Chiudono le aie in Val d’Orcia, i nuovi proprietari si blindano nei casali trasformati in ville, sparisce un mondo che è sempre stato aperto. Scompare senza troppo clamore, ormai quasi senza voce. “Le aie erano destinate all’uso del podere, ma erano anche un appezzamento franco: le persone con animali al seguito potevano fermarsi e trovare ospitalità. Per questo la terra veniva mantenuta soda”, racconta Marco Capitoni, agricoltore e vignaiolo. “Adesso”, aggiunge, “sono diventate prati verdi, irrigati, illuminati giorno e notte, sorvegliati da telecamere e circondati da muri in finta pietra o da ringhiere”. Il suo non è il lamento fuori tempo massimo di chi guarda al passato e lo rimpiange. Semmai il contrario.
Il nuovo turismo post pandemia sembra infatti avere un rapporto distratto e, per così dire, molto rapido col territorio. Che mostra adesso evidenti segni di logoramento. Lo schema pare ricalcare quello ormai noto: i servizi per i turisti sostituiscono le attività necessarie per la vita dei residenti, e i centri abitati finiscono per trasfigurarsi in prodotti da vendere, anche favorendo la diffusione di un’immagine di sé decisamente stereotipata.
Immagine di copertina di Achim Ruhnau su Unsplash