Pubblichiamo un estratto (qui anche in versione inglese) dall’ebook di Michele Dantini, Il momento Eureka. Pensiero critico e creatività (doppiozero, 2015) a cura di cheFare
english version below
“Le visite al laboratorio dello scienziato del cervello e al ‘campo’ degli studiosi di culture esotiche dovrebbero divenire parte integrante della formazione di individui interessati alla cognizione e allo sviluppo”. Nell’affermazione di Howard Gardner, brillante autore di Formae mentis, troviamo il limite implicito di ogni teoria psicobiologica: l’interesse prevalente per genetica, fisiologia e antropologia culturale riduce la curiosità per le concrete circostanze storiche del dispiegamento della creatività. La ricerca si rivolge alla preistoria ereditaria del talento, eventualmente alla relazione pedagogica e a comparazioni di tipo etnografico, nel modo in cui può farlo una storia naturale. Il segmento emerso dell’ontogenesi, invece – segmento che Gardner stesso descrive come lo “stato finale” dell’apprendimento, autodeterminato, professionale e caratterizzato dall’uso spigliato di “sistemi simbolici” altamente differenziati – cade ai margini dell’indagine scientifica.
Che ne è dello studio del talento adulto; e della “divergenza” autocosciente, capace di produrre essa stessa, attraverso le opere, la propria testimonianza pubblica?
La fama di spocchiosa categoricità associata alla venerabile figura del connoisseur contribuisce non poco all’attuale emarginazione della storia dell’arte dalle scienze della cognizione, e le assegna ruoli poco più che voluttuari. Tuttavia dovremmo chiederci, confortati dalla pluralità di orientamenti che emergono dal cuore stesso della disciplina: è lecito separare la “biologia” del talento dalle “politiche” che esso stesso attua, cioè dalla congerie di scelte che artisti, scienziati e ricercatori innovativi sono chiamati a compiere su piani disciplinari per portare a compimento quanto progettato? Certo no, salvo postulare un’artificiosa distanza delle attività estetiche dalla sfera pratica. “Per avere idee chiare sull’[esperienza] estetica”, osserva Wittgenstein nelle Lezioni di estetica tenute a Cambridge nel 1938, “bisogna descrivere modi di vita”. La conoscenza della storia dell’arte aiuta a descrivere la creatività in termini meno pacificati e “naturali”. Concede il privilegio di osservarla nel vivo di performance esperte e contribuisce a gettare luce sui misteri dell’individuazione.
È una convenzione ricorrente nella storia dell’arte che l’evoluzione dello “stile” segua leggi simili a quelle che caratterizzano un qualsiasi organismo vivente: dunque nascita, crescita, decadenza e morte. Riconducibile a Winckelmann e Goethe se non addirittura a Vasari, tale stilizzazione organicistica delle epoche ricorre nelle grandi narrazioni storico-artistiche ottocentesche. Assai di rado tuttavia il luogo comune si dimostra attendibile. Il modo in cui un determinato linguaggio figurativo evolve – il pointillismo o il cubismo, poniamo – non ha niente a che fare con il modo lineare attraverso cui un embrione sviluppa potenzialità preformate. Presuppone invece casualità di ogni tipo, esacerbate rivalità o distaccata denigrazione, parodia e saccheggio, tesori di astuzia, abilità o determinazione, concessioni alla moda e al mercato, impasse repentine, cadute, apici, diversioni. Si tratta pur sempre, per gli artisti implicati, di scegliere tra opzioni concorrenti, di volta in volta ugualmente contingenti e reversibili.
Il punto di vista “psicobiologico” di Gardner riconosce grande importanza all’elemento individuale, e la descrizione del “carattere” innovativo contenuta in Cinque chiavi per il futuro è memorabile. Anche nel caso di Gardner tuttavia l’innovazione culturale (o più precisamente stilistica) è descritta in termini endogeni, tacitamente estetizzanti. Gardner fa assiduo riferimento alla storia dell’arte, che considera da punti di vista formalistici. Questa sua opzione non è però scontata né neutra. Rimanda invece a modelli interpretativi da lungo tempo invalsi nella storia dell’arte americana di tradizione modernista; e perpetua la convinzione che l’arte sia pura autoevoluzione, avulsa dal mondo circostante, immune alla catastrofe e alla trivialità. Ma non è questo il caso.
