L’alleanza dei corpi – per come l’ho intesa io – sta all’intersezione tra riscoperta della materialità dell’incontro (da una necessaria disconnessione, dal web, a una successiva riconnessione, sociale e politica), riqualificazione dello spazio pubblico (che si fa comune, superando la dicotomia pubblico e privato) e riconoscimento del conflitto come motore delle trasformazioni, siano esse riferibili alla rivendicazione di diritti negati, alla modifica di destinazione d’uso di un edificio per farne un luogo di socialità e cooperazione o il desiderio – ambizioso e urgente – di modificare gli strumenti e i contenuti del vivere democratico.
L’alleanza – così come la descrive Judith Butler nel suo ultimo libro – va intesa come pratica utopica, come tensione costante e continuativa al miglioramento delle condizioni date.
Per entrare più a fondo dentro questo affascinante e potente argomento mi è sembrato interessante sottoporre una serie di domande a Federico Zappino (l’omonimia è solo sfiorata…), curatore e traduttore della versione italiana di “L’alleanza dei corpi”, edito da Nottetempo.
Facciamo una prima fotografia della situazione che ci circonda. Quali sono oggi i principali corpi che si alleano e perché lo fanno? C’è una peculiarità di questi “corpi che appaiono” (citando Arendt) che li differenziano rispetto a quelli apparsi nel passato?
Non sono sicuro che Judith Butler intenda stabilire una differenza tra i corpi che si prendono le strade e le piazze, oggi, e tutti quelli che se le sono prese fino a ieri, tutte le volte che si è trattato di interrompere direttamente, a livello corporeo e collettivo, le normali procedure degli organi decisionali, democratici o meno, per chiedere pane e diritti – e a volte ciò è coinciso con l’approvazione di una legge e, altre volte, con una rivoluzione.
Piuttosto, mi sembra che lei sia più interessata a comprendere che cosa spinga questi corpi, che siano quelli di oggi o quelli di ieri, a prendere parte a lotte territoriali collettive, a occupare gli spazi pubblici, a scioperare, a scendere per strada o in piazza, a manifestare contro un potere repressivo o disciplinante, a rovesciare un regime dittatoriale, o a manifestare il desiderio di rovesciare il capitalismo stesso.
Ciò che accomuna questi corpi, secondo Butler, è la percezione individuale della precarietà indotta, e prodotta in quanto tale, da specifiche modalità di organizzazione politica, economica e sociale della vita, sulla base di norme culturali che si fondano esse stesse sulla distinzione gerarchica (e sacrificale, aggiungo), tra chi è degno di vivere una buona vita e chi no e che, dunque, è maggiormente esposto alla precarietà.
Può trattarsi delle norme di genere, dalle quali prese notoriamente avvio la sua riflessione alla fine degli anni Ottanta, o delle norme razziali, come di quelle abiliste, o delle classi. Infatti, per quanto Butler si riferisca spesso, in termini necessariamente contrastivi, al neoliberismo – che senza dubbio è oggi tra i principali responsabili della massimizzazione della precarietà delle vite, ma non più di quanto lo siano già le norme di genere per una persona trans che vive a Genova, o quelle razziali per un nero che vive a Ferguson –, la mia idea è che la sua proposta teorico-politica miri innanzitutto a gettare le basi per un ripensamento radicale dell’organizzazione delle relazioni sociali, fondato sull’eguale valore delle vite, che si faccia carico della precarietà ontologica dei corpi di queste vite vulnerabili e mortali (ciò che Butler definisce precariousness) così da ridurre al minimo la precarietà derivante dalle forme sociali che questa vulnerabilità assume, che si tratti dell’abiezione, della povertà, o della diseguaglianza (ciò che definisce, invece, precarity).
Si tratta di un’utopia, per come la vedo, ma credo che questa utopia costituisca per lei, concretamente, tutto ciò per cui lottare. D’altronde, è pur vero che non riuscirei a pensare a una lotta non utopica.
