Felicità pubblica e disintermediazione

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    Luigino Bruni (docente di Economia politica della lumsa), curatore di un capitolo all’interno del World Happiness Report 2016, il secondo rapporto annuale che misura il grado di felicità lorda nei Paesi del pianeta, ha trovato le radici “peculiari” della nostra infelicità collettiva – l’Italia nella classifica mondiale della felicità è scesa al 50° posto (Stringa, 2016):

    «La felicità individuale è molto collegata a quella pubblica e l’Italia oggi è sempre più periferia nel contesto mondiale, c’è un incattivimento sociale nuovo dovuto a diversi fattori, tra i quali l’immigrazione, l’aumento delle diseguaglianze, il terrorismo, la sfiducia nelle istituzioni europee e sono venute meno le ideologie sulle quali si è costruito il miracolo economico: per questo è una nazione senza più un perché stare insieme […]. La crisi italiana non è mai stata una crisi solo economica, è piuttosto una crisi morale, civile e relazionale: l’impresa italiana è una specie di comunità messa a reddito, perciò svendere il patrimonio civile/industriale/immobiliare, incide sulla carne viva dei territori e delle comunità»

    Quel che resta è un mercato piuttosto promiscuo e privo contemporaneamente dei vecchi legami (del mondo cooperativo, delle banche popolari, delle imprese familiari) e dei nuovi legami (quelli regolamentati nei Paesi anglosassoni dal lobbismo, dalle attività regolatorie di autorevoli organi indipendenti, da processi decisionali trasparenti e meccanismi sanzionatori efficaci).

    Pubblichiamo un estratto da Che cos’è la disintermediazione (Carocci editore)

    Che in diversi territori i legami tra il tessuto produttivo e le comunità si siano consumati o addirittura spezzati e vadano ristabilite delle relazioni nuove, facendo i conti con i cambiamenti imposti dalla globalizzazione, è particolarmente evidente di fronte alle crisi o alle riorganizzazioni aziendali a seguito di acquisizioni da parte di multinazionali. Ogni giorno se ne contano di nuove. Solo per la Lombardia, la regione motore d’Italia, tra la fine del 2015 e il primo semestre del 2016, sono finite sul tavolo della Commissione consiliare regionale e del mise (ministero dello Sviluppo economico) i casi di Alstom-General Electric, Italcementi Heidelberg Cement, Eni-Versalis, Konig-Pewag, Alcatel- Lucent.

    I delegati sindacali e gli incaricati degli enti locali, in questi contesti, tendono a mettere in atto una rappresentazione simbolica, che usa un lessico convenzionale, fatto di parole chiave (“ricadute pesanti”, “sofferenze importanti”, “depauperamento del territorio”), che identificano le istanze dei lavoratori e i bisogni del territorio in questione.

    Le scelte dei gruppi industriali, i condizionamenti imposti dal mercato sui costi del lavoro e le politiche sovranazionali rendono, nella maggior parte dei casi, questo tipo di audizioni dei momenti di mediazione più formale che sostanziale, che si traducono in messaggi di partecipazione generica e dichiarazioni d’intenti utili per le bacheche di Facebook o Twitter. Ma, come ben sappiamo, l’attivismo virale sui social network, se può servire a guadagnare consenso, non incide sulle decisioni che oggi vengono prese sempre più spesso fuori da quelli che un tempo erano i tradizionali luoghi della mediazione e non cambia il destino né l’indotto socio economico delle comunità che un tempo erano tutt’uno con i luoghi produttivi e s’identificavano con le fabbriche e con i “padroni”.

    A insistere da tanti anni sul concetto di impresa come comunità territorializzata, iscritta nelle relazioni locali è un fine osservatore delle dinamiche tra comunità e territorio. Aldo Bonomi, sociologo e fondatore del Consorzio Aaster, è convinto che la rottura di quel legame casa-campanile-capannone, sul quale si era retto lo sviluppo di quello che lui chiama «capitalismo molecolare» italiano, porti inevitabilmente a una metamorfosi collettiva e all’individuazione di nuovi modelli piuttosto che al recupero dei corpi intermedi di stampo novecentesco (Dell’Olio, 2016c):