Nel dialogo satirico Il nipote di Rameau, scritto tra 1762 e 1773 anche se pubblicato postumo, Diderot, filosofo, critico d’arte e scrittore di teatro co-editore dell’Encyclopédie, riflette sui rapporti tra arte e filosofia. L’artista-istrione, suggerisce, è abitato da molteplici personaggi e oscilla incessantemente tra sciami discordi di desiderio. In breve: delira. Sempre in cerca di cibo, adulazione e denaro, indigente ma dal gusto ricercato, non esita a farsi servo egli stesso pur di appagare la propria brama. Instabile, è l’incarnazione sciagurata della “creatività” disgiunta da un principio direttivo, mimetica e autoreferenziale. Il suo caso rattrista: un prodigioso talento va sprecato nella mendicità e nell’abiezione. Il filosofo ubbidisce invece a una legge interiore: è capace di rinuncia e dispone di un Sé coerente.
Non ho dubbi sul fatto che Diderot abbia per l’arte un interesse stoicamente moralizzato. Il suo artista preferito è Jean-Baptiste Greuze, che a noi sembra sin troppo edificante. Tuttavia il rifiuto dell’istrione è un tema ricorrente nella cultura europea otto-novecentesca. Innesca la veemente opposizione goethiana alla “patologia” romantica (Goethe è un assiduo lettore di Diderot), sorregge la polemica antidecadente di Nietzsche – il suo attacco a Wagner sarebbe incomprensibile senza avere presente Il nipote di Rameau – e ritorna nei primi decenni del Novecento, quando, particolarmente nel periodo entre-deux-guerres, si congiunge a propositi redivivi di “stile severo”. Il libro Arte e anarchia di Wind è un autorevole frutto tardo – non necessariamente tardivo – di questa cultura, caratterizzante in profondità già Aby Warburg.
“La sfida che si pone all’educatore”, scrive Gardner, “è quella di tenere vive l’intelligenza e la sensibilità del bambino”. Non c’è dubbio. Ma agli occhi di Diderot la sfida più grande attende il legislatore: è suo il compito di creare società in cui l’“istrione” e il “filosofo”, l’esteta e l’interprete dell’interesse generale, si congiungano in un’unica persona e coabitino per lungo tempo assieme. Sotto questo profilo la mera “creatività” può non essere l’istanza suprema.
Howard Gardner’s “anatomy of creativity”: the Theory of Multiple Intelligences and the history of art
“To my mind, visits to the ‘lab’ of the brain scientists and to the ‘field’ of an exotic culture should become part of the training of individuals interested in cognition and development”. In this assertion made by Howard Gardner, the brilliant author of Formae mentis, we find the implicit limitation of every psychobiological theory: the prevailing interest in genetics, physiology and cultural anthropology curtails curiosity about the concrete historical circumstances in which creativity manifests itself. Research focuses on the hereditary prehistory of talent, and perhaps on pedagogical relationships and ethnographic types of comparisons, developing a sort of natural history. The segment emerging from ontogenesis, on the other hand – a segment Gardner himself describes as the “final state” of learning, self-determined, professional and marked by a liberal use of highly differentiated “symbolic systems” – falls by the wayside of scientific investigation. What has happened to the study of adult talent, or in other words, the study of self-aware “divergence”, capable of producing its own public testimonials in the form of works? The support of the neurobiologist or the ethnologist, who is used to studying pre-modern cultures based on the holistic presupposition of internal cohesion, could prove deceptive.
