Diaspora reloaded. Un museo a Tel Aviv

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    Un museo di Tel Aviv, Beit Hatfutsot – il Museo del Popolo Ebraico – muta la propria pelle, con un cambio di paradigma copernicano: da narrazione univoca a plurale, da sguardo rivolto al passato a focus sul presente (e sul futuro), da narrazione storica “pura” e diacronica a costellazione di intersezioni con i linguaggi contemporanei.

    Questo processo, più che mai rappresentativo della rivoluzione museologica lenta ma mondiale che sta segnando il nostro tempo, riassume in sé tante delle tensioni che vivono oggi i musei, fra discorso politico e responsabilità sociale allargata, fra debito verso un atto fondativo e necessità di parlare a una società multiculturale, fra esigenza identitaria e desiderio di sciogliere questo discorso identitario, con tutte le sue urgenze e anche le sue trappole, entro una complessità ineludibile.

    Mondi compatti, culture come monoliti, storie di popoli come frecce scagliate unidirezionalmente in avanti: questo raccontavano i musei storici – molti musei storici – fino ad alcuni decenni fa.

    Pochi dispositivi culturali rappresentano chiaramente quanto i musei la velocità con cui, negli ultimi trent’anni circa, si è sgretolata la compattezza dei punti di vista, la fiducia nel fatto che un racconto solido e direzionato possa avere maggiore impatto educativo di uno più ramificato, dubitativo, plurale, nel quale ci sia posto per un’affermazione ma anche per una domanda, per una lettura motivante di una storia controversa ma anche per una sua analisi critica.

    Si pensi al profondo ripensamento sui propri modi discorsivi ed espositivi da parte di istituzioni quali il Rjiksmuseum di Amsterdam, il Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, la Pinacoteca di Brera di Milano, il Museo Egizio di Torino, per citare solo alcuni esempi maggiori. Un discorso a parte andrebbe fatto per i musei di etnografia o world cultures, come il Grassi di Lipsia, in cui la riflessione criitca sul passato coloniale e l’immersione in contesti urbani multiculturali ha dettato la necessità di una reinterpretazione radicale della collezioni, in questo caso più attraverso dispositivi di mediazione che attraverso un riallestimento museografico.

    Uno dei pilastri su cui poggia la riflessione museologica contemporanea, in particolare quella che riguarda la museologia sociale e le complesse trame di assunzione di responsabilità, è il saggio di Benedict Anderson sulle “comunità immaginate” (Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism), pubblicato nel 1983, in cui si analizzava la dinamica della formazione dei nazionalismi e il ruolo connivente dei musei entro questa narrazione.

    Più in generale, il pensiero sulle comunità come soggetti fluidi, dinamici, interconnessi sviluppatosi in ambito antropologico (Aime, Remotti e numerosi altri) ha contribuito a tale plurificarsi dei punti di vista – quando si parla di nazioni, popoli, culture – molto più di quanto noi museologi siamo in grado di comprendere, a tutt’oggi. Ripartire dall’antropologia aiuterà storici dell’arte, architetti, archeologi ad ampliare lo spettro dei punti di vista, a trovare cornici scientifiche per una riflessione complessa, ancora tutta da svolgere e da tradurre in forme, ancorché provvisorie, dentro i musei in cui operiamo.

    Il museo in scena. L’alterità culturale e la sua rappresentazione negli spazi espositivi, il recente volume di Jean-Loup Amselle, rappresenta un ottimo contributo in questa direzione. Anche gli studi culturali, nella loro intersezione con gli studi sociali e le humanities, contribuiscono a disegnare nuove cornici teoriche entro cui collocare le pratiche che vanno delineandosi, per prove ed errori: penso a importanti studi sulle dinamiche della memoria e dell’identità nella diaspora, ben al di là delle cornici nazionali, sullo sfondo di un mondo globale e interconnesso che poggia su codici, fonti e pratiche di condivisione in rapidissima evoluzione (per esempio Assman e Conrad, Memory in a Global Age, 2010).

