Camminando per New Orleans. Antropologia della shotgun house

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    Pochi giorni prima dell’arrivo di Katrina stavo camminando per le strade di New Orleans. Ero nel Garden District e giravo senza meta scattando decine di fotografie alle case. Non ricordo perché lo facessi, era pomeriggio, ero solo, attraversavo un quartiere sconosciuto. Forse raccoglievo immagini per addomesticare qualcosa. Forse dietro a quelle finestre c’erano mondi vicari che provavo ad abitare, volevo tenerli, portarli con me. Appena un mese dopo molte di quelle strutture di legno, ferro, mattoni erano sfigurate o scomparse. C’erano le foto, i documenti catastali, i ricordi della gente. C’erano edifici più o meno malconci, ma le case non c’erano più. Perché le case sono in noi come noi siamo in loro, dice Bachelard, e quelle di New Orleans avevano smesso di abitare la gente.

    Il posto dove alloggiavo era una double shotgun house. Le shotgun houses, architettonicamente parlando, sono di una banalità disarmante. Prendete un modulo cubico di 3,5 m di lato, allineate tre cubi in orizzontale e, come i blocchi di legno con le lettere colorate, otterrete l’ABC dell’abitare: living room, bedroom e kitchen, cioè zona di lavoro, giaciglio e focolare nella capanna acheuleana di Terra Amata a Nizza (secondo gli archeologi la più antica dimora costruita da Homo intorno a 400.000 anni fa).

    La particolarità della shotgun house è che la facciata principale è sul lato stretto del parallelepipedo, mentre le porte che separano le tre stanze, così come la porta d’ingresso e quella sul retro, sono disposte su un solo asse.

    L’accorgimento, prima dell’arrivo dei condizionatori, serviva ad assicurare una corrente d’aria lungo tutta la casa, la cosiddetta breezeway. A volte questa “via del vento” veniva spezzata ridistribuendo le porte su assi diversi: era per impedire agli spiriti di circolare liberamente. Nel compromesso tra caldo tropicale della Louisiana e vecchie credenze voodoo, il corridoio-non-corridoio delle shotgun houses è un elemento paradigmatico, l’immagine-ombra di una negoziazione storica, sociale, psicologica e identitaria che etnologi e storici dell’architettura hanno cercato di illuminare senza riuscirci completamente. […]

    Il primo passo è ragionare con i piedi. Parlando della shotgun house ho menzionato un modulo cubico di 3,5 m di lato. Si tratta di una traduzione arbitraria dal sistema di misura americano a quello decimale, una razionalizzazione a basso costo, e un errore: 3,5 m non è 12’ (un piede = 30,48 cm). Ma l’errore è anche un indizio: il punto non è che 3,5 m ×3 (stanze) e 12’×3 significa 97,28 cm in meno (Europa) o in più (America), o che “pollici” e “piedi” sono sopravvivenze del corpo simbolico dell’uomo che usa se stesso come misura del mondo; il punto è che quel metro circa, in cui l’architetto e il bricoleur potrebbero fare meraviglie, è anzitutto una differenza, e solo la differenza è portatrice d’informazione.

    Il nocciolo della questione è tutto qui: che si tratti di confronto tra modelli, tra oggetti o tra modelli e oggetti, quello che va cercato è il lembo di pasta che fuoriesce dallo stampo, quello che in genere viene tagliato via. Clyde Kluckhohn sosteneva che l’antropologia è una “scienza dei rimasugli”, perché l’antropologo si trova spesso di fronte ad avanzi di culture, a residui tardivi lacunosi incoerenti.

