Tagliare ancora la testa al re

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    Pubblichiamo un estratto dall’ultimo numero de Gli Asini (n. 108, maggio-giugno 2023) che contiene un ricordo di Franco Rotelli, con la riproposta di un suo celebre intervento al convegno Liberarsi dalla necessità del carcere, Parma, 30 novembre 1984 e il “manifesto dell’intrapresa sociale” sul quale Franco Rotelli ha lavorato negli ultimi mesi e con il quale avrebbe voluto percorrere l’Italia alla ricerca di gruppi e operatori che in quel manifesto si riconoscessero.

    Il quotidiano “realismo”, l’intellettuale miopia vorranno indicare come utopia il percorso, già avviato, cui anche con questo convegno vogliamo dare ulteriore forza e pratica.

    Converrà rispondere con un’operatività concreta che abbiamo imparato nella lotta contro altre istituzioni totali. E tuttavia, se umanesimo volesse dire tentare di cambiare una cultura senza cambiare profondamente le istituzioni, se riformismo volesse dire cambiare le istituzioni senza modificare culture, diremmo che non ci bastano né l’uno né l’altro isolatamente.

    Occasione storica, forse l’emergenza ha innescato un dibattito sul carcere come soluzione che percepiamo ormai inaccettabile davanti a contraddizioni politiche, sociali, comportamentali, economiche e di costume. In qualche modo l’emergenza ha contribuito a soggettivare l’universo carcerario e ha suo malgrado creato le condizioni importanti perché di tutto il carcere si ricominci a parlare, forse su di esso ad agire, così come a questo spingono le proporzioni e l’enfasi dell’internamento oggi.

    Anche a noi spetterà valorizzare questa contingenza storica. Essenziale che delle voci degli internati si riempia la quotidianità del sociale. Questo popolarsi di voci può diventare motore di presa in carico dell’istituzione, dell’istituzione complessiva di cui ci interessa parlare.

    Da più parti si riconosce ormai che il carcere non si riformerà dal suo interno dietro le mura. Tanto meno potrà cambiare se dietro le mura ritornerà il silenzio.

    Da più parti ormai si riconosce che il diritto penale deve restringersi, ridursi il più possibile, che altre forme di garanzia, altri patti sociali, lo devono sostituire; e al contrario troppi giovani popolano oggi questo carcere e l’istruttoria è arrivata dovunque.

    Per interi gruppi sociali, aree del Paese, il carcere è ormai una normale-naturale tappa di esistenza, un luogo coerente a un sistema di vita, a una socialità di cui fan parte: come socialità entropica solo per un momento arricchita dal denaro dell’organizzazione criminale.

    Stato, regioni, comuni, forze “attive” nel sociale, intellettuali, operatori e tecnici non hanno mai su tali questioni fatto il loro dovere, non hanno risposto ai loro compiti istituzionali e di costituzionale origine, hanno circolarmente avvalorato la rimozione, contribuito alla mostruosità del prodotto; il primo, lo Stato, per eccesso dei poteri, gli altri per omissione, astensione, assenza.

    Dal momento in cui l’internato entra in carcere, o poco tempo dopo, non ha più importanza il suo reato né tanto meno la sua storia. Assume l’abito dell’istituzione e da quel momento l’identità del carcerato. In ordine a questa nuova identità sarà giorno per giorno visto, osservato, giudicato. Perché quel che conta è che egli sia appiattito e riconvertito in una scheggia seriale di un’istituzione normativa. A nessuno interesserà più il reato, il suo perché. A noi sì.

    Si parla poco delle vittime, quasi non se ne parla mai: le vittime dei reati. Le si usa come merce, ma ben poco le si fa parlare.

    È ben certo però che siano loro o le persone a loro vicine a voler davvero questi cinquantamila prigionieri, questi cinquecentomila anni di carcere oggi in Italia? Dovrà essere la parte più importante del nostro lavoro (di questo coordinamento) occuparsi della questione delle vittime. Se vogliamo che il valore di merce di questo carcere si riveli.

