Nel gennaio 2013 il gruppo di maker italiani su Facebook era quantificabile in 791 persone connesse tra di loro con 3.655 relazioni di amicizia.
Circa 200 membri (25%) non erano connessi a nessuno e si trovavano alla periferia della comunità (indicando una disconnessione oppure che la comunità stava crescendo con nuovi membri non ancora del tutto integrati), mentre i restanti 590 (75%) formavano un nucleo centrale ben connesso tra loro.
Come si vede, «comunità» non significa necessariamente un tutto omogeneo dove tutti conoscono (e sono amici di) tutti. Ma ancora più interessante è stato investigare la struttura della comunità, individuandone i sottogruppi con un apposito algoritmo: dai risultati emerge che il gruppo dei maker italiani si era costituito dall’unione di sette gruppi preesistenti:
un gruppo di persone legato al mondo delle startup digitali e a Wired italia;
il gruppo di persone iniziale dalle cui riunioni si costituí Fabber in italia;
1) un gruppo di persone antecedente a Fabber in italia, di maker residenti o attivi tra Milano e Torino;
2) un gruppo di persone legato ad Arduino, a Fab Lab italia e alla sua successiva trasformazione in Fab Lab Torino;
3) un gruppo di persone legato al mondo della ricerca e dell’università, soprattutto a Milano;
4) un gruppo di persone legato a Vectorealism, che qui rappresenta il maggior attore nel portare membri nel gruppo;
5) un gruppo di persone legate al making e alla collaborazione digitale re- sidenti o attive a Roma;
si tratta ovviamente di una mappatura limitata a Facebook, non ad altri social media né alle interazioni esterne al mondo digitale, ma è comunque una prima mappatura utile. Cercai poi di mappare le interazioni all’interno del gruppo, ottenendo stavolta una mappa più piccola: solo una parte dei membri (21,55%) erano stati in realtà attivi recentemente, in particolare tre persone. Come si vede, dunque, «comunità» non equivale necessariamente ad un’attività omogeneamente distribuita tra tutti i membri.
Nel 2013, comunque, l’attività su Fabber in italia ebbe modo di crescere, soprattutto grazie ad Andrea Danielli che riuscì a convincere una parte del gruppo a fondare un’associazione di maker italiani, Associazione Make in Italy, il cui sito venne lanciato nel maggio 2013, ma che venne formalmente costituita nell’autunno 2013 con la forma dei fondatori a Milano presso Mio Cugino (non si tratta proprio di un Fab Lab, ma piuttosto di un’attività artigianale che si collega a Fab Lab e mondo maker). A fine dicembre 2013 si aggiunse un’altra associazione con l’obiettivo di supportare artigiani e Fab Lab: social FabLab, con dimensioni e attività molto ridotte. Ma anche i primi Fab Lab iniziavano a riunirsi e a discutere su come tessere reti e organizzarsi tra loro: un primo incontro fra alcuni dei pionieristici Fab Lab italiani si svolse a Firenze il 23 aprile 2013 durante la Mostra Internazionale dell’Artigianato.
Nel 2013 ebbe luogo anche la prima edizione della Maker Faire Rome (come edizione principale europea); il 24 maggio 2013, Neil Gershenfeld era venuto a Roma per illustrare la storia ed i concetti dei Fab Lab e le ricerche del Center for Bits and Atoms, in un evento presentato da Riccardo Luna e Massimo Banzi. In quell’occasione Neil Gershenfeld suggerì pubblicamente la creazione di una fondazione italiana per i Fab Lab italiani con la Fab Foundation come fonte di ispirazione e come partner. L’idea venne raccolta ed elaborata, e dopo i mesi necessari per lo sviluppo di una tale organizzazione, la Fondazione Make in Italy CdB venne presentata il 14 febbraio 2014 presso Toolbox Coworking / Fab Lab Torino da Carlo de Benedetti (presidente onorario), Massimo Banzi (presidente) e Riccardo Luna (vicepresidente esecutivo).
