La declinazione degli hub nella rigenerazione sociale

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    Questo contributo fa parte di una serie di approfondimenti in collaborazione con il Master U-RISE dell’Università Iuav di Venezia sul rapporto tra rigenerazione urbana e innovazione sociale. Vuole discuterne gli impatti socio-spaziali, raccontare pratiche virtuose e allo stesso tempo imparare da ciò che non ha funzionato. I docenti del Master U-Rise Marcello Balbo e Elena Ostanel (Università Iuav di Venezia), Ilda Curti e Davide Bazzini (IUR – Innovazione Urbana e Rigenerazione), Paolo Cottino (K-City Milano) e Nicoletta Tranquillo (Kilowatt Bologna) ci accompagneranno in queste settimane con le loro analisi e riflessioni. Buona lettura.


    In un’ipotetica galleria di parole chiave che cercano di catturare le trasformazioni attuali e insieme di cogliere segnali di futuro “hub” potrebbe occupare un posto di rilievo. Rimanda infatti a elementi di natura infrastrutturale e funzionale che nel corso del tempo si sono notevolmente dilatati grazie a innovazioni tecnologiche ma soprattutto sociali. L’uso corrente del termine fa così riferimento a un numero crescente e sempre più differenziato di iniziative e strutture non solo materiali e analogiche. Hub è una particolare tipologia di stazione e di aeroporto, ma può essere anche utilizzato per riferirsi a uno spazio di coworking, a un’impresa di comunità, a una social street, a una community online, ecc.

    Da dove deriva quindi il successo di questo termine, peraltro sempre più in voga anche tra i non addetti ai lavori? E quali apprendimenti derivano dal fatto di essere declinato secondo modalità diverse per quelle infrastrutture, come le stazioni ferroviarie, che ne definiscono i caratteri in senso stretto? Rispondere a queste domande non rappresenta un puro esercizio concettuale volto a ridefinire il campo semantico, ma anche il tentativo di comprendere se questo tipo di connotazione – cioè svolgere una funzione di “perno” rispetto ad attività diverse – rappresenta l’elemento base per identificare una nuova classe di infrastrutture sociali che merita di essere non solo mappata, ma dotata di risorse e di adeguati modelli di organizzazione e governance che ne valorizzino l’impostazione distintiva.

    Le indagini compiute in questi ultimi anni sulla rigenerazione di strutture immobiliari ferroviarie da destinare a finalità di interesse generale – dagli help center che assistono persone vulnerabili nelle grandi stazioni alle più piccole e puntiformi stazioni impresenziate assegnate in gestione a soggetti di terzo settore – forniscono alcuni interessanti riscontri a riguardo.

    Elementi di innovazione sociale ormai maturi che, nel loro insieme, contribuiscono a mutare non solo la funzione d’uso degli spazi, ma connotati politico culturali più profondi che rimandano a nuove modalità di promozione e gestione dell’azione collettiva dal basso, ridefinendo così il perimetro operativo e le forme organizzative della società civile. In questo senso è proprio intorno alla declinazione dell’hub come funzione e in parte anche come ruolo che si gioca un’importante partita di rigenerazione sociale ai livelli indicati nei punti seguenti.

    • Un primo livello riguarda la diffusione di schemi di community building che non si limitano, come nel passato, ad operare sul deposito relazionale accumulato nel corso del tempo grazie alla presenza di modelli d’interazione sociale routinari che avvengono all’interno di un contesto spazialmente definito. Si tratta piuttosto di comunità artificiali che intercettano intenzionalmente flussi socioeconomici solitamente rappresentati come “sradicati” eppure, o forse proprio per questo, alla ricerca di luoghi che ne densifichino le relazioni per alimentare pratiche cooperative.
    • Un secondo livello di declinazione dell’hub in senso funzionale riguarda la presenza di strutture e competenze di supporto che agiscono non solo attraverso l’erogazione di prestazioni “a sportello”, ma soprattutto agendo in modo diffuso la leva della coprogettazione in particolare nei confronti di coloro che, a vario titolo, beneficiano direttamente e indirettamente della presenza di questa particolare infrastruttura. Gli hub in questo senso rappresentano luoghi di codesign di soluzioni a problemi e sfide riconosciute, in modo fattuale e non per effetto di norme ed indicazioni top down, come di interesse collettivo.
    • Terzo livello di operatività e di analisi delle strutture sociali organizzate come hub riguarda il loro modello di economia. Un business model caratterizzato non tanto dalla presenza di elementi “core” specialistici ed esclusivi ma anche dalla presenza di una catena inclusiva di esternalità ed indotto che viene promossa intenzionalmente e i cui risultati si possono cogliere misurando non tanto le perfomance dei singoli soggetti abilitati, ma piuttosto l’impatto complessivamente generato dall’hub in termini di capacità trasformativa dei comportamenti sociali, delle economie non ultimo, degli schemi e dei riti del policy making.