    Se capiamo che dobbiamo dire allo Stato di allontanarsi; ritirarsi molto in là, non costruire su questo il suo potere, non su questo la sua legittimità. Che di un conflitto si appropria troppo; che questa sua appropriazione non gli compete, che non c’è un bisogno vero nelle vittime che ciò accada, che questo non deve competere tanto al sistema penale ma piuttosto a locali, regionali contratti, mediazioni, soluzioni, e che altri se ne devono far carico. Che non occorre infantilizzare la società civile.

    II controllo sociale, le sue forme, possono essere altro dalle pene, terreni concreti invece di emancipazione, di ricostruzione di rapporti vivi e tesi: in cui le discipline e le indiscipline abbiano la possibilità di confronti, di scontri, anche di coazioni, ma non di rimozioni.

    L’unico ordine sociale che possa oggi esistere è un ordine sociale ricco, che riconosca allo spazio della soggettività tutta la sua concretezza. Una ridefinizione del modello sociale in cui viviamo impone di non considerare più la devianza come devianza e cominciare veramente a disfarsi di questo concetto.

    Ha senso, e quale, allora la resistenza ai cambiamenti che esiste nell’intolleranza delle culture anche di sinistra, nelle organizzazioni del movimento operaio su tutti i problemi di una devianza creata ed esorcizzata come tale?

    Se colpa e pena sono penombra del cuore, sono di ognuno e non c’entra lo Stato; ma se sono rapporti sociali, essi dovranno riassumere peso e valore, e questo non avviene nel chiuso delle istituzioni totali. Perciò diciamo: restituire una produttività alla pena come rapporto sociale, non per tornare (se mai c’è stata) all’immediatezza della risoluzione dei conflitti, ma per spostare la mediazione dall’istituzione (pena-carcere) che la monopolizza e la reifica, verso i rapporti sociali e le loro risorse, e le istituzioni locali che le sostengono.

    E occorrerà attraversare la violenza del sociale per liberare l’istituzione totale.

    Sappiamo molte cose: che esistono gruppi locali de- boli per cui il carcere si apre d’abitudine, che esistono persone socialmente forti per le quali si aprono solo ora le porte di entrata del carcere, non molte e per non molto tempo. Sappiamo che la mostruosità del carcere è figlia della collettiva rimozione, dell’opacità ed extraterritorialità, della centralità di un’amministrazione impossibile. E oggi è anche figlia di una produttività per il crimine. Sappiamo per conoscenza o per analogie con le altre to- tali istituzioni, la connaturata perversione delle regole di funzionamento.

    E perciò non è accettabile rassegnarsi all’autarchia e opacità dell’istituzione carcere, alla sua extraterritorialità: crediamo al contrario che proprio questa
    sia produttrice di ciò che si vuole combattere, che cioè solo il controllo sociale sul carcere, la sua trasparenza e la rottura della sua separatezza, siano condizione per interrompere il circolo vizioso attraverso cui il carcere, extraterritoriale, produce il suo territorio. Non è necessaria né condivisibile una politica di sicurezza fondata su tecnologie informatiche e psicologiche di isolamento e osservazione permanente: crediamo infatti che l’unica sicurezza possibile si costruisca attraverso rapporti interumani.

    Crediamo bensì a una “differenziazione”, ma intesa come moltiplicazione ricca e articolata di pratiche, opere, modificazioni profonde e soprattutto concrete verso il fuori (la decarcerizzazione), verso la ricomposizione delle questioni, verso il dentro, verso la totalità dell’istituzione carcere, il superamento delle separatezze, dei ghetti, delle compartimentazioni.

    E quindi l’altra grande parte del nostro lavoro è quel che ci è noto come carcere e territorio, come ricostruzione di un legame, e saranno gli enti, le comunità, le risorse locali i luoghi nostri: per riuscire, ancora, a tagliare la testa del re.

    Questa testa che sembra non muoia mai, non è mai tagliata per sempre, e sul carcere appunto non è mai sta- ta tagliata.