“L’opposto della precarietà”, scrive Butler, “non è tanto la sicurezza, quanto la lotta per un ordine politico e sociale egualitario in cui un’interdipendenza vivibile divenga possibile.” La precarietà è intesa da Judith Butler come una condizione generale, comune, esperita come una sorte di “morte lenta, un tempo irreversibilmente compromesso, come un’ingovernabile e arbitraria esposizione alla perdita”. Di recente, Georges Didi-Huberman ha teorizzato il potenziale ricompositivo e conflittuale – di lotta – delle lacrime; eppure, non si può non osservare che oggi la precarietà sia più spesso generatrice di frustrazione, rancore, paura. Come si pone rispetto a queste due strade il pensiero di Judith Butler?
Quando conclusi la traduzione de L’alleanza dei corpi scrissi immediatamente a Butler per dirle di trovarmi pienamente concorde nel ritenere, come lei, che non sempre “là dove c’è potere c’è resistenza”, come molti invece, sono soliti affermare, citando il celebre passo de La volontà di sapere di Foucault.
Più spesso c’è frustrazione, rancore, e paura, come ben dici. E poi c’è l’angoscia, la somatizzazione di questa angoscia, la vergogna, perché non sei più autosufficiente dal punto di vista economico, e forse non lo sarai mai, l’autocolpevolizzazione, e dunque l’isolamento; e di questo, Butler rende conto senza sconti.
Ciò che mi sembra lodevole de L’alleanza dei corpi è questo rifiuto di dipingere le cose più rosee di quanto siano – e le cose, di solito, vengono dipinte più rosee da chi ha minori motivi di soffrire per la precarietà, che sia indotta dalla disoccupazione, dall’assenza di un reddito, di una casa o di una rete di sostegno.
Di contro a tali rosee prospettive, che testimoniano proprio della distribuzione e percezione differenziale della precarietà, Butler descrive la precarietà nei termini di “una morte lenta”, “un tempo irrimediabilmente compromesso”. Se le vite dei nostri corpi sono ontologicamente precarie, chi può sopravvivere e prosperare nel momento in cui le infrastrutture, materiali e immateriali, di sostegno alle vite sono esse stesse soggette a precarizzazione, o scompaiono del tutto?
La precarietà, in altre parole, uccide, e infatti Butler la descrive proprio nei termini di “genocidio” (cap. 3). Non è necessario che un genocidio segua l’arbitrio di un singolo dittatore per costituire, in ogni caso, un’esposizione sistematica alla morte precoce differenziata per gruppi (questa è, per inciso, la definizione di “razzismo” di Ruth Gilmore, alla quale Butler spesso si riferisce).
Tale esposizione può essere indotta, di fatto, da quelle che Butler definisce condizioni di “sistematica negligenza”, e ciò accade nel bel mezzo di regimi sedicenti democratici: può trattarsi del suicidio perché non sai più come campare e sei stanco di dimenarti tra tre o quattro lavori saltuari e avvilenti; può trattarsi dell’impossibilità economica di accedere a prestazioni mediche private, sullo sfondo della lenta ma inarrestabile dismissione del welfare pubblico; può trattarsi della violenza sistemica esperita da chi vive il genere in termini non conformi alla norma, da chi costituisce una minoranza razziale, da chi è povero, o disabile, in società eteronormative, razziste, classiste o abiliste, come le nostre.
Ora, Butler si chiede se tutte queste forme che la precarietà assume detengano un potenziale ricompositivo contro le condizioni politiche e socioeconomiche che producono la precarietà, e la distribuiscono differenzialmente, massimizzandola.
Ciò che mi sembra fondamentale di questo testo è che Butler esorti, con tutte le sue forze, alla comprensione della condizione condivisa di questa precarietà, e intenda questa comprensione come precondizione per la liberazione dal senso di angoscia e fallimento individuale: ciò diventa cruciale là dove denuncia, a più riprese, gli ordini discorsivi imperniati attorno all’ingiunzione morale, e ricattatoria, a divenire autosufficienti (innanzitutto dal punto di vista economico) e imprenditori di se stessi, in condizioni, quali quelle attuali, che tuttavia rendono tali dubbie aspirazioni strutturalmente impossibili.
Il problema, infatti, non è costituito dall’autosufficienza in sé – se ciò significa disporre di un reddito, garantirsi le basi materiali della sopravvivenza, autodeterminarsi sulla base dei propri desideri e bisogni – quanto dal senso di fallimento che l’ingiunzione stessa ingenera nel momento in cui rende l’obiettivo impossibile, sortendo effetti incontrollabili sulla vita psichica individuale, e dunque sulla più ampia società.
