(U)Topia: il noi e uno spazio rinnovato

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    Pochi giorni fa, qui a Matera, Massimo Cacciari ha parlato, in una lezione molto accademica di fronte ad un vasto pubblico (sempre più attratto dalla sua dimensione intellettualnazionalpopolare), del Tramonto dell’Utopia. Dopo aver preso in esame da Thomas More, Tommaso Campanella, Francis Bacon fino ad arrivare allo scontro fra la concretezza antiutopica delle correnti marxiste e l’eredità del pensiero di Max Weber ed Ernst Bloch del pensiero del ‘900, ha in qualche modo dichiarato la fine di quel progetto. A 500 anni dalla scrittura del testo iconico di More, l’utopia come strumento cruciale nell’immaginarsi prima, nel costruire poi lo stato moderno, non esiste più. E con esso è venuto a mancare, a detta di Cacciari, l’impianto che immaginava la politica moderna e le sue infrastrutture. E, aggiungo io, è forse venuta meno la stessa categoria dello stato moderno.

    Un altro funerale è stato in qualche modo celebrato e si è spezzata una tradizione di relazione fra classe intellettuale e stato. Le scienze umane hanno bisogno di nuovi strumenti per nuove categorie (al di là di una crisi che colpisce noi tutti, in particolare quella filosofia al centro di un dibattito anche in queste pagine – vedasi Elisa Caldarola e Federico Bonaccini).
    Il topos, il luogo, non è più abitato da un pensiero intellettuale (e quindi culturale), che lo accompagni nelle sue forme, che si prenda cura degli spazi che abita.

    È un topos di dimensione europea, violentemente scosso dal Brexit britannico, in un processo nel quale abbiamo completamente dimenticato che è proprio quella visione (che chiamavamo utopia) che ci ha reso europei, al centro di un dibattito in cui tutti eravamo coinvolti (dall’Inghilterra al sud Europa), proprio per la capacità delle nostre reti di immaginare lo spazio che abitavamo. Oggi pretendere che alla base della Comunità Europea sia da anteporre il discorso economico, significa scordarsi che quella economia era (e non è più) fondata su di una concezione di spazio specifico, lo stato, che è venuto a mancare. Nostra responsabilità ora è quella di ri-immaginarci in una relazione fra luoghi e il noi, non solo per la nostra sopravvivenza, ma anche come senso di responsabilità verso la comunità nostra e quella mondiale. Come diceva bene pochi giorni fa Franco Farinelli, il Brexit ha rivelato la forza di una globalizzazione immaginata ancora secondo il vecchio armamentario culturale che viene dalla modernità, dallo stato moderno centralizzato: quello che serve ora, per andare oltre la frammentazione di un mondo ancora cartografico (dove la sinistra e destra, l’alto e il basso non esistono più), è un massiccio investimento in nuovo pensiero, per ricostruire la relazione con i luoghi, in una dimensione oltre, che rifletta la sua globalità vera intesa come sferica.

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    La mia sensazione è che, di fronte a questa nostre crisi, noi appariamo ancora fermi: decretiamo le morti, non riusciamo ad individuare e a salutare potenziali nascite. Forse perché, siamo chiusi in questi nostri nostalgici spazi (a contare le scomparse), mentre una voce stanca, quasi afona, rieccheggia flebilmente e continua a ripetere, quasi come nenia, un inno alla cultura che è stata.

    Fondamentalmente ragioniamo ancora chiusi fra quelle mura, da quei confini dell’Europa ed oltre (fino ad arrivare a quelle terre che pensiamo di possedere per quell’antico difetto nostro coloniale, Siria e Palmira,), fino alla Bella Italia, apportando lifting sempre meno credibili, che assorbono le parole e non le sanno restituire in nuove declinazioni. Le parole stanche non tornano a chi quei muri, quelli spazi, li vive, li sente, li abita.

    È quindi il luogo, il topos, che va ripensato: il luogo ideale entro cui essere comunità.
    Se fare cultura vuole dire ancora credere in quelle antiche grammatiche, allora ci possiamo accontentare del miliardo celebrato del MIBACT come nuovo investimento, tutto destinato ad opere, non a processi di nuovo pensiero. Così come possiamo accontentarci che nel linguaggio burocratico alla parola cultura sia stata associato il concetto di essenzialità, quando, grazie alla c.d legge Colosseo, si è equiparato il servizio di apertura dei musei e/o dei luoghi della cultura a quello essenziale dei servizi sanitari. Ma quella legge risponde solo ad un meccanismo di consumo (e di custodia), facendo solo finta che la cultura sia stata posta al centro, mentre invece è funzionale meramente ad essere spettatore dell’antico.