Oltre a loro, il board della fondazione include Zoe Romano, Andrea Danielli (come rappresentante dell’Associazione Make in Italy), Barbara Ghella (ideatrice e presidente dell’Interaction Design Institute Ivrea), Fernando Arias Sandoval del Fab Lab Reggio Emilia (come rappresentante dei Fab Lab italiani).
Associazione e Fondazione collaborano quindi, con modalità diverse, alla promozione non solo dei Fab Lab ma di tutti i laboratori di making e di tutti i maker del territorio italiano: dal «Made in Italy» al «Make in Italy», per promuovere un nuovo tipo di manifattura e artigianato ma al contempo con un legame con la tradizione. Sino ad ora, la Fondazione si è occupata di varie attività per promuovere e facilitare makers e laboratori in Italia: riunioni, mostre itineranti sulla sinergia tra «Made in italy» e «Make in italy», ricerche e altro ancora.
Per quasi un anno, tra 2014 e 2015, ho potuto lavorare come condirettore per la Fondazione, occupandomi soprattutto di ricerca, facilitazione della comunità e facilitazione dello sviluppo di laboratori con poche risorse. Altri condirettori sono stati Alessandro Ranellucci (che si è occupato dei rapporti con i Fab Lab e dei progetti di attuazione degli scopi statutari della Fondazione) e Alberto Luna (che si è occupato di fundraising).
Come sono connesse queste associazioni e fondazioni con i Fab Lab? Mancano ancora analisi approfondite, ma una semplice indagine sulle connessioni su Twitter (con relazioni del tipo: questo account Twitter quali altri account segue?) può dare una prima mappa approssimativa, tenendo a mente come queste connessioni siano un proxy delle interazioni nel mondo reale (ossia: un fenomeno limitato che prendiamo come indicatore di fenomeni più grandi, ben più difficili da analizzare).
In questo caso possiamo vedere come la Fondazione Make in Italy CdB ricopra il ruolo maggiore di connessione tra tutti i laboratori su Twitter (il nodo con il colore blu scuro; il valore è stato misurato con un algoritmo detto di betweenness), ma al contempo la fiducia nella rete sia distribuita maggiormente in una sezione rilevante dei laboratori (nodi dalle più grandi dimensioni sulla destra; il valore è stato misurato con un algoritmo detto di eigenvector).
Ma la particolarità del contesto italiano non risiede solo nel passaggio, in soli tre anni, da zero Fab Lab a due associazioni e una fondazione per i Fab Lab, ma anche nell’aver generato alcune tra le prime reti regionali di Fab Lab al mondo. La prima rete regionale ad apparire in Italia è stata la Rete Mak-eR in emilia-Romagna, un progetto in sviluppo sin dal 2014 e a cui ho avuto il piacere di collaborare contribuendo alla progettazione della rete e delle sue attività. La Rete Mak-eR mette in rete i laboratori di making, digital fabrication e manifattura avanzata della Regione Emilia-Romagna, per attività di making sia digitali che analogiche: con 18 laboratori, la rete include la quasi totalità delle iniziative regionali.
Nel 2015 è nata anche l’associazione Fab Lab Toscana, che comprende 4 laboratori tra quelli presenti in Toscana. Si tratta di due iniziative con dinamiche diverse: la Rete Mak-eR cerca di mettere in rete tutti i laboratori della regione mantenendone l’autonomia e trovando i punti in comune; Fab Lab Toscana cerca di costituire una sorta di «Fab Lab diffuso», ovvero un laboratorio unico con diverse sedi distribuite nella regione, tutte con lo stesso modello di business e di organizzazione. da un lato una rete tra laboratori diversi, dall’altro l’aggregazione di diverse sedi in un solo laboratorio comune (fattore che può forse spiegare le dimensioni inferiori della rete toscana).
Sono entrambi esperimenti importanti, poiché indicano due possibili tipologie di rete: quella per connessione di identità diverse e separate, e quella che integra entità diverse in una sola identità. Di fatto, i Fab Lab sono già il Center for Bits and Atoms distribuito globalmente, una emanazione del brand attraverso dinamiche dal basso e per imitazione. Al momento non c’è un’unica soluzione, e probabilmente la strategia migliore è proprio sperimentare parallelamente più soluzioni, confrontarne i risultati ed in ne applicarle dove meglio funzionino, piuttosto che inseguire un modello unico. stiamo dunque assistendo ad una sperimentazione globale dei diversi modi di gestione delle reti distribuite: del resto, la ricchezza della rete risiede appunto nella possibilità di sperimentare collettivamente una molteplicità di approcci.