E tale senso di fallimento individuale è precisamente ciò che ostacola, secondo Butler, una lotta collettiva finalizzata all’istituzione su nuove basi – non incentrate sull’individuo, ma sull’interdipendenza – delle condizioni dell’autodeterminazione stessa.
Questo è un punto davvero importante. Detto questo, non credo, tuttavia, che ne L’alleanza dei corpi Butler riesca ancora a darsi una risposta, relativamente alla praticabilità della ricomposizione. D’altronde è una domanda oggettivamente difficile.
Per quanto mi riguarda, penso che parlare di ricomposizione abbia senso solo se siamo disposti a ritenere che ogni situazione di precarietà sia degna di attenzione, e con ciò intendo riferirmi a qualcosa di molto specifico, ossia a un’attenzione collettiva volta ad abbattere le condizioni che la producono.
Ma questo non accade affatto. Si può esperire una condizione di precarietà determinata dalla disoccupazione, dall’impossibilità di immaginare un futuro, dalla povertà, ma non sempre questa condizione viene ritenuta foriera di alleanze con quanti esperiscono una precarietà che dipende dal colore della pelle, dal modo in cui vivono il genere o la sessualità, o dall’abilità psicofisica.
E la cosa più drammatica – come Butler stessa scrive – è che raramente chi già esperisce una condizione di precarietà determinata dalla razza, dal genere o dall’abilità psicofisica può dire di non soffrirla anche per la discontinuità di reddito, per l’esclusione sociale o per la povertà.
A meno che non si pensi – come il neoliberismo induce a fare – che tutti i gay siano ricchi imprenditori, che tutte le persone trans siano stelle della tv, o che tutte le persone con disabilità motoria corrano su protesi di ultima generazione, e che dunque nessuna di queste condizioni, in fondo, sia fonte di precarietà.
A meno che non si pensi che le norme culturali attorno alle quali si organizza la produzione e la distribuzione della precarietà non abbiano alcuna ricaduta materiale.
Pertanto, nonostante le basi per una ricomposizione, e una lotta più ampia, contro la precarietà siano già tutte latenti, esse permangono in una relazione gerarchica, e dunque ben lungi da una rivoluzione desiderabile. La mia idea è che, se vogliamo parlare di ricomposizione, occorre prima sovvertire tutti i differenziali di potere che stabiliscono una gerarchia tra assi di oppressione, minando così le basi per la ricomposizione stessa.
Questi differenziali sono l’eterosessualità, la mascolinità, la bianchezza, l’abilismo e, ovviamente, la classe. Prima li facciamo detonare, poi parliamo di ricomposizione.
Sembra che il tempo che stiamo vivendo si caratterizzi per la prevalenza dei diritti individuali su quelli collettivi, sulla rivendicazione delle libertà personali piuttosto che sulla definizione di obiettivi plurali. Quanto pesa questo approccio sulla buona riuscita di alleanze generative tra gruppi diversi e sulla costruzione di un senso comune capace di aggregare e di trasformare l’esistente?
Anche questa è una domanda difficile. Senza dubbio, nulla più dell’affermazione del neoliberismo ha potuto contare sulla smobilitazione dei gruppi conflittuali, conseguita mediante il riconoscimento di diritti e libertà individuali. Ciò, tuttavia, non dovrebbe condurre allo screditamento delle lotte per le libertà individuali, specialmente perché queste lotte sono sempre state condotte da quei corpi per i quali la mera libertà individuale era, e spesso è, tutt’altro che scontata.
D’altronde, difficilmente se ti percepisci libero, lotti per la libertà, come tutt’oggi fanno le donne trans nella Turchia di Erdoğan, o i palestinesi che vivono a Hebron in condizioni di coprifuoco, o coloro che chiedono il diritto all’eutanasia, qui, in Italia. E queste lotte non sono meno degne di attenzione di quelle per il riconoscimento di un reddito incondizionato, ad esempio, benché possano a prima vista essere molto diverse.