    Forse si può andare più in là e anziché brigare per legittimare una disciplina che si traveste da scienza esatta, bisognerebbe lavorare per un’indisciplina autotrasparente, basata su un’epistemologia dello scrap, del cenno, dell’intermittenza. […]

    La storia, le teorie, i modelli consolidati sono sempre accompagnati da zone di transito in cui un sapere mette alla prova se stesso, o dove il formalismo scientista, il nazionalismo disciplinare e le logiche di un’accademia che si sente storicamente ed epistemologicamente minacciata vivono una condizione di perenne schizofrenia: da un lato un piccolo potere parcellizzato difeso da canoni di adesione stabiliti ad personam (“chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori”) dall’altro proclami vocazionali e autocelebrativi ripetuti come jingle pubblicitari (“bisogna abbattere gli steccati”). Ma appunto i fratelli Ceaser vivono sotto lo stesso tetto, e pare che smettano di brontolare l’uno contro l’altro solo quando si siedono nel portico: le sedie a dondolo cominciano a cigolare, il “vecchio” accende la pipa di gesso, il “giovane” quella di pannocchia, mentre per strada passa la vita, su cui più tardi continueranno a litigare non appena rientrati in casa. […]

    Proprio negli anni in cui la casa dei fratelli Ceaser era abitata dai suoi primi inquilini, esattamente nel 1936, Fred B. Kniffen pubblicò un articolo considerato di riferimento, Louisiana House Types. Sulla scorta della scuola etnografi- ca di Franz Boas, lo studio indagava essenzialmente la diffusione spaziale del modello tipologico, osservando la sua stretta connessione con le vie d’acqua della Louisiana ma senza azzardare un’interpretazione genetica. Vent’anni dopo William B. Knipmeyer provò a colmare la lacuna con Settlement Succession in Eastern French Louisiana, del 1956, dove riconosceva nella shotgun house una sorta di missing link tra la hut dei nativi americani e il moderno bungalow. La tesi di un’origine autoctona recente (si è proposta la data del 1880 quando il legno da costruzioni trovò una più stabile ed economica distribuzione sul mercato statale) venne sostenuta da ricercatori come John Burkhardt Rehder e Yvonne Phillips, che rafforzarono l’ipotesi regionalista e rurale facendo del modello abitativo una peculiarità legata alle caratteristiche geografiche, ecologiche ed economiche della Louisiana del Sud.

    Bisogna attendere un altro ventennio per una drastica rilettura: nel marzo 1975 John Michael Vlach discusse all’Università dell’Indiana una dissertazione intitolata Sources of the Shotgun House. African and Caribbean Antecedents for Afro-American Architecture, che nel 1976 diventò il fondamentale articolo The Shotgun House. An African Architectural Legacy.

    Vlach fu stimolato dall’ipotesi del geografo Milton B. Newton Jr., che sosteneva un’origine “antica” della shotgun house, e dalle osservazioni di alcuni storici dell’architettura locali che documentavano la presenza in ambito urbano di questo tipo di case in un’epoca anteriore al 1880.

    Approfondendo l’indagine, Vlach ricostruì un primo quadro complesso, dove New Orleans si candidava come il punto zero della diffusione americana del modello e dove alcuni documenti d’archivio aiutavano il ricercatore nella sua corsa per la retrodatazione genetica: attraverso l’analisi di poster di vendita che mostravano la parcellizzazione del suolo, le piante delle case su ogni lotto e a volte il prospetto della facciata, gli fu possibile individuare la più vecchia shotgun house di New Orleans (1833) nella celebre Bourbon Street.

    Dopo un primo argomento congetturale (data l’inveterata resistenza delle classi popolari a innovare la forma e l’organizzazione spazia- le della casa tradizionale, è possibile inferire che le varianti tipologiche rispetto al modello base sono l’indizio di un’an- teriorità genealogica di quest’ultimo), Vlach delinea un’ipotesi più argomentata: essere risaliti al primo quarto dell’Ottocento in ambito urbano permette di legare saldamente la shotgun house alle tradizioni architettoniche afroamericane.

    Già nel 1722 New Orleans vantava una comunità di Neri liberi che, in costante crescita, subì un drastico incremento nel 1809 dopo una forte immigrazione da Santo Domingo. Molti di loro lavoravano nell’immobiliare come operai o commercianti e l’impellente bisogno di case, assieme alla disponibilità di risorse autonome, portò la comunità di colore a sviluppare il proprio ambiente architettonico, privilegiando i modelli della tradizione.