    Il tema della coincidenza fra un popolo e una nazione, riferendosi allo Stato di Israele, rappresenta un nodo di complessità quasi paradigmatica. C’è un altro tropo da prendere in considerazione, ed è quello della memoria della Shoah, assurta negli ultimi decenni a momento universale, un “never again” che prescinde da nazioni, territori e appartenenze, un “moral benchmark in a new world order”, come scrivono Chiara De Cesari e Ann Rigney nell’introduzione al loro Transnational Memory. Circulation, Articulation, Scales (2014).

    La memoria dell’Olocausto è la boa intorno a cui gira il Novecento e il secolo presente, un memento e un patrimonio transculturale per eccellenza, come ben hanno contribuito a spiegare, fra gli altri, Micheal Rothberg (Multidirectional Memory: Remembering the Holocaust in the Age of Decolonisation, 2009), e Sharon Macdonald (Memorylands. Heritage and Identity in Europe today, 2013).

    Come narrare tanta complessità in un museo, oggi? Il Jewish Museum di Berlino, con l’edificio progettato da Daniel Libeskind e inaugurato nel 2001, rappresenta un punto di riferimento di una narrazione plurale, che si vuole al servizio di tutti, ebrei e non, tedeschi e non, con un alto valore simbolico e con riferimenti alla vitalità di una tradizione in costante evoluzione. Un luogo mistico, certo, ma non un tempio. Chi ha avuto la fortuna di visitare la fabbrica di Liebeskind vuota non dimentica la potenza di quegli spazi, il vuoto che parlava più del pieno: eloquenza, purtroppo, in gran parte perduta a museo allestito.

    Numerosi, nel mondo, sono i musei dedicati alla Shoah, o Olocausto, come si dice più spesso in ambito anglosassone. Esistono molti musei dedicati alla storia del popolo ebraico. Ma quello di Tel Aviv, Beit Hatfutsot, rappresenta un caso di riflessione molto speciale: per la città in cui si trova, certo, ma soprattutto perché sta accettando in pieno la sfida di una rivoluzione totale del punto di vista, con coraggio e freschezza.

    Il museo è stato fondato nel 1978 da Nahum Goldmann, president del World Jewish Congress dal 1954 al 1977. Nel 2005 lo Knesset, il parlamento israeliano, ha promulgato la Beit Hatfutsot Law, che definisce l’istituzione – museo, archivio, luogo di ricerca – come “centro nazionale delle comunità ebraiche in Israele e nel mondo”. Esiste anche un’associazione degli amici del museo negli USA, e statunitensi sono infatti molti dei visitatori. Il museo nasce dunque, soprattutto, per parlare agli ebrei della diaspora e ricordare loro da quale storia discendono. La sua missione, si legge sul sito, si articola in tre punti: presentare la storia del popolo ebraico nelle dimensioni del passato, del presente e del futuro; alimentare il senso di appartenenza e rafforzare l’identità ebraica; fungere da agenzia di indirizzo per quanto riguarda discourse, engagement and learning di individui, famiglie, comunità e organizzazioni ebraiche in Israele e in tutto il mondo.

    tel aviv

    Come si arriva al museo? Chiediamo alla barista. Guarda lo smartphone, gira la mappa, non lo sa: prendete un taxi, dice.
    “Beit Hatfutsot”, diciamo al tassista. Stessa scena: perplessità, temporeggiamenti, ci porta a Eretz Israel, il più noto museo archeologico. Ma noi vogliamo andare a Beit Hatfutsot, che si trova dentro il campus universitario: museo evidentemente meno frequentato dai turisti.

    Finalmente arriviamo a destinazione. Nell’atrio, nella caffetteria, e poi nelle sale, tantissimi giovani in servizio militare, non per motivi di sicurezza ma per una visita di formazione. Mostriamo la tessera dell’International Council of Museums, e veniamo accolti come vecchi amici. Ci viene illustrato il percorso, comunicato che la collezione permanente verrà presto smantellata, e che è consigliato partire dalla nuova ala, inaugurata nel maggio 2016. Questo suggerimento viene ribadito più volte; capiremo strada facendo perché.

