e visivi completamente diversi tra loro.
Nei mesi successivi abbiamo sintetizzato queste diverse concezioni artistiche e progettuali facendo dei veri e propri mix visivi. Decine di progetti grafici diversi alla ricerca della giusta consonanza che convincesse la squadra di cheFare.
Quando l’interlocutore non è una persona sola ma un gruppo di teste indipendenti bisogna essere in grado di fornire soluzioni che possano mettere d’accordo tutti, ed essere pronti al compromesso. Come designer credo che sia importante offrire la possibilità al committente di sentirsi a proprio agio dentro il progetto. E indirizzare anziché imporre è un modo felice per percorrere parecchia strada insieme. Flessibilità a parte, in studio, qualche punto fermo sul progetto lo avevamo fissato: formato e colori.
Il formato volevamo fosse agevole ma non comune, che trasmettesse un’idea di autorevolezza già prima di aprirlo, magro e slanciato come uno sportivo. Così abbiamo preso le dimensioni dell’A4, quelle di un comune foglio da stampante, e ne abbiamo ridotto la larghezza per rendere la pubblicazione molto più verticale.
Per la scelta cromatica volevamo evitare di utilizzare i colori istituzionali di cheFare, bianco nero e ciano, perché avrebbero conferito al bilancio un’aura fredda, distaccata, una serietà da ufficio. Tutt’altro, i colori dovevano essere dinamici e giovani, come quelli dei fast-food dove i forti contrasti cromatici raccontano la velocità del servizio o quelli delle squadre di basket dove esprimono energia e agilità. “Avete usato giallo e viola?! I colori dei Los Angeles Lakers!” ha detto poi qualcuno, e abbiamo capito di aver fatto la scelta giusta.
Quando ci è arrivato il materiale, basato su molti numeri e pochi testi essenziali, abbiamo discusso molto tra di noi e con cheFare per mettere a fuoco le informazioni da raccontare. — Questo è un momento cruciale in cui committente e designer devono mettersi nei panni di chi leggerà. L’80% del design accade qui, solo puro contenuto, le forme non sono contemplate. —
Una caratteristica dei documenti erano i dati scritti in forma discorsiva, i numeri erano contenuti all’interno delle frasi. Ci sembrava di dover lavorare parecchio per tirarli fuori. In una delle proposte, che poi è stata scelta, avevo provato a lasciare tutto così com’era lavorando sull’impaginazione per mettere in risalto i dati senza eliminare le frasi. Mi era tornato in mente il lavoro di Stefan Themerson e delle sue poesie semantiche (https://bit.ly/2DoFsye) e volevo provare a fare la stessa cosa. Avevo diviso i lunghi periodi in piccole unità logiche ognuna disposta su una colonna, in ogni colonna avevo riportato graficamente il dato corrispondente. Così era ancora possibile leggere la frase ma i dati erano chiari. Funzionava bene.
cheFare è un gruppo di individui che opera nel mondo della cultura costruendo reti di relazioni con altre persone. Il progetto fino a quel punto era esclusivamente struttura, ma serviva un protagonista che illustrasse queste dinamiche umane. Utilizzando l’infografica il pensiero è andato da subito al lavoro di Otto Neurath il sociologo ed economista viennese che negli anni ‘20, insieme al pittore Gerd Arntz, sviluppò Isotype (International system of typographic picture education) uno dei primi sistemi di visualizzazione delle informazioni. Dovevamo farne una citazione.
Abbiamo ridisegnato un omino in stile Isotype ma ripulito della patina d’epoca e con un ciuffo scapigliato. È il basso continuo di tutta la pubblicazione, appare da solo, in gruppo, colorato. Sovrapposto ad altri elementi per costruire relazioni di senso. Nella pagina in cui sono illustrati gli stakeholder gli omini hanno disposizioni simili a geroglifici, in cui piccole figure umane interagiscono con i segni. Un elemento diverso dalla rigida disposizione lineare di Isotype, che introduce un po’ di libertà e ironia.
Diversi mesi dopo, non senza rallentamenti, siamo giunti a una versione definitiva. Dovevamo stampare e rilegare. Il progetto prevedeva l’uso di due tinte Pantone più il nero. Nel progetto si faceva largo uso di sovrastampe, sovrapposizioni di due inchiostri che generano una terza tinta. Raffinate, ma delicate da stampare.
A complicare le cose poi c’era la legatura dei fogli singoli e l’applicazione del dorso in tela, che andava eseguita con una colla speciale per evitare che i fogli si staccassero. Una scelta pensata per avere un libro che potesse aprirsi completamente e rimanere piatto sul tavolo. Fortunatamente negli anni abbiamo costruito un rapporto di lavoro e amicizia con CTS Grafica, una tipografia di Città di Castello, specializzata proprio in questo tipo di lavori delicati e quasi sartoriali.
Quando si parla di innovazione culturale si parla di tutto questo, di scelte incerte, di ibridazioni tra le pratiche esistenti, di rielaborazione dei processi economici e produttivi. Certamente anche nel campo del progetto possiamo fare molto. Dobbiamo percorrere altre strade e altri linguaggi, frequentare altri campi del sapere, andar fin sulla luna e tornare giù. La deriva è un rischio necessario per trovare nuove possibilità narrative. In questo scenario culturale in trasformazione, l’approccio artigiano di sperimentazione combinatoria è forse l’unico possibile per immaginare un mondo nuovo. Un mondo, citando Giovanni Lussu, dove “ognuno si faccia nel modo migliore quello di cui ha bisogno”.
In copertina: la copertina del nostro bilancio sociale. Foto © Stefano Vittori.