Il punto non è stabilire se sia più promettente la lotta per i diritti individuali o quella per i diritti collettivi, e non solo perché bisognerebbe innanzitutto rispondere alla domanda: “più promettente per chi?”, quanto, piuttosto, perché si tratta di comprendere che il potenziale di ogni rivendicazione per la libertà individuale consiste proprio nella promessa trasformativa delle condizioni collettive, materiali e immateriali, che potrebbero rendere quella libertà pienamente operativa. La controrivoluzione neoliberista ha minato proprio questa relazione tra la lotta per le libertà individuali e la trasformazione sociale.
E mi sembra che invece Butler insista con decisione su questo punto. Anche perché altrimenti sosterrebbe che le lotte femministe, queer, o trans si esauriscano con l’elargizione dei diritti individuali di epoca neoliberista. Proprio da questa elargizione, al contrario, dovremmo comprendere che non può esservi nulla di promettente in un senso comune che si limita a tollerare le libertà individuali, ossia che, letteralmente, si astiene dal reprimerle o dal condannarle. Ciò per cui dovremmo lottare, piuttosto, è la realizzazione di un senso comune per cui nessuno debba sentirsi costretto a lottare per la libertà individuale. E c’è una differenza tra le due cose.
Come la mettiamo poi con la necessità – segnalata da Butler – di riconoscersi, in forme diverse, nell’idea di “We, the people” dentro uno scenario sociale, culturale e politico che pretende – dall’abuso dei selfie e dei social network, a partiti e campagne elettorali sempre più appiattite su leader – di sostituire l’io al noi? Può un orizzonte necessario di alleanza dei corpi sconfiggere l’edonismo che – a ogni livello – è stato in grado di permeare le nostre comunità?
Non mi sarei aspettato una domanda del genere: più spesso, infatti, mi sento chiedere come dovremmo intendere questi nemmeno troppo velati riferimenti di Butler al concetto di “popolo” (cap. 5, “We, the people”), in un momento in cui, a destra, il discorso populista è al suo massimo splendore, e in cui la critica di sinistra del populismo, invece, non è mai stata tanto inconsistente.
Di recente, Butler stessa ha dichiarato di auspicare una forma di populismo di sinistra, in grado di contrastare i populismi di destra, e soprattutto “di condurre a una democrazia radicale” (“Libération”, 20 gennaio 2017). E L’alleanza dei corpi, in effetti, è un libro che ho definito “populista”, a un recente seminario. Perché “populista”? Perché mira a ottenere il consenso, e dunque ad assembrare (ciò a cui potremmo riferirci con il verbo to assemble), tutti coloro che invece sono dichiaratamente esclusi, e additati come nemici da combattere, dai populismi di destra, autentica espressione del backlash delle classi medie impoverite e arrabbiate dalla crisi del neoliberismo: guarda caso, le minoranze di genere e sessuali, le minoranze razziali, quelle religiose, chi più di altri ha bisogno di strutture pubbliche sanitarie ed educative, e dunque i poveri, i precari, le persone disabili.
Ora, sembra domandarsi Butler, cosa possono fare questi corpi precari insieme? Non costituiscono essi stessi, forse, un popolo? Un popolo che smargina le sue più solide configurazioni concettuali, storiche, politiche, costituitesi lungo linee di genere, di razza, di classe, di appartenenza nazionale? Può, forse, una democrazia – ammesso che la vogliamo – fare a meno della sua parola-chiave, ossia del popolo (demos)? Ossia di un popolo da cui promana il potere (kratos), che decide come e da chi questo potere debba essere esercitato, e per quali fini? O preferiamo forse una “democrazia” in cui il potere viene fattualmente esercitato da ristrette élites, dai poteri economici e finanziari, come accade nell’odierna democrazia, svuotata di ogni contenuto sostanzialmente e materialmente democratico? E se un popolo deve inaggirabilmente costituire la fonte di legittimazione del potere, in democrazia, non vogliamo forse che esso sia radicalmente egualitario, anziché imperniato, ancora, attorno alla dicotomia inclusione/esclusione? In cui, cioè, i gruppi maggioritari stabiliscono come e quando includere quelli minoritari?