Questi esperimenti, in particolare, rappresentano una tappa importante nel passaggio da una rete concepita come brand da imitare a una rete utilizzata come strumento di organizzazione. Alle iniziative che abbiamo citato si è affiancata quella della Regione Veneto, che attraverso la propria Agenda digitale ha finanziato con 2 milioni di euro una ventina di Fab Lab iniziando la costruzione di una rete regionale. Sempre nel 2015, nel Lazio, BiC Lazio (organismo partecipato dalla Regione e dedito alla promozione dell’imprenditorialità) ha aperto all’interno dei propri spazi quattro laboratori coordinati sotto il nome di FabLab Lazio nella forma di un Fab Lab diffuso.
Nello stesso anno, anche il Comune di Milano ha lanciato misure di supporto a Fab Lab e Makerspace, ma senza promuovere la costruzione di una rete cittadina (non siamo ancora alla Fab City, perciò, ma si stanno facendo i primi passi in quella direzione).
Questo percorso – ma anche tutte le iniziative che si sono susseguite – dimostra come si stiano avviando vari tentativi di lavorare all’organizzazione di reti su diverse scale, ma come ancora manchino strumenti, strategie e spesso risorse. La partecipazione dal basso è importante, ma spesso i laboratori hanno problemi a reperire le risorse e sono già impegnati a costruire le proprie infrastrutture e attività, quindi è naturale che ci sia poca partecipazione per attività più complesse. siti web, forum, liste di discussione si sono susseguiti nel corso degli anni, ma ancora mancano strumenti e pratiche stabili: il mondo del software Open source è ad esempio molto più strutturato in questo senso.
Pratiche e dinamiche legate a leggi e finanze per i Fab Lab sono ancora poco chiare: ci sono ancora dei vuoti legislativi, anche se iniziano discussioni importanti in merito alle proposte di legge sull’istituzione dei Fab Lab, come negli stati Uniti, e sebbene spesso le stesse comunità non conoscano stabili procedure pratiche per la trasparenza della propria governance.
Come organizzare laboratori diffusi e distribuiti? E ha senso parlare in questi termini, quando già i Fab Lab sono il Center for Bits and Atoms distribuito in tutto il mondo?
La partecipazione attraverso i Fab Lab potrebbe essere un nuovo modo di fare politica, se non altro nella progettazione e nella produzione – ma come? L’interesse per i Fab Lab sta crescendo anche in organizzazioni tradizionalmente esterne al mondo maker, fino ad arrivare al riduzionismo semantico che comincia a caratterizzare l’uso dell’espressione nel linguaggio del personale politico, il quale ha adottato «Fab Lab» per indicare un generico laboratorio di innovazione politica (quindi solo come una generica allusione a un momento di novità, senza nessun contenuto connesso alla realtà del fenomeno).
Quando la dimensione diventa politica, bisogna quindi anche capire se la comunità sia sana e attiva: come gestire i conflitti e facilitare la collaborazione? Abbiamo visto che analizzare le reti sociali può essere una strategia, ma ci sono limiti anche all’estrazione dei dati dalle piattaforme di discussione: piattaforme, governance delle comunità, risorse e strategie di analisi della situazione vanno coordinate e si tratta di progetti complessi.
Per poter migliorare questa situazione, attualmente mi sto dedicando proprio a questo tema, lavorando come project manager all’interno del Fab Lab Barcelona per il progetto Horizon 2020 MAKE-IT, il cui scopo è migliorare le piattaforme per Fab Lab e Makerspace (come ad esempio fablabs.io) e testarle con le comunità: ricerca, pratica, comunità e organizzazioni devono incontrarsi per poter affrontare queste sfide.
Pubblichiamo un estratto dal volume di Massimo Menichinelli Fab Lab e Maker (Quodlibet)