Quale relazione tra istituzione e cittadinanza? Messina e le municipalità ribelli

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    C’è un nuovo modo di fare ricerca che interseca il lavoro sul campo con la presa in soggettiva tipica dell’inchiesta giornalistica ma anche della narrativa; c’è poi, a partire dalla narrativa, un modo di intrecciare fiction e non fiction capace di unire una scrittura fluida con un insieme di dati forniti dalla conoscenza diretta, dai fatti e dalla presenza sul posto. Anche da parte degli etnografi è promossa questa “incarnazione”; si pensi a Loïc Wacquant che dopo aver fatto esperienza del mondo della boxe, praticato nei sobborghi di Chicago per una decina d’anni, (e averne scritto per almeno altrettanti) invoca la reintroduzione sul campo del corpo del ricercatore [1].

    Quanto al sud, i testi di Leonardo Sciascia hanno segnato, forse ante litteram, questo genere a cavallo fra che aveva avuto fra i suoi migliori capostipiti il George Orwell di Senza un soldo a Parigi e a Londra (1933) o La strada per Wigan Pier (1937). Oggi «oggetti narrativi non-identificati» e ben riusciti sono ad esempio quelli prodotti dal collettivo Wu Ming o quelli di Alberto Prunetti, giusto per citare i più fortunati.

    Nelle scienze sociali l’inno alla funzione pubblica – la public sociology invocata da Michael Burawoy – ha portato la non fiction classica, oggettiva (il saggio scientifico) a uno spiccato soggettivismo, peraltro avvertito, cioè riflessivamente capace di cogliere l’influenza del soggetto sull’oggetto di studio e il posizionamento del ricercatore.

    Si direbbe che il legame fra non fiction che si avvicina alla fiction e fiction che va verso la non fiction sia di tipo politico. L’idea che spesso sta dietro a questa presa diretta – trasferita senza troppi “accademismi” nel testo – è di arrivare, in effetti, a un pubblico più ampio di quello universitario, discretamente informato e solitamente borghese. Però mentre partendo dalla narrativa di solito si esplora un legame coi fatti veramente accaduti ma attraverso una narrazione “creativa”, qui si tratta non tanto di ricercare una scrittura migliore quanto di distaccarsi dalla struttura formale del saggio, ricco di citazioni, dotto e per dotti (o presunti tali). Saggi meno accademici e narrativa meno finzionale si incontrano nel tentativo condiviso di dare voce a un mondo tagliato fuori, silenziato, le cui storie sono da sempre storie di scarto. Viene in mente il gesto che compie Danilo Dolci, quando in Banditi a Partinico lascia la parola, intatta, ai protagonisti della vicenda che prima aveva esplorato con i metodi della sociologia. La scienza sociale non basta, il romanzo o il racconto nemmeno, ecco che la soluzione sta nelle ibridazioni.

    Pietro Saitta svolge un lavoro di questo tipo nella sua “etnografia totale” Prendere le case (Ombre Corte, 2018). Sceglie una protagonista, la segue, se ne serve per andare alla ricerca dei fantasmi del sindacato autonomo impegnato nella lotta per la casa e nella creazione di soggettività politiche rivoluzionarie.

    Il lavoro si apre con un interrogativo: come s’intersecano tra loro due categorie centrali della produzione culturale e politica quali soggettività e autonomia?

    Lo scenario di questa agile etnografia, Messina, è sia paradigmatico dell’attuale contesto urbano del Sud Italia sia unicum politico e culturale. Da un lato, è una città in cui le politiche di austerità non hanno fatto che aggravare una situazione preesistente di crisi in termini di basso reddito, povertà diffusa, esclusione sociale, clientelismo.

    Dall’altro, Messina ha vissuto nel 2013 il sorprendente trionfo elettorale di Renato Accorinti, il carismatico sindaco con cui il movimento Cambiamo Messina dal Basso è entrato nel Comune. Tutela dell’ambiente, No Ponte, gestione partecipata del bilancio, pedonalizzazione del centro storico, beni comuni: queste le parole d’ordine di un movimento che a Messina voleva cambiare l’esistente, schiacciato dai vecchi poteri, ma ha finito inevitabilmente per doversi scontrare con dinamiche di potere, strutture e tempistiche tipiche dell’istituzione[2].