Queste sono le domande molto realiste che pone Butler, che io personalmente condivido, e che a molti sembrano forse disturbanti. Ciò non toglie che si possa ugualmente continuare ad avere ottime riserve nei riguardi del concetto di “popolo”. Lei stessa ne ha, le illustra compiutamente, e io devo ammettere di averne molte più di lei. È singolare, tuttavia, che la paura del popolo diffusa a sinistra, oggi, coincida con la tradizionale critica del “popolo” della destra neoliberale di ieri: ossia, per dirla in parole povere, con la paura che il popolo possa dissolvere l’individuo nella massa. Si pensi a Margaret Thatcher, per la quale non solo non si potesse parlare di nessun popolo, ma nemmeno di nessuna società. Non c’era nient’altro, per lei, oltre “gli uomini, le donne, e le loro famiglie”.
Chiaramente, si trattava di un modo eterosessuale e familistico – e dunque intriso dei rapporti sociali più naturalizzati e silenziati che esistano – di arginare lo spauracchio del comunismo. Peccato che quando il popolo si faceva sentire, Thatcher di solito lo reprimeva sanguinosamente, come nelle proteste contro il testatico, del 1990; dunque, il popolo esisteva eccome. E anche in quel caso era un popolo profondamente fratturato al suo interno: cosa potevano avere in comune le comunità di minatori del Galles e le piccole librerie gay di Londra, se non la sproporzionata esposizione alla precarietà che li sospingeva in mezzo alla strada – come ha cercato di mettere in scena il film Pride (2014)?
Dalla mia prospettiva, se una critica può essere mossa alla proposta di Butler per un populismo di sinistra non attiene alla difesa dell’individualismo, bensì al fatto che non c’è alcuna garanzia che gli esclusi e i precari, quelle che lei definisce “vite dispensabili”, percepiscano le reciproche precarietà come degne di eguale valore e, spesso, co-implicantesi.
Ci vengono forse in mente altri modi per abbattere la povertà che non sovvertire il privilegio di pochi ricchi attraverso una radicale redistribuzione e riappropriazione o crediamo, come i liberisti, che la ricchezza sia infinitamente espandibile? Allo stesso modo, abbattere la precarietà delle persone disabili significa sovvertire il privilegio di chi disabile non è.
Abbattere la precarietà delle persone non eterosessuali significa sovvertire il privilegio eterosessuale. Tertium non datur. Come ho detto poco fa, e purtroppo non riesco ad abbandonare questa idea, è necessario sovvertire i differenziali di potere che stabiliscono relazioni gerarchiche tra le varie forme di precarietà. Altrimenti nessun “popolo” può funzionare.
L’invocazione di un popolo, ancorché performativa, in vista di una democrazia radicale, presuppone eguaglianza radicale, e se questa eguaglianza non esiste, l’invocazione rischia semplicemente di occultare le diseguaglianze interne a quel gruppo che chiama “popolo”. Su tali aspetti, devo dire, non solo Butler non si sofferma più di tanto, ma talvolta, ne L’alleanza dei corpi, tende a romanzare.
Ad esempio, mi fa molto piacere sapere che, durante l’occupazione di Piazza Tahrir, nel 2009, Butler venne colpita dalla messa in discussione della divisione sessuale del lavoro, tra gli uomini e le donne che presero parte alla dimostrazione.
È anche importante ricordare, tuttavia, che l’equa ripartizione dei lavori di cura, ancorché fondamentale, non costituisca di per sé l’inizio e la fine della sovversione della matrice eterosessuale dei rapporti di forza di genere e sessuali, e dunque della precarietà differenzialmente esperita dalle donne e dalle soggettività non eterosessuali e non cisgenere.
Questo lo spiegava molto bene in un testo del 1997, Merely cultural, e altrove. Se lo dicesse oggi, immagino, apparirebbe forse troppo “divisiva”, come si suol dire, anziché “ricompositiva”. E questo è un altro dei motivi per i quali definisco questo libro “populista”.
Nei giorni scorsi mi è capitato di intercettare uno spot di Heineken che affronta – con un montaggio capace di coinvolgere l’osservatore – il tema della mediazione dei conflitti. Ho provato un senso di imbarazzo nel vedere come un argomento così potente possa essere “catturato” dal mercato per trasformarlo in marketing.
Avvenne anche con una nota marca di jeans nei giorni immediatamente successivi al G8 di Genova e di nuovo qualche mese fa con Coca Cola riguardo l’economia della condivisione
Il mercato sembra essere – non è una novità – più capace di interpretare fenomeni sociali emergenti, tentandone la sussunzione a proprio vantaggio. Come possiamo sfuggire al tentativo – costante e potentissimo – di messa a valore delle relazioni, delle alleanze, facendo esprimere a esse il proprio portato radicale e trasformativo?
