Strategia e gestione per le aziende culturali, un’intervista a Pieremilio Ferrarese

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    Teatri e musei cominciano a riempirsi di spettatori e visitatori, man mano che le misure restrittive si allentano e la vaccinazione si dispiega. Anche se sarà ancora una stagione di transizione, le sale rimaste vuote per oltre un anno hanno lasciato un segno indelebile. Per chi le gestisce, l’interrogativo è quanto la pandemia abbia prodotto cambi, slittamenti, svelamenti e rotture che impongano di ripensare il governo di questi ecosistemi d’impresa.

    Pieremilio Ferrarese è un osservatore attento di questo segmento dell’economia culturale, manovrando tra libri contabili e strategie d’arte. Docente di economia e gestione dei beni e delle attività culturali (EGArt) all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha focalizzato di recente la sua attenzione sulla tellurica della pandemia nella gestione del Gran Teatro la Fenice, firmando più saggi che ampliano le riflessioni raccolte ne La strategia e la gestione di un teatro d’opera (Edizioni Cafoscarina). È appena uscita inoltre la seconda edizione aggiornata del suo manuale Elementi di project management e modelli di report per le aziende culturali (Editrice Cafoscarina).

    Professore, come sono cambiati i luoghi d’arte con la pandemia?

    «Per un anno ci siamo immersi in streaming a seguire concerti, opere liriche, lezioni d’arte e mostre. Quasi tutti si sono attrezzati, con prodotti e risultati diversi. Ma per chi era abituato a frequentare i luoghi di musica e d’arte, lo streaming è stato vissuto solo come un succedaneo. Di recente sono stato alle prove generali del Rigoletto al Teatro la Fenice, con la splendida regia di Damiano Michieletto. In quell’occasione ho assistito a un applauso lunghissimo alla fine di una famosa “aria” del protagonista. È stato catartico: è come se il pubblico si fosse riconnesso con gli attori, i musicisti, gli scenografi, le maestranze, cioè tutto quello che fa di un teatro un teatro. Stare in sala significa sentire un’opera in tutti i sensi e con tutti i sensi. Niente può sostituirlo. Il teatro visto in streaming non era più teatro»

    Dunque, il vuoto delle sale ha prodotto una rottura di significato di quel luogo e di quell’impresa?

    «Esattamente, perché partecipare a un concerto è un’esperienza molteplice: significa guardare, percepire, comunicare. Le performing arts si distinguono proprio perché sono vissute esattamente lì dove si mettono in scena, in quel luogo e in quel momento. È un atto non replicabile: la recita è unica per definizione, nessuna è identica a un’altra. È la magia dello spettacolo dal vivo». 

    Ed è anche la sua vulnerabilità

    «Nell’ultimo anno è proprio quella vulnerabilità che è stata vissuta e che ha spiazzato chi gestisce i teatri e i musei. L’utilizzo dello streaming, tuttavia, è stata una palestra: l’opera ha assunto un aspetto cinematografico, ha spinto le produzioni a rileggerla e ricomporla per una visione sullo schermo. Ha incrociato fasce nuove di pubblico, anche chi frequentava poco o affatto le sale. Credo che l’esperienza di quest’anno possa essere ripresa e pensata in modo strategico e non più come emergenza. Non sostituisce l’esperienza dal vivo, ma è un’altra cosa».

    E dal punto di vista economico che lezioni ha lasciato? Quali elementi di project management si devono utilizzare per poter stare di nuovo aperti al pubblico?

    «Dal punto di vista economico, mi sembra resti centrale la capacità delle aziende culturali di servirsi del contributo pubblico, necessario per pareggiare i costi rispetto ai ricavi di vendita, che, per definizione, sono sempre inferiori al valore del prodotto. Chiunque sa, ad esempio, che lo spettacolo lirico è uno dei più costosi da produrre e nessuno può pagare in sala il corrispettivo che consenta una completa autosufficienza dei teatri senza il contributo statale; resta compito dell’azienda culturale gestirlo al meglio, attrarre nuovo pubblico, riempire le sale.

    Se adattiamo il project management alle performing arts tre elementi-base devono ricorrere. Primo, il timing: arrivare pronti alla prima con uno spettacolo perfetto; secondo, garantire l’eccellenza delle competenze, del cast e delle maestranze; terzo, l’economicità: la capacità di avere costi in linea con i ricavi. Rispetto a prima cosa cambia? Credo ci sarà attenzione all’aspetto più cinematografico delle produzioni per una possibile fruizione di grande qualità anche in streaming. Dunque, cambierà anche il rapporto con i media, sia classici (penso al prezioso lavoro di Rai5) sia nuovi, digitali e streaming»

    Di teatri e musei ormai si parla di luoghi che vanno oltre il contenitore di mostre e spettacoli, ma di spazi civici, che siano aperti e porosi al territorio.

    «Soprattutto i musei hanno cambiato pelle e sono ormai demitizzati. In Italia scontiamo ancora un ritardo, perché da noi resiste l’idea di museo come luogo sacro. Ma persino la definizione dell’ICOM li legge come “istituzioni senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo sviluppo”, dedicati alla conservazione e alla valorizzazione “per scopi di studio, educazione e diletto”. Ci siamo soffermati poco su quest’ultimo termine, diletto, che è forma di stare assieme, di acquisizione di esperienze molteplici.
    La Peggy Guggenheim Collection, in questo senso, è un caso esemplare: ha interpretato al meglio una casa che era anche galleria, ne ha fatto un museo e lo riempie di iniziative, di eventi, dall’educational all’intrattenimento (si pensi all’iniziativa degli happy-spritz per i giovani) intercettando fasce di pubblico sempre nuove.