    Insomma, Cambiamo Messina dal Basso ha dovuto confrontarsi coi paradossi del movimento sociale che aspira a diventare soggetto politico. In ogni caso, la sua ricca e contraddittoria esperienza politica rientra nell’alveo di un variegato universo municipalista di “città ribelli”, Barcellona e Napoli incluse, in cui la crisi è occasione per ripensare radicalmente la democrazia attraverso una messa in discussione dei suoi meccanismi rappresentativi.

    È proprio il complesso rapporto tra istituzione e cittadinanza uno dei punti centrali illuminati dal lavoro di Saitta. Il sindacato autonomo di base per il diritto alla casa è la creazione di Crepax, determinata militante della scena politica messinese la cui ambivalente figura rispecchia forse gli irrisolti della sinistra non solo cittadina, ma anche italiana ed europea attuale, divisa tra la necessità di interpretare la crescente esclusione degli ultimi e la fretta di tradurre il disagio di questi in tattica, parola d’ordine, programma politico. La comunità cui si rivolge la sindacalista Crepax è costituita dagli abitanti delle case popolari di un quartiere della periferia sud di Messina, un (sotto)proletariato diffuso e composito – come lo definisce l’autore stesso – la cui condizione di mancanza di alloggio adeguato si accompagna a precarietà, disoccupazione, esposizione a rapporti di lavoro informali o illegali. Insomma, una vulnerabilità che pervade tutte le sfere della vita, e che Crepax vuole superare trasformando queste persone in soggettività politiche autonome.

    Gli abitanti delle case popolari, tuttavia, non agiscono necessariamente nei modi auspicati da Crepax (e dall’autore) nella conquista di una soggettività e di un’autonomia politica che in molte pagine del libro rimangono una chimera, o comunque si coniugano in modalità diverse da quelle immaginate dagli attivisti. Saitta ci racconta beffe e disgrazie di una società politica che non sarà mai società civile[3] eppure si adopera, attraverso una molteplicità di tattiche, per scovare gli interstizi attraverso cui penetrare la macchina amministrativa e riceverne un riconoscimento, un barlume di tutela.

    Nella mente dei membri di questa comunità lo Stato è sempre presente. Lo sottolinea bene Saitta: qui non abbiamo a che fare con alcuna controcultura dei margini, bensì con una vicenda in cui lo Stato è interlocutore obbligato e ricercato (p. 27). Nella città siciliana la relazione con le istituzioni è talmente forte da mostrarsi in elementi tanto strutturali quanto simbolici. In altre parole, la sistemica carenza delle istituzioni in relazione alla loro capacità di governo del territorio e di tutela della popolazione fa da specchio alla necessità simbolica da parte di chi abita in una città ribelle del sud Italia di vedersi riconosciuto come cittadino da quelle stesse istituzioni per cui non riesce a contare granché.

    Paradossalmente, ciò che gli occupanti messinesi desiderano è proprio di essere gestiti nelle forme previste dall’istituzione stessa, poiché questo significherebbe diventare visibili. Ma dal circolo vizioso dell’esclusione – e dell’anelare al riconoscimento – è difficilissimo uscire. Riecheggiano le parole di John Berger su popolo e potere:

    il popolaccio, la gente dei vicoli, i sansculottes, il lumpenproletariat, le classi basse, quelli dei bassifondi, l’underworld, la malavita. In tutte le lingue europee tradizionali non c’è una parola che non abbia connotazioni denigratorie o paternalistiche nei confronti dei poveri della città. Ecco che cos’è il potere.[4]

    “Hanno messo qui i peggiori. Poi siamo venuti noi abusivamente e ci hanno dato la residenza. Hanno creato il ghetto loro e ora ci parlano di quanto sia brutto il quartiere” (p. 94).

    Nella lettura di Prendere le case sorprende – e forse ha sorpreso anche l’autore – l’emergere di un piano solitamente taciuto dagli studi contemporanei delle società capitaliste: la magia. Gli occupanti messinesi mobilitano gradualmente, nel corso della loro pratica politica coordinata da Crepax, un sapere “dal basso” di partecipazione a un altro mondo, quello degli spiriti. Le anime affollano la mente degli occupanti, fanno scricchiolare le certezze razionaliste dei militanti ideologizzati, si insinuano nel giudizio del lettore che non può non prendere in considerazione le conseguenze materiali, sulla pratica politica raccontata, della loro evocata esistenza.

