Invece la vicenda delle nomine dei venti direttori nei musei nazionali italiani, avvenuta nell’agosto del 2015, va subendo vicende complesse e colpi traversi che sembrano indebolire quel costrutto così positivo, così entusiasta espresso dal Ministro Franceschini nel volere, fortissimamente volere – e ce n’era bisogno – un nuovo cursus per la vita dei musei statali.
La notizia è di venerdi scorso: Eike Schmidt, direttore degli Uffizi, lascerà il suo incarico alla fine del mandato per insediarsi alla direzione del Kunsthistorisches Museum di Vienna, incarico che decorrerà dall’autunno 2019 e avrà durata quinquennale. Ne ha dato notizia Apollo Magazine, a valle della conferenza stampa organizzata dal museo.
La vicenda è complessa, e suscita molte domende circa una leadership che, anche non immaginata con estensione da dittatura africana, richiede tempi lunghi per sua stessa natura. Perché lunghi sono i tempi della burocrazia italiana, entrare nelle maglie della quale non è un gioco da ragazzi, in particolare per chi italiano non è.
Ma, soprattutto, perché lunghi sono i tempi della cultura, dell’educazione, della relazione con una città e un territorio (e poi: con i dipendenti del museo, dai conservatori ai guardiani, dai registrar al gestore del bookshop), della cucitura di rapporti di fiducia e di affezione, di tutto quello che un museo è, nella sua più intima essenza, al di là della mera questione gestionale.
Ma più che mai, qui, tutto si tiene: non esiste una buona bigliettazione o un bilancio positivo senza un buon progetto, senza una visione, senza un corpo-a-corpo con pubblico, anche e soprattutto in città iperturistiche, quelle in cui il flusso ininterrotto dei vistatori è un problema da gestire, non una risorsa tout-court. E poi, è appena il caso di ripeterlo, la bigliettazione soddisfacente è solo l’indicatore più superficiale del buono stato di salute di un museo.
Schmidt, classe 1968, tedesco, è risultato vincitore di un concorso cui hanno partecipato quindici candidati, di cui dieci ‘stranieri’. E proprio su questo aspetto si era concentrata la polemica, molto aspra, all’indomani della nomina dei venti direttori di musei statali voluti da Franceschini attraverso la selezione pubblicata nel 2015, di cui appunto sette stranieri (la nomina di Schmidt al posto dello stimatissimo Antonio Natali, in particolare, aveva suscitato numerose critiche).
Una controversa sentenza del TAR del maggio 2017 ha poi annullato la nomina di cinque tra loro per presunte irregolarità nei criteri di selezione e nello svolgimento dei colloqui (senza testimoni o via Skype: non bello, siamo d’accordo); il tema delle legittimità di assumere direttori non italiani è così tornato d’attualità. Anche la legittimità dell’assunzione di Schmidt – come quella di Cecile Holberg alla Galleria dell’Accademia di Firenze – è stata messa in discussione, ma né l’uno né l’altra sono stati toccati dalla sentenza.
Stefano Boeri, membro del comitato scientifico degli Uffizi, in un post ha parlato di ‘grande amarezza’, di un ‘brutto segnale’, del museo usato come un trampolino. È un giudizio molto duro. Certo è che ora, al di là della tenuta politica sul breve-medio termine, è difficile immaginare che ne sarà di quel patrimonio di innovazione e di competenza che Schmidt ha portato con sé, comprovato da iniziative intelligenti per semplificare l’acquisto dei biglietti e snellire le code fuori dal palazzo, dal riallestimento di alcune sezioni, avviato e mirabilmente sviluppato con le sale dedicate a Botticelli e alla sua cerchia, da un lavoro di radicale riorganizzazione dei ruoli e dei processi, da molte iniziative anche minute ma puntali (‘almeno una riforma, un cambiamento alla settimana, così è più difficile tornare indietro’: questo il programma del direttore, raccontato in un’intervista dello scorso aprile).
L’incarico dei direttori voluti da Franceschini, quadriennale, è rinnovabile. La decisione di Schmidt di concorrere per il posto a Vienna dopo soli due anni agli Uffizi non è, davvero, un bel segnale. Fatta salva la libertà di ciascuno di spostarsi dove ritiene di trovare le migliori condizioni, ci si chiede ora con che spirito lavoreranno i suoi collaboratori, chi e come porterà avanti le riforme avviate. Oppure si tornerà indietro, si perderanno tempo e risorse a riprendere in mano i fili di una matassa tanto fragile e complessa? Perché un museo non è un metodo. Non voglio semplificare, ma certe competenze manageriali sono transitive: possono passare da un’azienda all’altra, con i dovuti adattamenti e prese in conto di differenze e sfumature. Ma un museo, anche piccolo e periferico, è un unicum.
Come incrociare la meritocrazia con i tempi lunghi della direzione di un’istituzione culturale, perché il cambiamento messo in atto – chissà con quanta fatica – sia profondo, assimilato da tutti gli attori, comunicabile? Perché sia un’eredità, perché diventi un fattore identitario che il museo riconosce e rappresenta?
(In calce, infine: James Bradburne, direttore della Pinacoteca e della Biblioteca Braidense, molto criticato da tanti, ha preso più di una volta la sua bicicletta per venire a seguire delle proposte da noi organizzate in spazi indipendenti; eventi a cui magari partecipavano quaranta persone, ma per lui interessanti. Ha ascoltato, capito, e alla fine ringraziato e valorizzato. A proposito, dicevamo, di tessitura di rapporti minuti con la città, e del tempo che ci vuole per tessere. Non basta questo per essere un buon direttore, ma, certo, qualcosa vuol dire).