La rivoluzione delle imprese recuperate. Una rete innovativa

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    Per anni abbiamo raccontato le loro storie preferendo lo spagnolo. La crisi finanziaria del 2001 aveva messo in ginocchio l’economia argentina, i fallimenti aziendali era consuetudine nelle cronache dei quotidiani. Lì iniziò a fare notizia il fenomeno delle empresas recuperadas, ovvero lavoratori che dinanzi alla chiusura della propria fabbrica occupano gli stabilimenti e ricominciano a produrre organizzandosi in cooperativa. Successivamente, in ossequio allo spirito dei tempi, ci siamo fatti guidare dalla lingua franca e nel racconto si è fatto simbolo un nuovo acronimo: WBO (Workers Buy Out). Cambia l’idioma ma non la sostanza.


    Sabato 26 maggio presso l’Unione Culturale Franco Antonicelli (via Cesare Battisti 4b, Torino) si terrà un’iniziativa dal titolo “Imprese recuperate. Una rivoluzione silenziosa”. Sarà un’occasione importante per ascoltare alcune delle testimonianze di lavoratori che vengono da imprese recuperate e di altri che intendono intraprendere questo percorso. Verranno anche presentati e discussi gli obiettivi e le sfide della neonata Rete italiana delle imprese recuperate.


    In Italia solo nel periodo successivo alla crisi finanziaria del 2008 riscopriamo il tema del recupero d’impresa. Eppure la nostra storia aveva già avuto un prologo degno di nota. Lo scenario è quello della Livorno di fine anni Settanta, uno dei protagonisti ha un nome che evoca istintivamente un ring: Alì Nannipieri. È il sindaco comunista dei labronici e quando Il Telegrafo, storico giornale della città, comunica la chiusura, appoggia prima i lavoratori nell’occupazione e poi si prodiga per salvarlo. Ci riuscirà.

    Gli autori di “Se chiudi ti compro”, un’inchiesta-viaggio nel lavoro salvato, hanno scelto lui, Alì, come uno dei padri morali delle imprese recuperate italiane. Ma non è il solo, e come in una riuscita sceneggiatura à la Peppone e Don Camillo, l’altro, di papà, è un democristiano. Si chiama Giovanni Marcora.

    La legge del recupero

    Il 27 febbraio 1985 viene approvata la legge numero 49: “Provvedimenti per il credito alla cooperazione e misure urgenti a salvaguardia dei livelli di occupazione”. È anche conosciuta come legge Marcora, anche se Giovanni Marcora ne è stato solo l’ispiratore e non l’estensore, essendo morto circa due anni prima.

    All’epoca Marcora, e forse ancora oggi, è meglio noto per essere il papà di un’altra importante legge: la 772/1972 che regola l’obiezione di coscienza e istituisce il servizio civile. La legge del 1985 pur sempre su di un obiezione di coscienza si basa, in questo caso il non rassegnarsi alla perdita del proprio lavoro.

    È grazie alle legge Marcora se da 32 anni a questa parte 370 imprese sono state recuperate dai lavoratori diventandone, collettivamente, i proprietari. 204 milioni di euro sono i soldi investiti nel tempo per più di 15000 posti di lavoro creati o salvati. Perché la legge, oltre ad aprire brecce normative per facilitare il protagonismo dei lavoratori, ha istituito un fondo d’investimento dedicato gestito da CFI (Cooperazione Finanza Impresa).

    Il recupero d’impresa sta vivendo una nuova primavera a causa della crisi economica iniziata nel 2008: dal 2012 al 2016, per citare i dati ufficiali di CFI, sono stati 76 gli interventi finanziari a favore di questo tipo di processi. L’81% è la percentuale delle realtà che sono sopravvissute dopo l’iniziale aiuto.

    Il copione consolidato, aperto a molte varianti, ha le seguenti caratteristiche: situazione di crisi irreversibile dell’impresa; attivazione della cassa integrazione; periodo di attesa di un nuovo investitore; l’assenza di quest’ultimo che obbliga a ragionare su delle alternative; a qualcuno viene in mente la possibilità di rilevare l’azienda; inizia il percorso di recupero. Tutto questo susseguirsi di atti in un clima in cui timore, euforia, rassegnazione, speranza, scetticismo sono gli ingredienti base dell’altalena emotiva dei lavoratori rimasti. I tempi di questa transizione sono tutt’altro che brevi e, non fosse per la penuria di lavoro di questi anni, molte delle esperienze nate in questo decennio non avrebbero visto la luce.

    Il neonato Collettivo di Ricerca Sociale, di cui chi vi scrive è parte in causa, ha cominciato a raccogliere alcune di queste storie di recupero. È nel cercare e ascoltare queste biografie collettive che è venuta l’idea: perché non immaginare una rete tra queste realtà?

    Connessione cercasi

    Da Roccavione, in provincia di Cuneo, non conoscevano quelli di Castelfiorentino. All’Alfa Engineering di Modena avevano giusto dato un’occhiata a un trafiletto di giornale dove si raccontava della Mancoop di Santi Cosma e Damiano in provincia di Latina. C’è chi di loro è noto per per fare cartoncini per l’imballaggio, chi progetta e produce adesivi, isolanti o software per altre imprese. Altri lavorano nell’edilizia: ristrutturano, hanno per le mani il legno, costruiscono mobili. Il panorama tipico è quello della “Terza Italia”, una costellazione di piccole e medie imprese che nella narrazione entusiasta di qualche decennio fa rappresentavano il miracolo dei distretti e delle “comunità al lavoro”.