    A partire dal 2008, il vento gelido della crisi ha scavato profondamente nelle forme di convivenza sottostanti alle comunità operose, costrette a fare i conti con la fine improvvisa del capitalismo molecolare come forma egemone dell’organizzazione produttiva e sociale […]. È questa la fase della resilienza nella quale la prospettiva di vita uscita dal ’900 deve fare i conti con forze dirompenti che minacciano gli standard di vita acquisiti, che polarizzano la società attaccando ferocemente l’ampio bacino del ceto medio, sempre meno tutelato da un welfare state in contrazione. Se è vero che queste caratteristiche del modello italiano sono oggi poste sotto stress dalla competizione, occorre tuttavia evitare di “buttar via il bambino con l’acqua sporca e cercare invece i comprendere il modo migliore per coniugare le lunghe derive antropologiche del nostro modello con la simultaneità della globalizzazione”. Un’analisi che è anche un messaggio di speranza per il nostro Paese.

    La nostalgia per un sistema nel quale ogni forma di rappresentanza di interessi legittimi e di energia sociale veniva incanalata all’interno di corpi intermedi rigidamente organizzati (gli unici autorizzati a sedersi ai tavoli o a trasferire istanze dalle comunità alle istituzioni), ci porterebbe a guardare soltanto indietro, impedendo di scorgere, oltre l’orizzonte della crisi, segnali di trasformazione importanti. In un’ottica più complementare che antagonista e in uno scenario non tanto lontano si potrebbe infatti assistere alla contaminazione tra corpi intermedi tradizionali (riorganizzati) e “innovatori di usi”, ossia soggetti che, all’interno della grande categoria dei nuovi intermediari (o reintermediatori), si configurano come stakeholders di istanze di cambiamento sociale, economico e culturale all’interno della cornice della cosiddetta economia leggera, come vedremo tra poco. «Con nuova economia leggera ci riferiamo certamente a startup e pratiche di sharing economy, ma anche ad una varietà di espressioni che includono i nuovi artigiani digitali, “vecchie” professioni creative, imprese sociali e culturali fino ai “pubblici produttivi” della rete» (Consorzio Aaster, 2015). E, all’interno di questa categoria, vanno senz’altro inserite le fondazioni comunitarie, dei veri e propri nuovi “intermediari filantropici” con un rapporto continuativo e permanente con il territorio, e la capacità di raccogliere proposte bottom-up, favorire legami e capitalizzare e canalizzare risorse inerti.

    Diversi studiosi hanno misurato la qualità delle democrazie, richiamandosi a Tocqueville, sulla tenuta del legame tra corpi intermedi e società civile; a seconda della fluidità o densità di quei legami innervanti il corpo sociale, il paziente poteva dirsi in salute o meno.

    L’antidoto proposto da Tocqueville, ossia il «rimedio democratico», è costituito proprio da una diffusa partecipazione associativa, come ricorda Almagisti (2011, p. 51): «Le possibilità di evitare derive populistiche dipendono soprattutto dalle relazioni che si instaurano fra le istituzioni democratiche, i cittadini e i corpi intermedi, i soggetti della qualità democratica». Si tratterebbe sempre di alimentare dei corpi intermedi. Per restare dentro la metafora della buona salute torniamo ancora una volta a un virgolettato di De Rita (2014a), che sentenzia: «Se non ha processi di rappresentanza una società non funziona, né nella sua quotidiana fisiologia, né sul suo dialogo con la politica e le sue decisioni».

    Lo spazio che la Costituzione italiana riserva ai corpi intermedi e alla sussidiarietà verticale (tra enti e governo centrale) e orizzontale è ampio e ultra garantito, a partire dall’art. 2, nel quale si fa già cenno alle formazioni sociali «ove si svolge la personalità» del cittadino; per proseguire nell’art. 18 (sulla libera associazione), nell’art. 39 (dedicato all’organizzazione sindacale), nell’art. 45 (sulla funzione sociale della cooperazione), nell’art. 46 (sul diritto dei lavoratori alla collaborazione alla gestione delle imprese), nell’art. 49 (dedicato ai partiti politici e alle associazioni); sino all’art. 118 che implica la cooperazione tra enti territoriali di vario grado ma anche di cittadini (singoli o associati) a sussidio dell’intervento pubblico centrale. Gli articoli che nel Codice Civile regolamentano l’associazionismo e delineano le responsabilità di chi si assume la gestione di un’associazione (o di una fondazione) vanno dal 14 al 42.