    La sezione permanente, infatti, è cupa, la narrazione che veicola assertiva e monolitica, il tono uniforme, a ribadire più e più volte la nozione di popolo sopravvissuto a una storia millenaria di persecuzioni. Apre il percorso una citazione di Abba Kovner che recita: “Questa è la storia di un popolo disperso in tutto il mondo, che tuttavia è rimasto un’unica famiglia: una nazione che più e più volte è stata condannata alla distruzione ma che, rialzandosi dalle rovine, ha avuto nuova vita”. I colori scuri e illuminazione puntuale; le scritte in spessore sulle pareti allusive dei bassorilievi antichi; le ricostruzioni di ambienti con figurine tridimensionali un po’ naïf, tipiche dell’epoca in cui il percorso è stato progettato, non aiutano.

    Questo display, vecchio nell’allestimento ma soprattutto nel contenuto, è compensato dall’ala nuova, scoppiettante di buone idee, che anticipa i contenuti e il taglio metodologico del futuro allestimento (la cui inaugurazione è prevista nel 2019).
    Dunque, la domanda è: come si gestisce questa transizione? Quale la riflessione museologica (sociale, politica, estetica, filosofica) che regge la nuova progettazione? Quale idea di museo si vuole esprimere, e come verrà comunicata? A quanti e quali tipi di pubblico si vuole parlare? In che modo verrà aperta la narrazione tanto direzionata e ripiegata sul passato del vecchio allestimento?

    Ho posto queste domande a Amitai Achiman, Head of Curatorial Team del museo, e a Jamie Rains, di Gallagher & Associates, architetto responsabile del progetto, che con gererosità hanno condiviso con me riflessioni e documenti programmatici utili a capire che cosa diventerà Beit Hatfutsot.

    Il nuovo museo ruoterà intorno a tre fondamenti: l’approccio pluralistico, capace di raccontare l’ebraismo come un mosaico, nella sua dimensione transnazionale e transculturale, senza dogmi e bias; l’accento sulla creatività e la capacità di rinnovamento (come dice efficacemente il direttore del museo, Orit Shaham Gover, si vogliono superare l’“oy vey” e il “gevald”, esclamazioni di dolore, e guardare al futuro attraverso la promessa dell’ “hallelujah”); la promozione dell’identifcazione (“questa storia riguarda anche me”).

    Più concretamente, la visita inizierà, al terzo piano, dalla contemporaneità, trattando i vari aspetti dell’identità ebraica attraverso la performance, la musica, la letteratura, e analizzando il contributo dell’ebraismo alla cultura in generale.

    Il secondo piano sarà dedicato alla storia del popolo ebraico e alla sua diaspora dalla distruzione del secondo tempio fino alla fondazione dello stato di Israele, attribuendo uguale peso ai momenti tragici ma anche alla resilienza, alla capacità di rinnovamento, all’incontro con le altre culture, con un’attenzione particolare a una narrazione inclusiva, “senza discriminazioni per quanto riguarda origini e genere” (così il documento programmatico redatto dal direttore). Lo spazio dedicato alla Shoah sarà molto ridotto (a Gerusalemme, a pochi chilometri di distanza, c’è lo Yad Vashem) e sarà abitato da riflessioni interpretative di artisti contemporanei, in una logica di rotazione e di costante rilettura.

    Il primo piano sarà dedicato a illustrare che cosa significhi di fondo essere ebrei, dunque agli elementi fondanti e universali dell’ebraismo.

    Ma – domando – che posizione assume il museo rispetto all’intrico di questioni complesse che riguardano le politiche economiche contemporanee, la frizione con la cultura palestinese, i temi della sicurezza, del trauma, della paura? Beit Hatfutsot ha chiara la propria identità di museo storico, vocato a raccontare lo snodarsi della diaspora nei secoli, fino a oggi.