    Il loro problema principale, il loro chiodo fisso, è salvare l’azienda. Lavorano più di prima di quando erano sotto padrone, in alcuni casi guadagnano qualcosa in meno e in tutte le situazioni hanno dovuto metterci soldi di tasca propria magari lasciando in fabbrica, come capitale iniziale, il proprio tfr.

    Le realtà italiane non si conoscono tra loro perché, spesse volte, non hanno il tempo di guardarsi intorno. Alcune sono già direttamente parti di reti, laddove c’è stato un ruolo di una centrale cooperativa (Legacoop, Confccoperative, Agi) le connessioni esistono su di un piano formale. Ma non c’è nessuno, sino ad ora, che abbia provato a riunirle tutte insieme queste esperienze che hanno condiviso un medesimo percorso, incontrato simili ostacoli e provato lo stesso alternarsi di speranza e rassegnazione.

    Per queste ragioni il Collettivo di Ricerca Sociale partorisce un’idea semplice: un sito dove raccogliere tutte le storie di queste realtà, metterle in rete tra loro e fungere da “sito bussola” per coloro che stanno vivendo situazioni di crisi e potrebbero intraprendere la strada del recupero.

    L’idea di una piattaforma per iniziare

    È da qualche mese che, nei ritagli di tempo dei loro lavori, i componenti del collettivo si sono messi a inviare e-mail e fare telefonate in tutta Italia. C’è da presentarsi, raccontare il progetto e chiedere all’impresa recuperata di aderire. Non è semplice rompere il muro di scetticismo e fermare, anche solo per qualche minuto, la quotidianità produttiva di chi ha scelto come propria missione quella di salvare il posto di lavoro. Dopo tre mesi circa le imprese che hanno aderito alla neonata Rete italiana imprese recuperate sono per ora una decina. Il contatto con le altre continua di settimana in settimana. Dallo scorso 15 maggio la piattaforma impreserecuperate.it è on line: raccoglie le prime adesioni e le schede descrittive; ha una sezione sul cosa sono e sul “come diventare impresa recuperata”; sta iniziando a raccogliere notizie, pubblicazioni e inchieste sul tema.

    Non si tratta di uno strumento che intende pestare in piedi a soggetti quali le centrali cooperative o altre realtà istituzionali, ma vuole offrire un contributo per colmare un vuoto con chiunque abbia interesse a lavorare sul tema.

    Se il tempo che trascorre tra il fallimento e il recupero è piuttosto lungo, far crescere consapevolezza, conoscenza e mostrare buone pratiche può essere un virtuoso modo per tentare di accorciare i processi. Se i casi di recupero sono spesso frutto del volontarismo o della conoscenza di un singolo (un sindacalista, l’ex proprietario, il funzionario cooperativo, ecc.), aiutare a costruire prassi consolidate può facilitare la scelta della rigenerazione.

    E poi perché non immaginare forme di mutuo aiuto tra queste imprese recuperate? Si potrebbero costituire indotti e/o distretti tra queste realtà produttive? Perché non stimolare forme di consumo critico, e alleanze produttori-consumatori, in questo senso?

    E tutto questo patrimonio del recupero di impresa e di un’educazione cooperativa perché non può essere valorizzato come prassi politica e sindacale oltre i casi singoli? Perché, in un’era di trasformazioni profonde e piattaforme web che impongono diverse organizzazioni del lavoro, queste esperienze non possono stimolare l’immaginazione di nuove forme?

    Bisogna uscire certamente dalle trappole di un racconto polarizzato ed evitare due facili scorciatoie. La prima è quella di narrare queste esperienze come eccezioni alla norma di un lavoro che non può essere organizzato se non nelle modalità consolidate. Trappola T.I.N.A. (There Is No Alternative), la potremmo chiamare. Ma c’è una seconda deriva che è quella di rivestire il mondo del recupero d’impresa di una politicizzazione e di un militantismo che non regge alla prova dei fatti. I lavoratori e le lavoratrici di queste aziende non sono dei rivoluzionari, certo alcuni/e non mancano di una profonda coscienza politica, ma se vi avvicinate alle loro storie prevale un dato di “normalità”. Sono persone che non volevano perdere il lavoro e si sono buttati in un’avventura senza sapere sin in fondo cosa avrebbe comportato.

    E qui c’è un’altra, stimolante, questione: l’educazione a una cultura cooperativa. Come si sviluppa? Per quali strade? Quanto conta il retroterra culturale? Quanto la dimensione comunitaria? Come si organizzano in queste esperienze le prassi democratiche sul luogo del lavoro?

    Non è un caso che la quasi totalità delle storie di recupero d’impresa abbiano come contesto dei piccoli paesi. Solo in luoghi dove è presente questa dimensione di solidarietà comunitaria è pensabile innestare queste pratiche?

    Sono molteplici gli interrogativi, non ultimi quelli che riguardanti l’influenza delle radicate culture sindacali sul tema e la storica diffidenza nei confronti del cooperativismo. Metteteci pure l’uso purtroppo spregiudicato della cooperazione per fini tutt’altro che nobili, e il quadro si complica ulteriormente.


    Immagine di copertina: ph. Jayphen Simpson da Unsplash

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