Cosa farò fra 5 anni? La ricerca e la condivisione

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    Se qualcuno vi domandasse: cosa farai nei prossimi cinque anni? Dove starai e chi sarai? A quale “innovazione” stai lavorando? Quale “futuro” ti stai preparando? Come reagireste voi?

    All’alba del compimento delle mie prime tre decadi queste domande sono un’ottima scusa per chiedermi quale fine ultimo avrà il mio dottorato e per risolvere le mie crisi esistenziali. Perché mi sto occupando di temi come smart city, making, sharing economy, collaborazione…?

    Il mio flusso di coscienza comincia dai luoghi, ossia, dove starai?


    Nessuno deve sapere che un segno riesce bene per caso. Per caso, e tremando: e che appena un segno si presenta, per miracolo, riuscito bene, bisogna subito proteggerlo e custodirlo come in una teca. Ma nessuno, nessuno deve accorgersene. L’autore è un povero tremante idiota. Una mezza calzetta. Vive nel caso e nel rischio, disonorato come un bambino. Ha ridotto la sua vita alla malinconia ridicola di chi vive degradato dall’impressione di qualcosa di perduto per sempre.
    Teorema, Pier Paolo Pasolini


    Mi sono invaghita delle culture nordiche e del pragmatismo, tipico delle donne scandinave, quando ho scritto la mia tesi magistrale ad Aalborg, in Danimarca. Il tema della smart city, mi ha spinto a riflettere sui sistemi complessi socio-tecnici che ci circondano, e in particolare sul rapporto tra tecnologia e città.

    Tornata in Italia, tra Piacenza e Milano, ho assistito all’emergere di un fenomeno chiamato making o manifattura digitale. Il fenomeno in sé, non è del tutto nuovo, ma il modo e le forme in cui si articola nel tessuto urbano ha una sua peculiarità. Sia per i luoghi in cui si radicalizza sia per gli attori che ne fanno parte. A differenza delle smart city, non si parla di corporazioni hi-tech e soluzioni top-down, come Cisco o IBM che si propongono come venditori di prodotti nel mercato urbano. Bensì di hacker, designer e classe creativa che per svariati motivi si reinventa e si dedica a una forma di imprenditorialità diffusa dal basso la quale prende forma nei luoghi chiamati makerspace o FabLab. Ciò è coinciso con l’inizio del mio percorso di dottorato in studi urbani.

    Quello che mi affascina tuttora è che le tematiche affrontate lascino aperte questioni politiche di agency. La relazione tra narrativa digitale, innovazione e discorso pubblico nell’arena politica urbana è il filo rosso che lega i miei interessi di ricerca e stimola la mia curiosità.

    Le infrastrutture digitali che ci circondano sono parte del palcoscenico e del retroscena, in quanto attori sociali, della nostra agency sia a livello collettivo sia a livello individuale, la quale deve fare i conti con la tecnologia digitale. Da millennial, l’ideologia, l’aspetto politico, il potere e la relazione che la tecnologia ha con il nostro corpo a la nostra vita, per dirla alla Foucault, la biopolitica, stimola la mia volontà e la mia sete di sapere e ricercare.

    Qui si apre una voragine, da cui derivano una cascata di domande: il periodo storico in cui viviamo, ossia una nuova fase del sistema e dell’ordine sociale del quale facciamo parte, di recente definito capitalismo delle piattaforme. Una serie di ordini di discorsi e di narrative in base al quale si stabilisce ciò che è vero e lo si fa accettare come tale – vis-à-vis all’ideologia californiana – e una serie di dispositivi di cui il potere si serve, traducibili nel binomio “sorvegliare ed essere sorvegliati”.

    Non è un caso, infatti, che Foucault fosse interessato al Panopticon di Jeremy Betham, illuminista britannico che progettò, insieme al fratello architetto, una prigione circolare in cui i detenuti sono sempre controllati da qualcuno, ma non vedono il loro osservatore. I social media, in qualche modo possono essere paragonati a tale forma di controllo.