    In particolare, un documento del 1839 riporta che il Nero libero François Ducoing commissionò al Nero libero Laurent Cordier una maison basse, tipologia che designava l’equivalente haitiano della shotgun house. Spostandosi dunque a Haiti, in particolare a Port-au- Prince, Vlach individua in ambito urbano un modello abitativo praticamente identico alla shotgun house, mentre la sua variante rurale, semplificata e ridotta a due stanze, sembra somigliare alle case modulari in fango degli Yoruba africani o alle capanne degli Arawak amerindiani, documentate sull’isola in fonti illustrate e scritte del XVI secolo. Qui la ricerca torna a farsi congetturale, e Vlach conclude l’articolo ipotizzando che entrambe le tipologie, africana e autoctona, hanno giocato un ruolo nel complesso processo sincretico: la capanna arawak viene adottata dai bianchi come casa per i lavoratori nelle piantagioni di canna da zucchero, ma gode di immediato successo perché è l’embodiment locale di un modello familiare agli schiavi venuti dal Benin. Questo pro- cesso giustificherebbe un importante passaggio strutturale dal modello yoruba al modello post-arawak (lo slittamento della porta principale dal lato maggiore a quello minore del parallelepipedo, con l’aggiunta del portico-veranda) e l’in- dividuazione di un trend culturale (la resistenza del pattern domestico attraverso spazio, tempo e traversie sociali).

    Nel 2009, con l’articolo Shotgun. The Most Contested House in America, Jay D. Edwards reimposta la ricerca. Lo scenario del dopo Katrina, con il 40% delle case danneggia- te o distrutte, aveva riaperto il dibattito sulla storia e le ori- gini delle shotgun houses, perché era da lì che poteva venire l’argomento decisivo per dirimere la controversia su quali edifici andavano abbattuti e quali invece bisognava recuperare nella ricostruzione della città.

    Il problema, da genetico- tipologico, slittava a quello della tutela dei beni culturali materiali e immateriali, e poneva l’accento sulla percezione della shotgun house nell’immaginario popolare e sul suo uso ideologico nelle rivendicazioni razziali. Edwards non rinun- cia a ripercorrere le due principali teorie sulle origini, quel- la “arcaica” di Vlach e quella “recente” dello storico Sam Wilson Jr., che nel frattempo aveva sostenuto che la shotgun house era la trasformazione del tradizionale creole cottage, dunque un mero adeguamento tecnico per rispondere alla scarsità di spazio nella lottizzazione del French Quarter dopo l’incremento demografico del 1809. Dare peso all’una o all’altra teoria, osserva Edwards, ha delle serie ripercussini politiche, perché significa includere (Vlach) o escludere (Wilson) i Neri dal processo d’invenzione della shotgun house, un’architettura che è sempre stata associata alla gente di colore e agli strati poveri di New Orleans.

    Ovviamente sono nati dei forum Pos-K(atrina), e con i forum si è accesa la polemica: da un lato antropologi e gruppi afroamericani (e con loro, per una volta d’accordo, anche i fratelli Ceaser), dall’altro gli storici dell’architettura, che contestano alla teoria di Vlach un’insufficienza documentaria. Il problema è che per documentare adeguatamente la teoria bisognerebbe avere i dati relativi alle shotgun houses di New Orleans nel periodo tra il 1800 e il 1840, ma le prime mappe dettagliate sui quartieri della città cominciano a essere pubblicate solo nel 1876. Caso chiuso?

    Edwards non si arrende e perseverando sulla linea della recensio documentaria costruisce un database in cui riesce a inventariare nuovi dati provenienti da nuove fonti, in par- ticolare, prima del 1840, identifica la presenza in città di una quarantina di linear cottages (i progenitori della shotgun house, con facciata stretta sulla strada, due o più stanze in successione, linea di colmo del tetto perpendicolare alla via). Ma i nuovi dati hanno ottenuto solo lo scopo di rafforzare un po’ l’ipotesi haitiana di Vlach e di palesare l’insufficien- za degli argomenti (per lo più a silentio) di Wilson: zero a zero. Così Edwards, dopo il sondaggio storico-documentario, tenta alcune analisi incrociate per spiegare la fortuna del modello.