    Nonostante i capisaldi presuppongano dunque un reciproco riconoscimento di tutti i soggetti che concorrono a perseguire l’interesse collettivo, ultimamente l’azione di rappresentanza (e di mediazione) è entrata un po’ in declino presso l’opinione pubblica per una molteplicità di cause che vanno dagli scandali che hanno coinvolto gli enti di secondo livello e i partiti (Regioni sprecone, Comuni in fallimento, Comunità montane senza montagna, Mafia Capitale), al carattere troppo corporativo delle battaglie combattute dalle associazioni professionali e di categoria, al connotato egoistico delle mobilitazioni di alcuni movimenti intorno a issues locali o particolari (sindrome nimby, “Not in My Back Yard”); sino all’autoreferenzialità delle rappresentanze sindacali, incapaci di mettersi in relazione con un mondo del lavoro in pieno cambiamento.

    Nello spazio lasciato libero da partiti sempre più “personalizzati” e centri di potere sempre più autoreferenziali si sono insediate altre forme di partecipazione (più che di rappresentanza) basate sui nuovi media. Se oggi – come cittadini – viviamo, dunque, due vite, una off line e una on line, e il vecchio modo di interpretare, di mediare e di rappresentare gli interessi legittimi è destinato a scomparire o a trasformarsi, qual è il perimetro (reale e virtuale) entro il quale si può giocare la partecipazione associativa, ma anche la rappresentanza di interessi particolari o generali? In realtà gli spazi della partecipazione associativa, pur se vanno al di fuori dei perimetri degli attuali partiti o di altri super strutturati corpi intermedi, non si trovano solo in Rete. Semmai, gli innovatori dei quali abbiamo parlato poco prima (protagonisti della nuova economia della condivisione), i nuovi comitati, le formazioni civiche fondate intorno a una causa, usano la Rete per mobilitare o per fare massa critica e opinion making. Proprio in questo senso Franco Gallo (2013), già presidente della Corte Costituzionale, suggeriva, qualche anno fa, un concetto sul quale si sono poi posizionati in molti:

    La sopravvivenza della democrazia rappresentativa rigenerata dal fattore tecnologico richiede non solo l’intangibilità della funzione parlamentare quale regolata da tutte le costituzioni dei paesi occidentali, ma anche il recupero del perduto ruolo di mediazione dei partiti. Questi […] dovrebbero modernizzarsi ed assumere struttura e funzioni diverse. Dovrebbero cioè accettare di diventare porosi e permeabili, rafforzati nella loro capacità di elaborazione politica dal contributo di associazioni, centri studi e fondazioni di origine non correntizia, aventi esclusivo fine di ricerca […]. In questo contesto, i partiti sarebbero non più gli esclusivi protagonisti della scena politica, ma soggetti che utilizzano essi stessi la Rete e concorrono con essa alla formazione dell’opinione pubblica e della cosiddetta cittadinanza digitale, senza essere sovrastati o sostituiti dal web. Così la democrazia rappresentativa parlamentare può trovare linfa ed essere integrata e migliorata, ma non soppiantata dalla democrazia digitale.

    D’altra parte, tutto questo potrà compiersi pienamente solo una volta che, pur senza “costituzionalizzare” il Web, saranno effettivamente garantiti anche nella Rete, a tutti i soggetti, gli stessi diritti di cui ogni cittadino gode fuori dalla Rete (a partire dall’uguale diritto di accesso), al netto delle caratteristiche del canale, sulla cui capacità di essere uno strumento di partecipazione più e cace di quelli tradizionali (anche quando questi sono carenti) si dibatte da tempo.

    In primis per questioni appunto di accessibilità (quanto è rappresentativo rispetto al corpo dei votanti, o al corpo sociale in generale, il campione di partecipanti a una consultazione digitale?); poi, perché la Rete favorisce la creazione di nicchie di affini che tendono a non confrontarsi con il pensiero antagonista, mentre le opinioni e i comportamenti che si formano dentro alle nicchie necessiterebbero di essere sintetizzate attraverso un processo più ampio di condivisione e comunicazione prima di cristallizzarsi in opinioni pubbliche (Stringa, 2011, p. 141) ed essere considerate massa critica e domanda di public policy da rappresentare; ultimo, ma non meno importante, perché il linguaggio e lo spazio dei social network riducono la possibilità di uno scambio dialettico articolato (come quello che può aver luogo in un circolo, in un’assemblea pubblica, in un dibattito di Commissione o di Aula, in un tavolo di trattative) configurandoli piuttosto, come suggeriva Di Vico (2016a) in “sfogatoi” per il malcontento e il rancore.

    Note