“Il motivo per cui tutto questo – la politica, ndr – ha importanza è che ci influenza nel quotidiano… ha a che fare con il modo in cui la politica può migliorare o peggiorare la nostra vita quotidiana”. Questo è Pete Buttigieg, sindaco di South Bend, candidato alle primarie democratiche per la Presidenza USA, in un’intervista del 20 Marzo 2019, per Esquire.
Quest’affermazione potrebbe essere un segnale che qualcosa di nuovo sta emergendo nella politica del Partito Democratico americano. Un nuovo senso su ciò che è importante per la politica, e che si potrebbe sintetizzare nell’espressione: everyday life matters. Occorrerebbe però capire meglio di che vita quotidiana si sta parlando. E quindi, quali siano le politiche che dovrebbero essere promosse e sostenute.
“Tutto è possibile: oggi è il giorno in cui un gruppo impegnato di newyorkesi di tutti i giorni e loro vicini hanno sconfitto l’ingordigia aziendale di Amazon, il suo sfruttamento dei lavoratori, e il potere dell’uomo più ricco del mondo.”
Questo invece è un tweet di Alexandria Ocasio-Cortez. Il suo riferimento agli ”everyday New Yorkers” e alle idee che hanno animato la loro battaglia, può essere un buon punto di partenza per rispondere alle precedenti domande.
Quello cui Ocasio-Cortez si riferisce è un caso noto: Amazon, per decidere dove costruire il suo secondo headquarter, indice una vera e propria asta pubblica tra le città nordamericane promettendo di portare nel luogo prescelto molti posti di lavoro (25.000, secondo Amazon) e chiedendo, in cambio, dei vantaggi economici. New York vince la gara con la proposta di un’area nel Queens e la promessa di sostanziosi sgravi fiscali. Il Governatore Cuomo e il Sindaco De Blasio (entrambi democratici) stipulano l’accordo e lo sostengono con entusiasmo. Ma qualcosa non va come tutti credevano. Gli abitanti del quartiere, e le organizzazioni e i politici locali, dicono che, a quelle condizioni, non si ne fa niente. Per cui Amazon, sdegnata dell’affronto che le viene fatto, ritirare il progetto.
Le condizioni inaccettabili cui qui ci si riferisce erano attinenti i consistenti vantaggi fiscali di cui si è detto, il tipo di lavoro che sarebbe arrivato, che solo in minima parte avrebbe interessato gli abitanti del quartiere, il rifiuto di Amazon di permettere al sindacato di entrare in azienda e la trasformazione del quartiere che tutto questo avrebbe comportato. E quindi l’impatto negativo sulla qualità della vita degli “everyday New Yorkers”.
La lotta che ha portato Amazon ad abbandonare l’idea di avere il suo secondo headquarter a New York è politicamente rilevante da molti punti di vista. Quello che qui vorrei discutere è lo scontro che vi è stato tra due diverse visioni della città. E quindi anche della vita quotidiana in essa.
Da un lato c‘è stata una visone tipicamente neoliberista, ben rappresentata dal Governatore Cuomo quando dice: “Amazon ha scelto di venire a New York perché siamo la capitale del mondo, nonché il luogo migliore dove fare affari. Abbiamo gareggiato, e vinto, nella competizione nazionale per lo sviluppo economico più ferocemente contestata degli Stati Uniti”. Questa rappresentazione rimanda dunque a una città vincente e competitiva, a sua volta popolata di cittadini che sono anch’essi vincenti e competitivi. Il che produce una quotidianità proposta come il luogo in cui, per questi cittadini, tutto è accessibile. Cioè tutto è accessibile per chi ne ha i mezzi. Questa visione ha però un lato nascosto che raramente viene ricordato: se ci sono città e cittadini competitivi e vincenti, significa che vi sono anche – e sono la maggioranza – città e cittadini perdenti (o che, adottando questi stessi criteri di successo, si sentono tali). Che ne è di loro? Che ne è della loro quotidianità?