    Tecnologica: durante la costruzione le shotgun houses non richiedevano impalcature pesanti e non aveva- no il problema di soffitti portanti per sostenere un secondo piano.

    Architettonica: il “revival greco” portò alla ribalta il modello a tempietto, con facciate con timpano e tetto a due spioventi. Economica: le shotgun houses avevano un prezzo di costruzione che era meno della metà di quello del creole cottage (1250 dollari ca. contro 3000 dollari ca. intorno al 1830).

    Sociale: nella prima fase erano le case delle placées, donne di colore libere che vivevano con uomini bianchi more uxorio per qualche tempo, e che una volta tornate sin- gle si davano agli affari affittando stanze a giovani busines- smen inglesi o a scapoli bianchi. Ma un’interpretazione più genuinamente antropologica emerge nelle conclusioni: “Le forme architettoniche possono funzionare come tecniche di sopravvivenza in periodi di severe limitazioni economico- sociali imposte alle classi sociali e razziali subalterne. […]

    Il cottage lineare di stile caraibico funzionò come un veicolo di sopravvivenza culturale e di adattamento a forze e circostan- ze in mutamento. Rafforzò e sostenne la popolazione creola consentendole di sopravvivere e addirittura prosperare più di quanto avrebbe potuto fare sotto il peso crescente dei vincoli legali e sociali dell’Era repubblicana e ante Guerra di Secessione, così come sotto il razzismo istituzionalizzato della Ricostruzione e la segregazione razziale di Jim Crow” (2009: 85).

    Insomma, la shotgun house come “marcatore diagnostico di associazione etnica e di classe” (ivi: 73). Ma il vecchio Caeser scuote la testa: “Archivi, scartafacci, nar- razioni. Dov’è l’etnografia di terreno?”. Impossibile dargli torto. L’etnografia di terreno non c’è: si parla dell’Ottocen- to. Ma sono le sei. Comincia a far fresco. Il volo di un corvo fende lo streetscape incorniciato dal portico. Mentre il vec- chio sta rientrando, il giovane Caeser gli domanda: “Allora non è antropologia?”.

    Che cos’è il portico? Forse è il momento in cui la ricerca fa una pausa e riflette su se stessa, ma la buona ricerca non smette mai di farlo. Forse il portico è il momento in cui il ricercatore mette il naso fuori, si avventura in altre discipline, passa il limite delle rassicuranti categorie domestiche. “Ci vuole umiltà, possiamo solo approssimarci”, “bisogna essere transdisciplinari” si ripete instancabilmente da ogni ballatoio, ma poi va quasi sempre a finire che il lavoro si arrotonda su se stesso come un microcosmo, a volte come una scatola di pelati.

    Anche un oggetto periferico come la shotgun house, il modo in cui è stato trattato, le lacune camuffate, i giochi di equilibrio calcolato, mostrano l’inesorabile deriva del metodo, di ogni metodo, perché lo scopo criptico o critico della ricerca

    1) perimetra arbitrariamente l’oggetto e lo trasforma in un morceau choisi (dov’è ad esempio un sondaggio delle possibili connessioni tra shotgun house e visioni del mondo cattolico-coloniale, creola, afroamericana, arawak, yoruba?);

    2) preseleziona la raccolta dei dati determinandone criteri di associazione e modalità di lettura (che ne è delle shotgun houses dell’Alabama, della Georgia, del Mississippi, del Texas? Dov’è una doverosa perlustrazione, per quanto sommaria, dell’architettura rurale francese, magari nella fattispecie portata nel Nuovo Mondo da coloni e bucanieri?);

    3) sacrifica l’ambizione ermeneutica a vantaggio della dialettica d’accademia, della sintesi “ragionevole”, del basso profilo intellettuale (quali paradigmi operativi, quali enzimi concettuali possiamo ricavare da Wilson, Vlach o Edwards?);

    4) oblitera un fatto molto noto eppure trascurato, cioè che scegliere tra più ipotesi è sempre un atto politico con precise conseguenze politiche. Ma il problema vero e proprio è che davanti a oggetti culturali scontornati non esiste alternativa: se si resta in casa l’oggetto si dissolve, se si esce si finisce “fuori tema”. Allora che cosa significa fare antropologia dell’abitare o del paesaggio?