    Parte integrante delle dinamiche sociali e politiche al centro del libro, gli spiriti esercitano una pluralità di funzioni. Non solo costituiscono un orizzonte di senso metastorico in cui dissolvere e giustificare le sofferenze patite in una vita precaria, un ordine superiore in cui la negatività dell’esistenza è vinta e risolta – come Mauss e De Martino hanno intuito e dimostrato[5]; ma forniscono anche agli occupanti una legittimazione ad impegnarsi nell’attività illegale dell’occupazione e ad esercitare senza il timore di essere sgomberati un diritto alla riappropriazione degli spazi.

    Gli spiriti quindi come coscienza sociale collettiva e superiore, capaci anche di controllo e sanzione: Minchia, mi sento osservato! Non capisciu se sunnu i sbirri oppure i spirti, esclama spaventato un abitante dello stabile occupato. Interrogandosi sulle funzioni sociali e politiche delle pratiche magiche degli occupanti messinesi, Saitta raccoglie la lezione di Ernesto De Martino di rendere la magia leggibile in un dato tempo, luogo e contesto. E ci ricorda che più dell’aleatoria dicotomia magico/razionale, implicita nell’ideologia della modernità, è un altro il dualismo che ci guida nella comprensione della realtà di oppressione sociale ed economica con cui ci confrontiamo: quello tra dominanti e dominati.

    Grazie all’etnografia di Pietro Saitta possiamo allora non tanto dire qualcosa a favore, a vantaggio o in vece di questo sottoproletariato da sempre bistrattato ma possiamo conoscere glorie e fallimenti, tentativi e cadute, la realtà insomma della vita politica di più di tre quarti dell’umanità[6]. Ma alle volte tra il lettore e la coralità di queste forme-di-vita si frappone un certo protagonismo dello scrittore che nel confessare, seppur genuinamente, i suoi scazzi, noie e litigi finisce per indugiare sulla scena con la propria presenza, rischiando così di coprire la voce di coloro a cui il testo, forse, intende rivolgersi.

    “Desideravo così tanto narrare questo movimento […] quanto militare, almeno per una volta, al di fuori della mia classe. Sarebbe a dirsi fuori da quei circuiti legati al punk e all’arte di cui sono membro sin dall’adolescenza, i quali, pur con lo sguardo rivolto alla questione sociale e al territorio, finiscono prevalentemente col concentrarsi intorno a pratiche e stili controculturali, conducendo così una lotta sostanzialmente estetica tutta interna alla classe borghese di appartenenza, anziché a favore di quelle subalterne” (p. 14).

    Se al fondo di questa esigenza c’è non solo una nuova postura di scrittore ma una inedita e onesta apertura al lettore, ecco che la lezione a cui rifarsi è forse quella, ancora una volta, di John Berger che in un passo del Settimo Uomo dice che se scrive quel libro non è per parlare dei migranti o far parlare i migranti, ma per dare loro un libro:

    A volte mi capita ancora di incontrare lettori del Sud che mi parlano dell’effetto che il libro ha avuto su di loro quando è finito per la prima volta tra le loro mani in una baraccopoli di Istanbul, un porto greco, gli slum di Madrid, Damasco o Bombay. In questi diversi luoghi il libro aveva un indirizzo intimo. Non era più un trattato sociologico (o, a un primo livello, politico), bensì un piccolo libro di storie di vita, una sequenza di momenti vissuti – come quelli che si trovano in un album di foto di famiglia.


    1 L. Wacquant, 2009 Chicago fade: putting the researcher’s body back into play, in “City”, 13, 4, pp. 510-516.

    2 Palumbo, B. (2015). Movimenti sociali, politica ed eterocronia in una città siciliana. Anuac, 4(1), 8–41.

    3 Nel senso che vi attribuisce Chatterjee, P. (2006) Oltre la cittadinanza. La politica dei governati. Roma: Meltemi, p. 19.

    4 Berger, J. (2008[1984]) E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto, Mondadori, p. 111.

    5 Mauss, M. (1965) Teoria generale della magia. Torino: Einaudi; De Martino, E. (1959) Sud e magia. Milano: Feltrinelli.

    6 Chatterjee, P. (2006) Oltre la cittadinanza. La politica dei governati. Roma: Meltemi, p. 19.


    Immagine di copertina: ph. Camille Orgel da Unsplash

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