    Infine un ulteriore livello consiste nella capacità da parte degli hub di intermediare apporti e risorse che si sviluppano non solo nella loro cerchia di relazioni più prossima, ma in un più ampio contesto di riferimento. L’aumento della capacità connettiva si misura in questo caso non solo in termini di numero di contatti, ma soprattutto guardando alla capacità di diversificarli e di sviluppare relazioni biunivoche che sanno ibridare modelli gestionali, competenze e, più in generale approcci e visioni.

    In sintesi rigenerare infrastrutture come hub richiama una ulteriore qualità che, come ricorda Ezio Manzini, è quella dell’”iper”, intesa come capacità di andare oltre le condizioni normali in termini di radicamento (iperlocale) e di creazione di legame (iperconnesso). Un mutamento di stato che, in effetti, non è inquadrabile né all’interno di strategie e azioni di responsabilità sociale d’impresa, né all’interno dell’offerta di beni pubblici che sottostanno al governo della pubblica amministrazione, ma piuttosto in un contesto, esso stesso rigenerato, di new commons. Gli approcci più recenti ai beni comuni evidenziano infatti una natura “infrastrutturante”, capace cioè di rispondere a una pluralità di interessi che non necessariamente si inquadrano in senso ortodosso all’interno di questa impostazione, ma che riconoscono comunque la necessità di creare una quota parte di valore che merita di essere condiviso. Un asset immobiliare rigenerato come hub nel campo dei beni comuni rappresenta una chiara esemplificazione di questo modello. La sua funzionalità ed efficacia consiste infatti nel saper mobilitare e ricombinare risorse diverse che alimentano una pluralità d’iniziative che possono essere relativamente autonome e diversificate in termini di contenuti, modalità gestionali e modelli economici. Ma questo stesso variegato insieme riconosce nell’immobile una infrastruttura che è “comune” non solo in termini strumentali (cioè come sede di un centro servizi o di un’agenzia di supporto), ma soprattutto come base culturale che si alimenta grazie a scambi di natura collaborativa che generano progettualità, risorse e, non da ultimo, una missione di autentico “interesse collettivo”.

    Le strutture ferroviarie che in questi anni sono state rigenerate come hub comunitari rappresentano quindi ben più di una sperimentazione sociale, sia in termini realizzativi (numero di iniziative e di attività svolte) che di conoscenza in merito ai modelli gestionali e organizzativi. Occupano ormai una posizione di rilievo all’interno di un più ampio cluster di infrastrutture sociali frutto di processi di rigenerazione sociale che si distingue non solo per le caratteristiche costruttive o per la natura delle funzioni e delle attività svolte, ma anche per la presenza di risorse intangibili che, in linea di massima, possono essere ricondotte a comunità costituite intorno a una “impalcatura” che è adattabile a una pluralità di forme d’uso e a un “allestimento” orientato a produrre valore e significati condivisi. Un settore rispetto al quale sembra necessario agire in due direzioni di policy al fine di consolidarlo e di aumentarne l’impatto. In primo luogo occorre migliorare la qualità dell’ecosistema di servizi a supporto sia in fase di identificazione delle esperienze di rigenerazione sociale (scouting), sia in sede di definizione dei modelli di crescita e di replicabilità (scaling) di queste stesse iniziative. In secondo luogo è parimenti necessario rafforzare la dotazione di un mix di risorse donative e finanziarie con finalità d’investimento “venture”, cioè orientato non solo alla copertura dei costi e delle spese ordinarie, ma piuttosto al finanziamento di business model strettamente legati a progetti di innovazione sociale con intenti trasformativi. Un ecosistema così articolato può gestire su larga scala processi di rigenerazione attraverso attività come le seguenti:

    • due diligence su strutture immobiliari per valutarne non solo le caratteristiche di natura infrastrutturale, ma anche il potenziale di rigenerazione sociale guardando a variabili di contesto;
    • modelli di business coerenti con le caratteristiche degli hub comunitari, in particolare rispetto alla capacità di catturare economie ulteriori (effetti spillover) e di annidare le produzioni all’interno di mercati più ampi che ne riconoscono il “valore aggiunto” (nested market);
    • azioni di capacity building orientate alla coprogettazione e cogestione dei cantieri di rigenerazione sociale;
    • strumenti di affidamento degli asset immobiliari in grado di valorizzare la natura ibrida di questi spazi guardando alle caratteristiche dei gestori (anche soggetti informali), alle attività svolte (trasversali a diversi settori) e alle risorse generate (sia di mercato che donative).

    Bibliografia

    Battistoni, F., Zandonai, F. (2017), “La rigenerazione nel dominio dei commons. Gestione e governo dei community asset ferroviari, in Territorio, n. 83, pp. 121-127.

    Calvaresi, C., Lazzarino, E. (2018), “Caratteri, attori e politiche dei community hub. Un dialogo con i protagonisti”, in Territorio, n. 84, pp. 87-92.

    Manzini, E. (2018), Politiche del quotidiano. Progetti di vita che cambiano il mondo, cheFare / Edizioni di comunità

    Questo contributo è stato pubblicato nel rapporto Onds 2017 – Osservatorio nazionale sul disagio e la solidarietà nelle stazioni italiane. Per maggiori informazioni www.onds.it


    Immagine di copertina: ph. Ian Deng da Unsplash

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