    Non è un manifesto politico, non è un parlamento, non è una piazza. Jamie Rains mi spiega che per lui “partecipazione” non significa un meccanico agire-nel-museo, ma un ampliamento delle possibilità di incontro (con culture, modalità espressive, riti, storie). Il theatre o ambiente interattivo dedicato alla danza, al terzo piano, permette, per esempio, di osservare ma anche di sperimentare in prima persona (come un karaoke, dice: se non è freschezza questa). Insomma, qui la forza dell’azione sta nella chiarezza del compito che ci si è prefissati, e anche dei suoi intrinseci confini.

    Alla luce di queste informazioni su come sarà il futuro museo, è più chiaro lo spirito con cui sono state progettate le mostre della nuova ala: che sono, in confronto al vecchio allestimento, davvero incantevoli. Quella dedicata a Chim, il fotografo fondatore dell’agenzia Magnum, vale da sola la visita. Halleluiah!, sulle forme e i significati storici delle sinagoghe, allinea dentro un allestimento di grande eleganza meravigliose maquettes antiche e una storia di migrazione di modelli attraverso i continenti e i secoli, con un forte accento sulle trasformazioni contemporanee e dunque sull’adattività del prototipo (comunicativi i video sulla preghiera nel mondo, più in stile Coachella che in sintonia con l’immagine tradizionale della vulgata, per superficiale che sia; magnetico il display “progetta la tua sinagoga”, da cui non ci si vorrebbe più staccare). Tutto suggerisce un’immagine dinamica, in evoluzione; l’accento è sulla preghiera di lode (Hallelujah, appunto) e sul sunny side dell’ebraismo a contatto con i mille mondi in cui vive e con cui si confronta.

    La mostra sui 75 anni di Bob Dylan – Forever Young. Bob Dylan at 75, inaugurata prima del conferimento del Nobel, come il museo giustamente sottolinea – è intensa, originale, non santificante ma calda, e parla anche a chi non avesse mai sentito una nota uscita da quella chitarra benedetta. Per i bambini e le famiglie c’è Heroes. Trailblazers of the Jewish People, che racconta soprattutto attraverso exhibits interattivi chi sono dei possibili supereroi contemporanei, da atleti a scienziati, da attori a scrittori.

    Ma la mostra che mi ha colpito di più, e che pare davvero un’anticipazione della filosofia con cui il museo si sta proiettando in avanti, è Operation Moses. 30 years after. Fra il 1984 e il 1991, ottomila falascià, ebrei etiopi, sono stati accolti in Israele tramite un ponte aereo. Doron Bacher, all’epoca fotografo di Beit Hafutsot, ha documentato estesivamente questo esodo attraverso migliaia di scatti, conservati nell’archivio. In occasione del trentennale dall’operazione il museo ha affidato alla regista Orly Malessa, che da bambina era stata una di quegli ottomila profughi, la curatela di una mostra fotografica partecipativa.

    Tramite una call sui social media si sono cercate le persone che comparivano nelle fotografie d’epoca, e si è scelto di farle parlare, attraverso fotografie, testi e video, mettendo in evidenza i nodi tematici più forti della loro vicenda biografica, senza apologia né censura. Ne emerge un quadro complesso, di luci e ombre, in cui successi e fallimenti, occasioni e rinunce, incontri e disincontri stanno fianco a fianco.

    Non è una storia a lieto fine tout-court, ci dice la mostra (densa perché entra, senza retorica, nelle pieghe di ciò che più conta: la relazione con i padri, le aspettative, il fare i conti con se stessi e con le proprie capacità in un contesto nuovo, la traiettoria personale da codificare per poterla tramandare ai figli). Ma qui la storia è raccontata dai protagonisti di quell’esodo, con scelta coraggiosa e chiara presa di posizione.

    Se questo è, verosimilmente, un assaggio del discorso che il museo promette, sarà interessante seguirlo e tenere traccia della sua influenza sul mondo museale contemporaneo, sia nel territorio isrealiano che nelle più ampie ricadute internazionali.

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