A reputation for haughty inflexibility associated with the venerable figure of the connoisseur contributes significantly to the current exclusion of art history from the category of cognitive sciences, and limits it to roles that are little more than superfluous. And yet, we should ask ourselves, reassured by the plurality of orientations that spring from the very heart of the discipline: is it right to separate the “biology” of talent from the “policies” it actuates, that is, the congeries of choices that innovative artists, scientists and researchers are called upon to make, based on disciplinary approaches, to carry out their designs? Certainly not, except to postulate an artificial distancing of aesthetic activities from the practical sphere. “In order to get clear about aesthetic words,” Wittgenstein observed in his Lectures on aesthetics held in Cambridge in 1938, “you have to describe ways of living”. Knowledge of art history helps us to describe creativity in less placatory, “natural” terms. It allows us the privilege of observing creativity in expert use, and contributes to shedding light on the mysteries of Self-Becoming.
A recurrent convention in art history says that the evolution of “style” follows a pattern similar to those that regulate any living organism: birth, growth, decline and death. Found in Winckelmann and Goethe, and perhaps even Vasari, this organic type of stylization of epochs recurs in the great 19th-century accounts of art history. But the convention rarely proves to reflect reality. The way in which a given figurative language evolves – pointillism or cubism, let’s say – has nothing to do with the linear way in which an embryo develops its pre-determined potential. Rather, it presupposes all sorts of random elements – intense rivalries or impassive denigration, parody and plunder, pearls of wisdom, ability or determination, concessions to fashion and the market, unexpected impasses, stumbles, peaks and diversions. For the artists involved, it is always a matter of choosing among competing elements that are equally contingent and reversible.
Gardner’s “psychobiological” point of view lends great importance to the individual, and the description of the innovative “character” in Five Minds for the Future is memorable. And yet, in Gardner as well, cultural (or more specifically stylistic) innovation is described in endogenous, tacitly aestheticizing terms. Gardner continually refers to art history, considering it from formalistic points of view, but his decision to do so is neither conventional nor neutral. Rather, it refers back to models of interpretation that have long been prevalent in modernist-tradition American art history, and perpetuates the belief that art is pure self-evolution, unconnected to its surroundings, immune to the catastrophic and the trivial alike. But such is not the case.
In the satirical dialogue The Rameau’s Nephew, written between 1762 and 1773 but published posthumously, Diderot, the philosopher, art critic, theatrical writer and co-editor of the Encyclopédie, reflected on the relationships between art and philosophy. The artist/melodramatic actor, he suggests, is inhabited by multiple personalities and incessantly oscillates between bouts of discordant desires. In short, he is delirious. Ever on the prowl for food, adulation and money, indigent but with expensive tastes, he does not hesitate to grovel if necessary to fulfill his yearnings. Unstable, he is the wretched embodiment of “creativity” detached from any guiding principle, mimetic and self-referential. He is a sad case: a prodigious talent wasted in destitution and despair. The philosopher, in contrast, obeys his own inner directive; he is capable of restraint, and possesses a coherent Self. I have no doubt that Diderot’s interest in art was stoically moralizing. His favorite artist was Jean-Baptiste Greuze, who to us seems excessively edifying. And yet, the rejection of the melodramatic is a recurrent theme in 19th- and 20th-century European culture. It triggered Goethe’s vehement opposition to the “pathology” of romanticism (Goethe was an assiduous reader of Diderot), bolstered Nietzsche’s anti-decadent polemics – his attack on Wagner would seem incomprehensible without the existence of The Rameau’s Nephew – , and resurfaced in the early decades of the 20th century when, particularly during the period between the wars, it joined forces with proposals to revive the “severe style”. Edgar Wind’s 1963 book Art and Anarchy is an authoritative later – but not necessarily belated – fruit of this ethos, previously characterized and analyzed by Aby Warburg.
“The challenge for the educator,” writes Gardner in Five Minds for the Future, “is to keep children’s intelligence and sensitivity alive.” This is certainly true. But in Diderot’s view, the greatest challenge is that facing the legislator: his task is to create societies in which the “ham actor” and the “philosopher,” the esthete and the interpreter of general culture all come together in a single person and co-exist for a long time. From this point of view, mere “creativity” may not be the supreme requirement.
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