C’è forse da dire una cosa, ed è la cosa con la quale vorrei concludere. È forse vero che il capitalismo sussume il potenziale trasformativo delle relazioni e, di conseguenza, anche delle alleanze. Occorre anche ricordare, però, che il capitalismo sussume innanzitutto ciò che esso stesso, necessariamente, produce.
In secondo luogo, è importante ricordare che a non tutto ciò che produce, il capitalismo accorda lo stesso valore e la stessa visibilità. Tutto ciò è per dire che non faccio alcuna fatica a immaginare che lo spot di una birra necessiti di mostrare che un uomo eterosessuale e una donna trans, o un uomo che si atteggia a vittima del femminismo e una femminista nera, attraverso il dialogo, pervengano a un accordo.
Il punto è che dovremmo iniziare a chiederci se questa scena sia solo sussunta, o anche, o forse innanzitutto, prodotta, dai differenziali di potere che necessariamente costituiscono il capitalismo, e poi messa sotto i riflettori, affinché possa dispiegare il suo potenziale performativo: l’idea, cioè, che un rapporto sociale di forza tra posizioni di genere asimmetriche possa essere riducibile a uno “scambio di opinioni” tra parti presentate come simmetriche, diverse ma in fondo uguali, che accedono alla scena dello scambio – o del contratto – ciascuna con i propri “pregiudizi” nei riguardi della controparte. Come se essere una donna trans o una femminista nera possa essere anche solo lontanamente equiparabile all’essere un uomo eterosessuale!
Questa riduzione, questo occultamento, o questa normalizzazione dei rapporti di forza di genere, di razza e di classe, è esattamente ciò di cui il capitalismo necessita per funzionare, come ben dimostra questo ennesimo caso, e che l’invocazione populistica all’alleanza, anche quella animata dalle migliori intenzioni trasformative ed egualitarie, rischia tuttavia di reiterare.
Ciò che infatti scrive Butler è che, “per quanto possiamo essere diversi, siamo pur sempre legati gli uni agli altri e ai processi vitali che eccedono l’umano”. Un po’ poco, direi. Ora, mi rendo conto che ciò che dice Butler sia molto, molto diverso da ciò che dice l’azienda produttrice di birra dello spot in questione, ossia che “per quanto possiamo essere diversi, beviamo pur sempre la stessa birra”.
Ciò che intendo dire, tuttavia, è che non dovrebbe esservi nulla di desiderabile, ma proprio nulla, in una lotta che, per la comprensibile istanza di “fare numero” contro un nemico di proporzioni immani (il capitalismo, le nuove destre, o il nazionalismo), finisca però per preservare quelle stesse gerarchie in assenza delle quali il suo stesso nemico non potrebbe materialmente funzionare.
E se esistesse un altro modo di risolvere la questione? Come mai nessuno spot veicola la desiderabilità del concetto di “separatismo”, anziché di quello di “alleanza”? Come mai questo spot necessita di mostrare che, alla fine, la donna trans e l’uomo etero possono, o forse devono, scoprire di avere qualcosa in comune? Come mai necessita di veicolare il messaggio per cui la femminista nera può mettere da parte le sue visioni “stereotipate” degli uomini etero bianchi, e l’uomo etero bianco può mettere tra parentesi le sue più granitiche convinzioni eteronormative binarie, stemperandole con un atteggiamento moralistico di rispetto e di tolleranza, e di astensione dal giudizio delle “scelte” altrui?
Temo di non riuscire a contenere l’entusiasmo per la rivoluzione alle porte… Nelle tante recensioni apparse finora non l’aveva detto nessuno, mi sembra, ma questo libro di Butler non si limita solo a tratteggiare una pregevole, quanto necessariamente discutibile, proposta politica dettata dall’urgenza del tempo presente.
Questo libro prende anche posizione in merito a uno specifico dibattito interno al femminismo, che è precisamente quello sul separatismo. E benché Butler, visibilmente, si schieri contro, credo anche che inaspettatamente, involontariamente, ci offra molti strumenti critici, e moltissimi motivi, per ripensarlo.