    Certamente non “applicare il metodo antropologico” ai temi dell’abitare e del paesaggio, perché sappiamo da un pezzo che è l’oggetto a determinare il metodo, non viceversa. Forse il problema viene proprio dal fatto che ci si ostina a lavorare con termini come “oggetto”, “metodo”, “campo”, entità molto astratte rispetto a quella pratica imbranata di avvicinamento alla realtà che chiamiamo ricerca.

    Se l’antropologia rimane un metodo frontale e non uno sguardo di profilo sulle cose, se è un modo di analizzare più che di pensare, se modifica gli oggetti senza esserne modificata, allora è un settore scientifico-disciplinare che può trovare la propria nicchia ecologica solo nelle dinamiche universitarie, e che lavorerà unicamente per la conservazione della nicchia e della nicchia nella nicchia. Alternative? Molte. E infatti un’antropologia coraggiosa e indipendente se n’è accorta. […]

    La proposta è di operare su alcuni contenuti tradizionali attraverso un ascolto di piccoli suoni, per isolare nel brusio della cultura un’intensità concettuale, formale, forse emozionale. Invece di produrre morceaux choisis, l’idea è quella di cercare la piccola porta di cui parlava Benjamin, un’immagine capace di evocare una costellazione d’immagini, un lampeggiamento che faccia senso perché indica una direzione di spostamento, un movi-mento verso cui viene o verso cui sta andando quello che gli antropologi chiamano “oggetto culturale”.

    Beninteso questi movimenti non sono flussi continui, ci appaiono a frammenti, scraps, accenni, e per questo ci vorrebbe un’epistemologia delle intermittenze, dove l’oggetto di studio è dato contemporaneamente da questi addensamenti sporadici e dalle reti dinamiche nelle quali s’inscrivono, evidenti solo per pulsazioni, per snodi luminosi. Uno scopo possibile dell’antropologia, oltre a quello dello studio dei suoi oggetti, è additare il loro affacciarsi alla coscienza storica e sociale come immagini di sé: la loro ombra thailandese. L’immagine-ombra del torero, non l’oggetto tauromachia. L’ombra del selvatico, non la selvatichezza.

    L’ombra del paesaggio, della casa, dell’abitare, non quel paesaggio, quella casa, quell’abitare. Ovviamente si tratta di “campi” in cui è impossibile praticare un’etnogra- fia diretta, o dove l’etnografia diretta non può cogliere tutte le articolazioni del senso. Ma non per questo l’antropologo deve lavarsene le mani, lasciando che con esse se la sbrighino il filosofo o il poeta.

    Perché queste immagini-ombra sono anche delle illuminazioni politiche, perché l’immagine può essere un operatore di critica e di resistenza rispetto a un orizzonte totalitario. La gente vive con queste immagi- ni, le usa, le mescola a tutte le altre, e su di esse edifica ciò che chiamiamo “cultura”. Sarebbe un peccato rinunciare a esplorarle, a esplorare questo modo di farsi cultura della cultura solo perché il non-metodo per farlo non è ancora stato inventato. Bateson ci ricorda che esplorare significa cercare il punto di differenza che fa l’informazione, una responsabilità inseparabile dalla tensione anarchica verso la libertà: non è necessariamente il luogo o il fatto di essere sul luogo o di sovrapporre al luogo una qualche tradizione euristica che decide il senso e la portata di una ricerca.

    Soprattutto, ciò che conta, è fare attenzione a non eleggere la soglia che limita la percezione delle cose a prova dell’autenticità dell’osservazione, perché il metodo è una soglia, che si apre e allo stesso tempo si chiude sull’oggetto che esplora. “Allora non è antropologia?” insiste il giovane Ceaser. Il vecchio Ceaser chiude la porta ed entra in casa.


    Pubblichiamo un estratto dal saggio di Matteo Meschiari, Disabitare. Antropologie dello spazio domestico (Meltemi)

    Note