    Per tagliare la testa del re, il coordinamento invita chiunque si riconosca nel piccolo documento Liberarsi dalla necessità del carcere a farne parte attiva, a collegarsi per dare ai segni esistenti di una nuova tendenza sostanza e forza, a gestire un percorso concreto in parte già noto; ad alimentare su pena, colpa, carcere, reato, delinquenza un dibattito che trasformi l’uso attuale troppo vecchio, ma troppo presente, di queste categorie.

    La proposta concreta è che l’ente locale giunga a gestire quella parte di sua cittadinanza che si trova reclusa; ma il punto vero, il vero obiettivo, è che l’ente locale restituisca a quei cittadini quell’insieme di strutture, di servizi, di cultura, in una parola quella cittadinanza piena che in verità anche attraverso questa operazione deve essere reinventata per gli stessi non reclusi.

    Condicio sine qua non della incisività del coordinamento sarà il policentrismo dei temi ideali e delle strutture operative, e sarà la capacità di non essere sezione di nessun partito, contro tutti i narcisismi intellettuali e di parte. E a rendere operativo e continuo un progressivo mutamento di questo istituto e delle sue strutturali regole facendo perno sull’ente e le risorse locali. È un lungo percorso.

    Sono già noti i tramiti e dovremo su di essi molto la- vorare e saranno, lo sappiamo, i punti complessivi della riforma del codice di procedura penale; il grande sviluppo da dare alla cooperazione giovanile, il ruolo centrale dei comuni e delle regioni e, quindi, la territorializzazione intanto della pena, la legittimazione di una molteplicità ricca di scambi tra ogni carcere e il suo territorio, la regionalizzazione degli istituti, il riuso delle strutture mandamentali, l’assunzione da parte dei Comuni di responsabilità sulle case di semilibertà, e la centralità degli stessi in tutti gli interventi, la restrizione legislativa del diritto penale, la revisione, l’allargamento e la dotazione finanziaria operativa per la legge del 1975, l’eliminazione di servizi sociali e sanitari autarchici negli istituti di pena, l’assunzione da parte delle Regioni degli operatori non di custodia, subito, la smilitarizzazione degli agenti di custodia, la loro professionalizzazione e il graduale passaggio alle Regioni, la caduta dei principali limiti restrittivi per le alternative, l’educazione a scoprire dietro i delitti le storie, nelle scuole, nei servizi, nei giornali, nei media, l’eliminazione della carcerazione minorile, il prendersi cura (siano comunità o servizi dei tossicodipendenti fuori dal carcere), l’attivazione di ciò che è vivo e attivo nel sociale, l’applicazione integrale dell’accordo Ministero-Regione del 1981.

    Non dovremo dimenticare con i detenuti le lotte per i permessi, i pacchi, le piccole apparentemente lotte quotidiane, le garanzie, le libertà affettive, i fascicoli, i fatti quotidiani dell’universo carcerario. E saranno ancora: la cessazione definitiva degli invii insensati e ingiustificati per osservazioni e perizie negli ospedali psichiatrici giudiziari; l’inversione di tendenza sulla costruzione di carceri di massima sicurezza sotto l’etichetta di normali carceri; l’utilizzo di ogni strumento per gestire all’esterno lavoro e alternative. E occorreranno, non illudiamoci del contrario, servizi specifici, nel territorio collocati, che diano corpo alle risorse sociali.

    Spazi già praticati o praticabili di decarcerizzazione indicano la ricchezza di possibilità contenute in soluzioni alternative alla pena detentiva. Anche a noi far sì che questa prospettiva non si accompagni, come sarebbe inevitabile, all’indurimento della pena detentiva da un lato, e dall’altro alla terapeutizzazione della pena alternativa alla detenzione.

    Come è stato ed è tuttora per lo smantellamento interminabile del manicomio e per la trasformazione conseguente della cultura della follia, ci pare che anche qui bisognerà privilegiare il nucleo duro, portare alla luce il fondo del barile e fare di questo il punto di riferimento e di filtro per le proposte e le pratiche di trasformazione della pena.

