Nonostante l’aria di calma apparentemente piatta, sorniona come quei gatti da calendario che affollano l’ombra dei Fori, Roma è da sempre fucina di esperimenti culturali meticci. Si muove lenta ma inesorabile, oscillando fra il trash nazional-popolare e un inspiegabile infighettimento da eredi pigri e disamorati, scialacquatori di passate glorie.
In fondo è una capitale, e una capitale ha sempre qualcosa da dire. Fosse anche col suo silenzio – e non è questo il caso – direbbe comunque tanto, mettendo al centro del vuoto che ostinatamente produce l’attonita decadenza della civiltà occidentale.
Ciò detto, so bene che è Luglio, si muore di caldo, e siamo tutti stanchi. Non c’è molta voglia di massimi sistemi. A Scup, ad esempio, si è appena svolta la Festa delle Streghe, e bisogna mettere in ordine dopo i bagordi. Mentre cerchiamo di capire dove andranno posizionate le piante di lavanda che, come ogni anno, da decorazioni colorate passano ad essere elementi vivi cui trovare una sistemazione permanente, mi vengono in mente le mani al cielo e le grida della sera prima.
Quest’anno la Festa – giunta alla sua seconda, audace edizione – è stata concertata con varie realtà del quartiere. Inizialmente si sarebbe dovuta tenere in piazza ma si sa, manca sempre qualche carta, i permessi non arrivano, e poi il terrorismo, le sovrintendenze, etc.
In ogni caso, la Festa si è svolta lo stesso, al chiuso, e Scup era pieno di gente di ogni età che batteva le mani al ritmo degli stornelli intonati dalla Banda Jorona. Una signora non ce l’ha fatta e sul ritornello di Tanto pe’ canta s’è messa a piangere, “ma sai quanto tempo era che non la cantavo, pensa te, era viva la buonanima del marito mio”, e con la gamba stesa sulla panca davanti – “perché la sciatica non perdona signora mia” – continuava a sgolarsi tra le lacrime, in quel misto di ilarità e malinconia che viene volgarmente chiamato spirito popolare romano.
Tra vestitini estivi macchiati dal sugo al pomodoro delle lumache e occhi inumiditi dal nocino, forse un po’ commossi lo eravamo tutti: dal fatto che finisse l’anno con una gran festa, che iniziasse l’estate, che se stavamo a divertì, che era sera e faceva caldo ma se stava bene uguale, che cantavamo tutti insieme così, “un po’ per celia, un po’ per non morire”, tanto pe’ cantà.
La Festa delle Streghe è una festa popolare che ha vissuto ininterrottamente per secoli, mutando al mutare delle contingenze storiche. È ed è sempre stata un momento d’incontro carnevalesco e liberatorio, uno di quei lasciti che la tradizione consegna come guscio vuoto di contenuti e gonfio di simboli – le streghe, le scope, le lumache, gli stornelli e i panini con la porchetta –, una cosa che non sai bene che pensarne finché non la prendi in mano e provi a riprodurla. Da qualche anno questa tradizione era stata interrotta, e a Scup ci siamo fatti venire lo scrupolo di ripescarla dall’oblio e darle nuova vita.
Ma perché lo abbiamo fatto? Perché riprendere una tradizione popolare è importante per uno spazio sociale del XXI Secolo? Motivare una risposta facendo riferimento solo ai legami che abbiamo stretto col territorio sarebbe riduttivo, soprattutto considerando che non siamo gli unici, in città, a riproporre gli stilemi de ‘na vorta. Ne sono un esempio i ricchi cortei di Carnevale che si svolgono a Febbraio un po’ dappertutto, autogestiti e autorganizzati; le giornate al parco – o al lago, nel caso del Prenestino – promosse dalla Roma comune e comunitaria, comprensive di tutti gli elementi più folcloristici quali salsicce alla brace, musica all’aperto, spettacoli teatrali.
E questi momenti di piazza, queste occasioni festive che sbocciano come fiori ostinati nel cemento capitolino, sono spesso affiancate da altri tentativi, quotidiani e resilienti, di praticare cultura nei confini angusti della metropoli. Ma in che senso tutto ciò può essere definito popolare? Che vuol dire, come recita l’acronimo di Scup, fare cultura popolare oggi?
Non sono stata l’unica a chiederselo. Era Aprile, faceva ancora freschetto, e Scup aveva il piacere di ospitare il festival degli inchiostri ribelli Free Ink. Stretti sul piccolo palco rosso, rappresentanti di vari progetti culturali di Roma e non solo erano stati chiamati a confrontarsi sul tema delle “controculture”. Il microfono passava velocemente da una mano all’altra e al moderatore non rimaneva che seguire l’onda. Il pubblico ascoltava, stimolato e sorpreso: quando sulla locandina trovi scritto dibattito, non ti aspetti mai che i toni si scaldino per davvero.