    Cultura. Essenziale. Servizio pubblico. C’è qualcosa in questa sequenza che non torna. Questa non è quella cultura a cui Farinelli faceva riferimento: la cultura (che dire essenziale è talmente tautologico che ne svuota il concetto) è altro, è ridisegnare gli spazi che abitiamo. Vuol dire rimuoverla dalle teche, superare il concetto stesso di una sua protezione/conservazione (anche Costituzionale – dell’ovvio non ne dovremmo più aver bisogno), e divenire laboratorio di nuove visioni.

    Uno stato da rifondare o, meglio, rideclinare come termine politico di ambito di comunità.
    Bisogna innanzitutto uscire dall’immobilismo in cui siamo costretti: lo stato moderno, costruito sulla conservazione (sulla grammatica del ricordo come monumento alle proprie fondazioni), deve saper lavorare su nuovi pensieri e processi, su di una cultura che si svincoli dai perimetri nella quale è stata inserita. Musei e archeologie, siti Unesco o semplici monumenti, non devono più solo essere luoghi dove lo sguardo si poggia, ma luoghi dove il contatto fisico produca nuovi processi dinamici che sappiano ridefinirli all’interno delle dinamiche contemporanee: dall’essere luogo dell’incanto di uno sguardo che consuma (ma non riproduce), devono divenire luoghi di produzione di pensiero e quindi anche di economia.

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    I Sassi che ad esempio guardo dalla mia finestra materana, non possono solo essere mura Unesco (o cuore di una Capitale Europea della Cultura per il 2019) come monumento, da un monere, ricordare (e ricordare cosa? la vergogna degli anni ’50, la storia povera, le chiese rupestri, la nostra retorica?) che rischia di diventare vuoto contenitore. I processi umani incredibili che li hanno attraversati, abitati, devono tornare ad essere il termine di racconto (non le mura), per rigenerare la relazione dell’abitare, dell’oikonomia (la regola della casa), per rimetterli in contatto con donne e uomini che li abitavano (e che ora vivono nei quartiere meno belli degli anni ’50). E creare nuovi cortocircuiti, lavorando su quello che oggi chiamiamo patrimoni immateriali, mentre allo stesso tempo dovremmo partire proprio dal rimuovere questa parola (patrimonio), segno di un atteggiamento paternalistico dello stato. Dobbiamo rinutrire lo spazio: città e periferie, paesini abbandonati e paesaggi, dovrebbero essere tutti riportati al centro della semplice relazione dell’abitare, senza cartografie che ne pregiudichino una gerarchia.

    La narrazione diventa qui fondamentale, immaginando peraltro un nuovo vocabolario, e strumenti oltre la dimensione ormai retorica e commerciale che il termine storytelling sta assumendo, in grado di nutrire e aiutare le voci che abitano questi spazi. In questo è chiaro che diviene cruciale il ruolo che hanno coloro che della parola fanno strumento di comprensione (e rilancio dinamico) della realtà: e vivo è stato il dibattito fra scrittrici e scrittori che sul proprio ruolo ‘politico’ hanno discusso, tornando sul fatidico problema della supposta scomparsa degli intellettuali (anche qui dibattito spesso contenuto negli spazi stanchi del ‘900). Paolo Di Paolo, Aldo Nove, Michela Murgia e Valeria Parrella si sono confrontati dalle pagine di vari giornali: al dove siamo di Di Paolo, allo scusateci di Busi, sono le voci femminili (la cura) che ci hanno richiamato innanzitutto al recupero di una voce lenta (perché lenti sono i processi, Valeria Parrella) e alla necessità, come atto politico, di rompere e riscrivere lo status quo, come dice Michela Murgia. La quale ci richiama inoltre nel suo ultimo saggio, Futuro interiore ad abbandonare lo ius loci, per rigenerare uno ius voluntatis, alla base di ogni necessaria trasformazione nella relazione con lo spazio che abitiamo.

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    Sulla parola come codice di nuova lettura (e in questo caso l’informazione), ci hanno sollecitato di recente anche Andrea Nelson Mauro e Federico Badaloni: in un interessante dibattito organizzato al Festival del Giornalismo di Perugia, il tema era il giornalismo come narrazione ma anche come strumento di cambiamento, in particolare in una nuova dimensione collaborativa con gli ‘utenti’. Data journalism, solution journalism, constructive journalism, sono stati al centro di un dibattito teso a recuperare una relazione, non solo con i lettori, ma, insieme ai lettori, nel costruire nuovi luoghi. L’esistenza di un luogo è la condizione per condividere conoscenze e la risorsa più essenziale di tutte: il proprio tempo, ci dice Federico Badaloni, immaginando una relazione rinnovata fra categorie di spazio, tempo e persone che li vivono.