    Nell’ascesa di una nuova forma del capitalismo e la sua autopoiesi, che prende forma nei dettami morali e nella dottrina politica hayekiana del neoliberismo, le scienze sociali e l’approccio critico rivestono un ruolo fondamentale. L’altra riflessione richiamata qui è: chi sarai? Ovvero, qual è il fine sociale del tuo lavoro di ricerca. Da un punto di vista strettamente analitico, il mio fine è smuovere nuove forme di sapere e mettere in discussione ciò che appare come descrittivo e normativo. Questa analisi potrebbe servire come una mappa a servizio di un pubblico più ampio, non solo accademico. Una traduzione che spesso appare difficile da mettere in atto.

    Senza peccare di velleità, vorrei che il mio sforzo e il mio lavoro di campo appaia leggibile e utile nell’interpretazione di una complessità insita nella società in cui viviamo. Se le nostre relazioni sociali vengono mercificate dalle piattaforme corporative e dai grandi attori economici globali, ad esempio Facebook, dobbiamo essere pronti a capire come proteggerci, non solo per ragioni di privacy, ma per come de-mercificare e creare reti di protezione sociale tra diverse comunità.

    Log-out sì, ma non basta! Platform cooperativism sì, ma non sono certa che si possa attuare in un sistema così profondamente afflitto dalle regole del mercato e depauperato dalla voracità della finanza che tende a classificare i paesi a seconda della loro performance economica e non solo. Tra i numerosi libri in cui mi sono imbattuta, ce ne sono due in particolare che hanno illuminato il mio percorso: “Il Cerchio” di Dave Eggers e “Noi siamo incalcolabili” di Stefano Diana, di cui riporto un breve stralcio:

    “La vita significa nuotare in aperti oceani dove la logica e la matematica non possono arrivare. Invece quelli che contano vogliono farci credere di saper misurare, calcolare, prevedere tutto. Così loro mantengono il potere, un potere spietato e brutale ma protetto da una linda facciata scientifica, mentre noi incalcolabili siamo sempre più disorientati, spaventati, persino malati, quando sulla carta la nostra condizione dovrebbe essere luminosa e piacevole come mai prima. Allora urge trovare una via d’uscita da questo illusionismo, prima che lui finisca noi.”

    Così in questo navigare sono approdata ad Amsterdam, per finire il mio dottorato. La comparazione tra Milano e Amsterdam ha qualcosa di eccitante. Hannah Arendt suggeriva di pensare ai fatti. Uno sguardo attento e critico mette in discussione i concetti, tenta di leggere la storia osservando le dinamiche e i meccanismi. Sharing economy è un concetto, un fenomeno globale penetrato nel discorso pubblico in modo trasversale e ubiquo. Esistono una pletora di nozioni per definire queste nuove pratiche digitali, sociali ed economiche, tra cui capitalismo delle piattaforme, appena menzionato.

    A quale “innovazione” stai lavorando? Quale “futuro” ti stai preparando?

    Servono nuove categorie analitiche, non necessariamente frutto del lavoro accademico, a volte confinato nelle sue torri d’avorio. Servono pratiche e narrazioni dal basso, una congiunzione tra attivismo culturale e resistenza. Una riflessione e un’analisi ad ampio respiro sulla civiltà tecnologica e digitale dei nostri tempi, che vada oltre la cronaca giornalistica. Il tempo dedicato a osservare è prezioso… Per poter avanzare conclusioni non basta solo l’immaginazione sociologica.

    Occorre serendipity, instaurare fiducia tra informatori e osservatori, spendere più tempo nella città che vuoi analizzare. Serve capire perché alcuni progetti sono falliti. Dai fallimenti si ottiene molto di più che dalle storie vincenti. Ad esempio, il progetto dello Smart Citizen Kit attuato ad Amsterdam è stato presentato come una best practice, anche se nell’interessante documentario di Dorien Zandbergen si capiscono tutti i limiti e le complicazioni nella fase di sperimentazione a acquisizione dei dati da parte dei cittadini. Il valore euristico della ricerca passa dall’osservazione, dal lavoro etnografico e poi dall’analisi di dati quantitativi e qualitativi che corroborano l’esperienza sul campo.