Nell’aria aleggiavano parole come identità, autenticità, ibridazione, concetti astratti che tentavano di tracciare un quadro teorico di ciò che come spazi sociali mettiamo in campo tutti i giorni, o almeno di individuarne la vocazione comune. Sarebbe lungo riassumere qui una chiacchierata così intensa di oltre due ore, e però c’è un nodo che secondo me vale la pena trascrivere e riportare.
Il punto, diceva qualcuno, non è capire se con le nostre pratiche quotidiane o con i nostri festival autogestiti facciamo o no produzione culturale; quello, possiamo darlo per assodato. Il punto è: che tipo di cultura produciamo? Ambiamo a produrre una cultura di popolo, ma come si fa ad essere popolari se per popolare s’intende oggi una cultura di massa edonista, nichilista e spoliticizzata? Basta garantire dei prezzi accessibili e dei compensi equi? Oppure è necessario intraprendere un cammino di ricerca che ci porti non solo a ripensare il concetto di popolare in relazione alla cultura, ma soprattutto a immaginare daccapo l’intero meccanismo di produzione culturale, includendovi anche la quotidianità che fa da sfondo agli eventi. “Attingere alla vita per tornare alla vita”, ha poi concluso, prima di scusarsi perché forse non si capiva bene.
E invece chi si occupa di produrre e diffondere cultura questa tensione la capisce benissimo. Un tempo infatti nelle manifestazioni autogestite, organizzate da collettivi e strutture, si chiamavano sul palco artisti che nella loro carriera avevano dato spazio a contenuti politici, e su questa base si costruivano gli eventi – eventi accessibili, sociali, partecipati. Un sostrato e un panorama di riferimento comuni lo rendevano possibile. Ma oggi quest’approccio non basta più, e non è più popolare.
Il lessico dell’impegno politico è diventato stantio, è avvizzito. Lotta, conflitto, la stessa controcultura, non sono più parole del popolo, un popolo che s’è fatto pubblico, utente passivo di un servizio offerto. La vita, invece, cioè la vitalità generatrice tipica della tradizione popolare, è resa possibile solo da un atteggiamento attivo, dalla compartecipazione di artisti e fruitori nell’atto creativo, in un processo dove l’orizzontalità è un elemento centrale.
Quell’attingere alla vita è allora un modo per ripensare la natura del popolare in rapporto alla creazione e alla diffusione di cultura, a Roma come altrove, in tutti quei contesti che sembrano incastrati nella riproposizione coatta di modelli estranei al pubblico a cui si rivolgono e impiantati a freddo nei luoghi del consumo culturale, solo perché funzionano. Al contrario, la vitalità del popolare sta proprio nella capacità di conoscere, vivere e rispettare i luoghi del suo darsi, nel compatire una medesima condizione e condividere l’espressione che la descrive.
I contenuti artistici a cui oggi viene dato spazio in queste rassegne, dunque, non sono più di necessità immediatamente politici.
Del periodo precedente conservano soprattutto la libertà: dai legacci del tornaconto economico, ad esempio, grazie agli spazi sociali che spesso li ospitano, e dall’ansia del fallimento, in un processo di crescita che resta autonomo e sperimentale.
La vitalità artistica che ne deriva trova infine espressione nei grandi eventi culturali messi in piedi da quegli stessi spazi sociali che la nutrono ogni giorno: l’I-Fest al Nomentano, Logos al Prenestino, il Cinecittà Film Festival al Quadraro, il Free Ink e in piccolo la stessa Festa delle Streghe, solo per citarne alcuni – ce ne sono decine ed è impossibile nominarli tutti.
Si tratta di eventi in cui i mezzi di produzione della cultura sono in mano a una collettività, autogestita e autofinanziata, e rivendicano la loro centralità nel dibattito pubblico. Eventi in cui l’elemento politico non è più delegato al contenuto artistico, che spazia ovunque la vita porti la sua libera ricerca espressiva, ma risiede nella forma stessa dell’organizzazione e della produzione culturale, con una direzione comune, aperta e condivisa.
In questo processo allora non ha più senso parlare di cultura alta e cultura bassa, e non ha più senso nemmeno il termine controcultura: il mainstream ha ampiamente dimostrato di avere la capacità di impossessarsi di ogni nicchia di produzione culturale indipendente, in un processo di spoliazione continua dell’operato di attivisti e artisti emergenti.
La distinzione che ne nasce è semmai fra una cultura dall’alto e una cultura dal basso, dove, a fianco delle grandi (o piccole) manifestazioni promosse da enti, istituzioni, privati facoltosi, sta emergendo con sempre maggior forza un modello di produzione culturale in cui i meccanismi produttivi, la volontà politica e la creazione artistica sono intrecciate e interdipendenti.
Nei festival autogestiti a renderci popolo non è l’essere pubblico insieme, ma il prendere in mano l’espressione di sé e l’organizzazione stessa di quell’espressione: l’intero discorso attorno alla cultura.