    La questione è spesso rimandata alla sostituzione dello spazio fisico con quello dello spazio virtuale, delle reti, che sotto pelle si sentono, si percepiscono ma forse non riescono ancora ad incidere sui luoghi del ‘900. Inneggiamo alla reti, ma spesso non riusciamo a dare un corpo a queste reti, una fisicità che nutra realmente gli spazi.Questo è il grande interrogativo del momento, sommersi come siamo da social, blogs, ecc: ed è la domanda alla quale anche giornali come questo, cheFare, stanno lavorando per unire le voci alla mappatura del nuovo.

    Sulla questione è recentemente intervenuto Annibale D’Elia (anima delle politiche giovanili pugliesi negli ultimi anni), in un seminario tenuto a Matera per la Sharing School, nel discutere reti e rischio dell’immobilismo virtuale. In una chiacchierata divenuta laboratorio, nel coinvolgimento di noi presenti, Annibale ci ha ricordato quanto le reti siano meccanismo di creazione di senso, nella quali le dinamiche di relazione fanno saltare le gerarchie (le cartografie), a condizione che vi sia non solo una dinamica di scambio interpersonale, ma che questa si confronti con i luoghi, reali, veri, fisici. Il suo suggerimento era quello di sperimentarla attraverso un atto semplice, organizzare una festa, dove il fine fosse chiaramente star bene, essere felici. Con gli altri, entro gli spazi che insieme agli altri vivi.

    E gli spazi sono plurimi: sono la rottura delle relazioni fra centro e periferie (che esse siano quelle delle città metropolitane che debbano prendersi la responsabilità del paesaggio e dei paesi abbandonati), o dei luoghi all’interno della polis tradizionale, per rompere anche qui la mappa novecentesca e generare spazi di produzione. Che essi siano musei (vedere per ripensare), biblioteche (leggere per creare altro – e qui si veda il bell’articolo di John Palfrey), ma, aggiungo io, anche le scuole stesse, per uscire da una formazione tesa a categorizzare i più giovani dentro carriere e percorsi stabiliti: il sogno è creare nuove relazioni fra questi luoghi, come fulcro della costruzione di nuovi vocabolari.

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    Scuole, musei, biblioteche trasformate insieme per divenire agorai vere di comunità (ma anche teatri nell’accezione a cui spesso ci riporta Andrea Porcheddu), nelle quali la cultura non sia essenziale, ma semplicemente sia, come vero (ed unico) motore di cambiamento. Spazi in cui anche l’arte intesa come cultura torni ad essere elemento fondante costruttivo attraverso il conflitto (qui il richiamo di Christian Caliandro), e non sollievo ad un mondo non più esistente. In questo dismettendo categorie europee come arts, humanities and culture, come panacea al mondo più sacro dell’economia, evitando di arrivare, come ultimo dibattito/provocazione, a supposte divisioni fra imprese culturali e creative, in nome di un’efficienza economica.

    Mi aspettano giornate intense ora, sempre nel tentativo di mettere insieme mondi apparentemente diversi, ma profondamente legati fra loro: da Venezia, a parlare di gamification e beni culturali (come strumento per costruire nuove relazioni, anche di gioco, con ciò che ci circonda e che ci abita come la memoria), a Roma nella sede più ufficiale della Treccani, a discutere di nuovi concetti di patrimonio immateriale.

    In mezzo una tre giorni piena di scosse, di sommovimenti, il Festival della Cura a Bologna. Un progetto a mio parere dirompente, nato dalla rottura di un uomo e una donna (Salvatore Iaconesi ed Oriana Persico) con il male del secolo (il secolo del ‘900). Salvatore dopo aver scoperto un cancro al cervello, decide di rigettare il percorso a cui ti costringono il tabù e il peregrinaggio solitario del dolore della malattia, ed insieme ad Oriana, in una danza a due che ha già rotto le tenebre del silenzio della malattia, coinvolge centinaia di migliaia di persone, in una performance partecipativa. A Bologna, grazie alla spinta di Kilowatt e alla immediata adesione di molte/i altre/i, in maniera complessa, connessa, indisciplinata, declineremo nuovi vocabolari, nuovi corto circuiti, per una cura di noi. E degli spazi che abitiamo. La malattia come metafora per uscire dalla solitudine dei percorsi individuali, per aumentare la percezione di ciò che è possibile, per costruire senso insieme, imparando a cogliere la “bellezza-che-connette”.

    Da lì lanceremo nuove tappe e nuove scosse, una dedicata all’(U)topia (con la ‘U’ sbarrata) che ci ritroverà a Matera con Matera 2019 nel fine settimana di Radio3/Materadio il 23/25 settembre. La parola crea il luogo. Creando la parola lo facciamo esistere. Usandola insieme creiamo il senso. Un senso che ricostruisca il noi italiano, europeo, internazionale.

    Note