    Cosa farai nei prossimi cinque anni?

    Qui a Milano ho conosciuto menti e persone che mi hanno ispirato, ho osservato e partecipato a eventi. Ho descritto e interpretato. Ho analizzato e ho messo in discussione i dati raccolti. Il mio ruolo da osservatrice è cambiato in base ai legami che ho coltivato nel tempo. Le relazioni che crei con i tuoi informatori che vogliono essere considerati outsider, ovvero coloro che non appaiono nei report redatti dal comune, presenti nelle taskforce dei governi locali o nei think-tank di cui si servono i governi locali per raccontare con lo story-telling sono preziose. Le relazioni sociali costruite durante la ricerca, sono frutto di una forma di rispetto e di scambio conoscitivo. Non assomigliano a un ottimo paretiano o a un piano euclideo. Sono imprevedibili, sono onerose in termini di tempo se si vuole creare un legame stabile e duraturo.

    Perché ritieni che sia necessario ampliare il tuo progetto di ricerca? Quale necessità va a coprire?

    Credo che sia il nostro futuro in cui tutti noi siamo immersi, che si chiami capitalismo delle piattaforme o cooperativismo digitale, credo che non si possa sfuggire da ciò. Tanto vale provare a capire cosa c’è di sociale, in quanto sociologa mi pongo sempre tale domanda, nei media e nelle pratiche digitali, nelle nuove forme di collaborazione, smart e sharing.

    Questa commodificazione ci porterà a cambiare le nostre relazioni sociali e il concetto di comunità, già cambiato da tempo per altro. Lo shift tra network ideology e platform capitalism sta avvenendo sotto i nostri occhi. L’attenzione deve essere rivolta alla creazione di nuovi immaginari economici. Capire come stia avvenendo una incorporazione di settori economici differenti. Ad esempio, Airbnb che ti suggerisce di affittare la tua casa, quando stai per usare la casa di qualcun altro su Airbnb. Questa logica ha un immenso impatto nei social network: corporazioni globali che osservano economie locali a caccia di estrazione di nuovo valore.

    È necessario dunque uno sguardo critico, multidisciplinare, che decostruisca e costruisca di nuovo una scatola o una lente caleidoscopica per leggere questo processo. Non per forza di innovazione, ma di sicuro cambiamento e transizione. Dobbiamo resistere e comprendere, solo con l’impiego degli strumenti della conoscenza e del sapere si può abbattere barriere e andare oltre le ‘barricate concettuali’. Concetti come smart city, rischiano di divenire a-politici o post-politici. Come dice Erik Swyngedouw. In quanto ricercatori dobbiamo ridare i giusti toni politici e ravvivare il sociale. Non dovremmo, e lo ripeto anche a me stessa, subordinare le nostre relazioni sociali a interessi commerciali. Infine, la vita politica non può essere ridotta a un mero sviluppo tecnico degli strumenti. Sempre per riprendere Arendt, nella distinzione tra teoria e prassi (“vita activa”).

    Che Fare? Chi beneficia e chi perde in questa partita? È sempre questa la domanda. Non mi interessa sapere che fine farà la sharing economy. Mi preme andare oltre questa etichetta. Dovremmo essere certi che le innovazioni tecnologiche e gli strumenti digitali siano a servizio dei cittadini, conferendo agency ed empowerment a livello collettivo e individuale. Qui l’educazione, le infrastrutture pubbliche, in combinazione con l’idea di bene comune giocano un ruolo centrale. Il ‘critical making’, ossia insegnare ai più piccoli ‘coding’ e ai segmenti marginali della società, ha qualcosa di poetico e di speranza. Forse vorrò diffondere questo messaggio e fare ciò da grande…

    Foucault e il Panompticom, così come Hannah Arendt sono reali. Esistono nella storia e nella critica sociale. Non possiamo confidare solo sul realismo, né essere sconfortati, pessimisti e delusi dalla tecnologia. Quello che si può fare è aprire un nuovo campo e nuove tecniche. Non possiamo fissarci a decostruire lo smart sharing e il corporate. Serve la cultura e la creatività collettiva.

    Note