Non aver posto a questa domanda, o meglio, non aver neppure riconosciuto che questa domanda potesse porsi, ha portato all’emergere di un’altra città e di un’altra quotidianità: la città i cui cittadini, non essendo o non sentendosi vincenti, si ripiegano su se stessi, carichi di un (giustificato) rancore verso tutti quelli che considerano i vincenti. Una quotidianità di solitudini connesse che, abbracciando idee simmetriche a quelle del neoliberismo dominante, si propongono di costruire forme sociali chiuse, costruite sull’ostilità a ciò che appare diverso e nuovo.
Contro tutto questo, il fronte dei cittadini e delle organizzazioni di base che ha bocciato il progetto di Amazon a New York ha proposto un’altra idea di quotidianità: “Se Amazon si fosse trasferita qui – dice Hazra Rahman, leader di una delle organizzazioni promotrici dell’iniziativa contro Amazon – ci sarebbe stato un aumento nel prezzo di qualsiasi cosa che abbiamo intorno. Al momento, tutto è alla nostra portata – gli ospedali, la spesa, il mercato, i generi alimentari.”
Qui l’espressione. “Al momento tutto è alla nostra portata” esprime in modo semplice un’altra idea di quotidiano e di città: tutto deve essere accessibile per tutti, anche per quelli con meno risorse economiche. Va notato che questa qualità urbana non è un prodotto che si può produrre e comprare sul mercato. È una condizione che emerge da una fitta e stratificata rete di relazioni resa possibile dalla prossimità degli attori coinvolti e dalla diversificazione dell’ecosistema urbano. In breve è una qualità la cui esistenza va intesa come bene comune.
Questa visione della città e della quotidianità ha contribuito a vincere un’importante battaglia politica a New York. Riconoscendone l’importanza dobbiamo però anche riconoscere che, così come fino ad ora è stata espressa, ha dei limiti. E partire da qui, dalla sua forza e dai sui limiti, per articolare una visione più ampia e propositiva.
Proporre come criterio di benessere “tutto alla portata di tutti” è certamente un passo avanti rispetto alle classiche formulazioni basate sulla disponibilità di consumi. Come anticipato, è anche un passo in direzione opposta alla mercificazione dei beni comuni operata dal neoliberismo.
Però, quella di mantenere ciò che di buono ancora c’è (e che il neoliberismo tende a distruggere) è una proposta giusta ma conservativa. Ed oggi servirebbe avere anche una proposta in positivo, che indichi non solo come opporsi al degrado degli ecosistemi socio-tecnici e naturali in cui operiamo, ma anche cosa fare per rigenerarli.
Una quotidianità rigenerativa in cui i temi tipici e specificatamente locali del quotidiano si intreccino con quelli globali, colti nella loro dimensione locale. Una quotidianità che lungi dall’essere il luogo della routine, delle scelte minime, degli interessi limitati, a cui spesso la si associa, sia uno spazio aperto a diverse e fondamentali sfide progettuali.
A mio parere, una politica che intenda prendere sul serio l’idea di riferirsi alla vita delle persone, senza cadere nella trappola di un localismo senza visone o, peggio, nella proposta reazionaria di luoghi e comunità che pretendono di riproporre un ritorno al passato, è da qui, da quest’idea di quotidianità aperta, dinamica e progettuale che dovrebbe partire.
Esiste questo tipo di quotidianità? L’innovazione sociale ci dice che sì: malgrado la forza di altri modi di essere e di fare oggi dominanti, l’idea di una quotidianità rigenerativa è praticabile. Osservando la società contemporanea nella sua contraddittoria complessità troviamo infatti diversi casi che ci dicono come potrebbe essere: persone che condividono spazi e servizi, adottando forme di abitare collaborativo. Oppure che, amando le piante, partecipano alla cura di un giardino di vicinato. O che hanno il diabete ed entrano in un gruppo di mutuo aiuto. La lista potrebbe continuare coprendo ogni area delle attività quotidiane.
In ciascuno di questi casi, le persone coinvolte hanno scelto di lasciare il ruolo tradizionale di consumatori e utenti, per diventare attori sociali, partecipi nella produzione di valori che essi riconoscono come tali. E che lo hanno fatto in modo tale da ottenere un duplice risultato: raggiungere obiettivi cui, da soli, non avrebbero mai potuto arrivare e, proprio perché la collaborazione richiede fiducia reciproca e capacità di dialogo, contribuire a rigenerare il tessuto sociale.