    Da questo punto di vista, considero positiva la riforma Franceschini, con la sua apertura internazionale alla direzione dei musei, perché ha permesso un respiro più ampio e nuove sensibilità manageriali».

    Ormai da vent’anni, una grande quantità di istituzioni e sistemi cultuali pubblici si sono trasformate in fondazioni. Che bilancio si può trarre? 

    «Pur con tutti i limiti, mi sembra sia stata ottima la scelta di passare da tanti musei pubblici a fondazione di diritto privato. Peraltro, è un passaggio nato con la riforma degli enti lirici nel 1997. La chiave sta nella capacità di governance del soggetto pubblico: il tema non è quello di privatizzare la cultura, ma è ormai evidente come siano necessari fondi e modalità di gestione di stampo privato. Tra l’altro, non dimentichiamo che il sistema delle fondazioni bancarie risulta da sempre il secondo finanziatore della cultura dopo lo Stato italiano. Lo strumento delle fondazioni alla fine, pur migliorabile, si è rivelato efficace, capace di rendere più efficiente la gestione e di mettere a fuoco la partnership pubblico-privato. Credo abbia retto la prova». 

    Eppure, quelle pubbliche sembrano non stare al passo con fondazioni e collezioni private: lei citava la Guggenheim, ma penso anche a Pinault o a Prada. Cosa non va?

    «La differenza è che quelle private hanno prima di tutto altri obiettivi. E poi possono gestire bilanci diversi, avere una ben più ampia possibilità di azione. Il privato che fa cultura ha un insieme di velocità, reazione e apertura che non ha paragone con il soggetto pubblico. E il pubblico, a sua volta, ha una responsabilità e persino ancora una contabilità che rallenta inevitabilmente la sua azione. Le fondazioni hanno provato a innestarsi in quel passaggio, ma sono strumenti relativamente giovani, con un personale formato nel settore pubblico e in altri tempi: ci vorrebbe una spinta per un cambio generazionale. Mi auguro di vedere board più variegati e una bella invasione di giovani manager culturali. E delle politiche pubbliche culturali all’altezza. Non dimentichiamo che, per tornare alle riforme del ministro Franceschini, nel periodo in cui è stato sostituito, tutto si è fermato e si è vista platealmente la differenza».

    Quello delle politiche pubbliche è un altro elemento che la pandemia ha fatto emergere in modo eclatante.

    «Io mi aspetto uno Stato che sostenga convinto le aziende culturali, lasciandole agire con abilità privatistiche. So che esiste ancora una resistenza culturale e politica molto forte. Molti eminenti studiosi ancora oggi sostengono che “il museo non può essere un’azienda”. Ma a me sembra una posizione speculare all’altra, che pure spesso spunta nel dibattito e risulta altrettanto fuori-tempo, per cui un teatro o un museo dovrebbe arrangiarsi con proprie risorse e finanziarsi da solo.
    Entrambe le posizioni non mi convincono. La cultura ha proprie finalità e vocazioni che sono meta-economiche, ma quando entra nella dimensione economica deve farsi azienda e deve avere dei meccanismi di gestione tipici di un’azienda. Dunque, è vero il fatto che un’azienda culturale riesce a perseguire i propri fini di arte, ricerca e produzione solo se riesce a farsi azienda, diversificando le risorse, gestendo i costi, conquistando nuovo pubblico, lavorando sulla qualità della produzione. Non si può tornare al passato, quando un teatro riceveva contributi pubblici senza parametri di merito (come ci sono ora), aveva pochissimi introiti propri e accumulava ogni anno deficit insostenibili: così non solo bruci risorse, ma se non hai il teatro pieno non assolvi neanche la tua funzione culturale».

    Spesso si dice che il nostro sistema culturale e il patrimonio storico e artistico sono il petrolio del nostro Paese. È una definizione che finisce per essere disturbante, per quell’accezione estrattivista che non promette niente di buono. Cosa ne pensa?

    «Sono anch’io restio a convertire terminologie estrattive nel culturale. Il patrimonio culturale è la nostra ricchezza, questo sì. Se penso a un qualsiasi bilancio, la mia ricchezza, il mio patrimonio è costituito dalle attività che posseggo e dalle risorse che attiro e produco: si tratta di riconoscerlo e valorizzarlo. Se questo genera un indotto economico, ben venga. Gli studi ci dicono che teatri come La Scala o La Fenice hanno un effetto moltiplicatore attorno a 2,5 – 3,5 per ogni euro investito in attività culturali. Certo, l’Oktoberfest ha un moltiplicatore di 130 e non c’è storia. Ma la dinamica economica che un teatro produce è doppiamente salutare. La Fenice, ad esempio, si riempie per il 75% di turisti: senza di loro, sarebbe un teatro vuoto. Se lo incrociamo con quel moltiplicatore, ci racconta della capacità da parte di quel teatro di attrarre un turismo di qualità, che è una delle questioni centrali di cui sempre si discute nelle città d’arte come Venezia. E spinge il settore pubblico ad agire non solo in risorse, ma in servizi e politiche urbane. Anche per questo lo Stato non può ritirarsi dalla cultura».

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