    A fondare il carcere, alla fine, resta la logica di una ideologia semplice e fondamentale che divide la nozione di bene e di male, di innocenza e di colpa stabilendo tra i due poli la fisica frontiera del muro delle prigioni. A memoria per tutti.

    Non sappiamo se prevarrà un sapere della complessità che sappia superare quell’ideologia semplice, o se più semplicemente quell’ideologia resterà così, ma troverà altre forme per esistere in una società divisa e di non eguali. In ambedue queste direzioni ci muoviamo.

    (Tratto dal libro Quale psichiatria?: taccuino e lezioni, Alpha beta, Merano, 2021)

    Manifesto dell’intrapresa sociale

    5 punti per identificare intraprese sociali

    1 Sono intraprese sociali quelle imprese (organizzazioni, associazioni, collettivi, comunità) che intraprendono la costruzione delle condizioni affinché ciò che per l’ordine sociale è incompatibile e incongruo diventi compatibile e trovi spazio nel mondo.

    2 Le intraprese sociali allestiscono contesti, gruppi, progetti, nei quali intraprendere l’emancipazione e la capacitazione delle persone coinvolte, in ragione di un principio di giustizia sociale. Processi emancipativi e capacitanti sono quelli che:

    – Aumentano l’autonomia possibile, la capacità di proiettarsi nel futuro, la voglia di mettersi in gioco e il protagonismo nell’impresa. Prendendo come parametro quelli che, in vario modo incapacitati e invalidati, non ce la fanno;

    – Alimentano sistemi di opportunità relative alla sfera economica e lavorativa, all’abitare e alla qualità dell’habitat sociale, nonché alla vita affettiva, sociale, culturale e politica delle persone.

    3 Le intraprese sociali si prendono cura dei contesti in cui intervengono, rammendando le lacerazioni degli ecosistemi:

    – può trattarsi di quartieri degradati, concentrazioni di miseria, territori colpiti da disastri, campagne inquinate, campagne abbandonate;

    – i rammendi comportano attività di riparazione, riuso, ricombinazione, rivolte alle relazioni sociali e con l’ambiente non umano.

    4 Le intraprese sociali coltivano bellezza:

    – perseguono il bello, il gusto, il piacere estetico, come antidoto potente contro le miserie e brutture con cui hanno a che fare, e contro la svalorizzazione che ne consegue;

    – curando la qualità estetica dei prodotti e dei servizi, dei luoghi e delle cose, dei contesti di vita e degli ecosistemi, si potenziano i processi emancipativi e capacitanti delle persone coinvolte, con gli effetti di reputazione e di autostima, e con le energie che vengono dal piacere, dai desideri che il piacere alimenta.

    5 Le intraprese sociali si dispiegano e si reggono su alleanze tra pubblico e privato attraverso le quali i modi e le ragioni di questo intraprendere diventano condivisi.

    Il “pubblico” può essere costituito da istanze tecniche o amministrative, e in genere da autorità pubbliche non necessariamente locali, non necessariamente dedicate; a sua volta “il privato” può essere profit o non profit e assumere diverse configurazioni (cooperative, cooperative sociali – A e B –, imprese, associazioni, fondazioni, e affini). In ogni caso è importante che:

    – le alleanze coinvolgano una pluralità di soggetti;

    – i partner perseguano compromessi tra loro che siano al rialzo, che li sollecitino a cambiare per meglio intraprendere, e aprano nuove possibilità.

     

    Gli asini n. 108, maggio-giugno 2023 contiene anche un ritratto appassionato che di Franco Rotelli hanno fatto le amiche e collaboratrici Carmen Roll e Ota de Leonardis. Qui  l’indice completo: https://gliasinirivista.org/rivista/maggio-giugno-108-nuova-serie-2023/   Qui la pagina degli abbonamenti: https://gliasinirivista.org/abbonati/

    Note