Non solo: molte tra queste iniziative hanno anche un positivo effetto ambientale. Per esempio: l’abitare collaborativo può ridurre il consumo di spazio, materiali ed energia; le nuove reti alimentari possono promuovere l’eco-agricoltura; i community garden possono ridefinire il ruolo del verde e della natura in città; la mobilità alternativa può ridurre la dipendenza dall’auto. E, in modo più diretto, comunità locali possono organizzarsi per gestire le energie rinnovabili, il ciclo dei rifiuti o quello dell’acqua.
Infine, queste attività spesso producono nuova occupazione: un’occupazione di qualità che, essendo distribuita sul territorio, concorre a rigenerare gli ecosistemi locali e a rendere praticabili forme di economia circolare.
In definitiva, queste esperienze ci dicono che è possibile immaginare una vita quotidiana in cui le persone, decidendo di collaborare tra loro, ottengono dei risultati che coniugano il proprio interesse personale, con quello della comunità, della società nel suo insieme e dell’ambiente. Ci dicono inoltre che, affinché tutto ciò possa accadere, è necessario che tra le persone si sviluppi un’inedita capacità progettuale. In altre parole, ci dicono che la quotidianità rigenerativa richiede una diffusa progettualità.
Chi vive una quotidianità rigenerativa sono persone capaci di progettare e di intraprendere. Ed il loro quotidiano è luogo in cui, momento per momento, essi utilizzano questa loro capacità, per fare delle scelte e articolare il loro progetto di vita.
Questo modo di vedere le cose, che ha il suo retroterra teorico nelle proposte di Amartya Sen e Martha Nussbaum, ci permette di parlare della quotidianità in termini di libertà e di progettualità: due temi che, mi pare, possono dare la forza e il respiro necessari a fare del tema della quotidianità un pilastro importante di una nuova politica.
Però, a partire da qui, c’è un secondo passo da fare: come anticipato, occorre che l’insieme dei progetti di vita di cui questa quotidianità si compone, si configuri come un processo sociale di apprendimento. Il che significa: ognuno di essi, a modo suo, deve orientarsi verso la sostenibilità. Quest’ultima affermazione, è certamente problematica: la libertà di scelta nel progettare la propria vita sembra in contrasto con la necessità di rispettare dei vincoli.
È vero: questo contrasto esiste. Però, come i casi d’innovazione sociale di cui si è parlato ci mostrano, questa tensione tra libertà (di scelta) e vincoli (per la sostenibilità) può essere superata. E anzi, può essere lo stimolo che dinamizza i processi di apprendimento e la capacità progettuale diffusa.
Ma la quotidianità rigenerativa è faticosa. Più precisamente, richiede impegno di tempo e attenzione. Un tempo e un’attenzione che sono tanto maggiori quanto più l’ambente in cui ci si trova ad agire è ostile. Dallo scontro con questa difficoltà nasce l’energia che alimenta l’innovazione sociale, di cui si è detto. Di qui emerge anche la domanda di un’innovazione tecnologica e istituzionale capaci di creare le condizioni operative più favorevoli (tali per cui questi modi di fare, e la quotidianità che ne deriva, diventino accessibili a un maggior numero di persone).
Ed è qui che, in definitiva, le attività collaborative (che potremmo chiamare le politiche del quotidiano) dovrebbero incontrare una nuova politica: una politica capace di riconoscerle, sostenerle e accompagnarle nella traiettoria verso forme più mature e sostenibili.
Una politica che crei ecosistemi tecnici, economici e normativi in cui le persone possano coltivare ed esprimere al meglio le loro capacità. Comprese quelle necessarie per contribuire al processo sociale di apprendimento di cui la nostra società ha disperato bisogno.
Immagine da YouTube
Contributo nato dalla partecipazione in qualità di relatore al seminario “ABITARE IL CAMBIAMENTO. NUOVE GEOGRAFIE. Design civico e innovazione sociale” nell’ambito del ciclo Sentieri Inediti- cambiaMENTI organizzato e promosso da Sardegna Ricerche