L’Università scandalosa. Tra storia locale e fallimenti organizzativi

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    Degli scandali giudiziari, specie se di provincia, sono spesso più interessanti le reazioni che i fatti contestati. Le reputazioni spezzate, gli sdegni giustizialisti e, talvolta, la ricerca popolare di correi morali appaiono sociologicamente eloquenti tanto quanto gli ambienti, le alleanze e le strutture che hanno prodotto i comportamenti contestati.

    È questo che mi torna in mente osservando l’ennesima vicenda che colpisce l’Università in cui lavoro: quella di Messina. La stessa in cui, a partire dagli anni Novanta, si ricordano non più di due rettori che abbiano esercitato il proprio mandato indenni da contestazioni personali divenute di fama nazionale. E di questi due, tuttavia, almeno uno ha dovuto fronteggiare uno scandalo celebre riguardante un suo docente. Storicamente, inoltre, sembra esservi un rapporto di amorosi sensi che unisce persone interne all’ateneo ai grandi centri della comunicazione nazionale: un tempo si trattava di uno storico quotidiano e, in particolare, di un suo celebre giornalista specializzato nella critica alle “caste”, che appariva sempre informatissimo sui dettagli della vita recondita dell’ateneo siciliano; oggi quella relazione sembra privilegiare i programmi popolari di informazione satirica della più celebre emittente privata nazionale.

    Di certo va anche detto che a rendere interessante il caso di questo ateneo è il fatto che gli ultimi due mandati rettorali siano stati anche delle vicende “dinastiche”: il precedente rettore era figlio dello storico direttore sanitario del Policlinico universitario e, di fatto, co-creatore di questa struttura. E per quanto il figlio divenuto poi rettore fosse un economista, questi era anche il membro di una famiglia che, nel passaggio di generazioni, aveva continuato a intrattenere presenza e posizioni rilevanti dentro l’ospedale universitario.

    D’altro canto, il rettore successivo, oggi dimissionario, era figlio di un altro fondamentale docente medico del Policlinico, nonché rettore egli stesso del medesimo ateneo negli anni Novanta, il quale finì coinvolto in una nota vicenda riguardante l’assalto ‘ndranghetista ai vertici della struttura sanitaria universitaria. Il tutto nel corso di una fase espansiva, in cui il policlinico messinese appariva come la più importante stazione appaltante del Sud Italia. Si trattò di una vicenda terribile che coniugava pressioni criminali, interessi personali (l’azienda che riforniva la farmacia universitaria era riconducibile alla famiglia del medico rettore) e che culminò nell’omicidio di un docente (genero, peraltro, di un precedente rettore). Ciò che determinò una famosa visita in città della Commissione Antimafia e l’appellativo di “verminaio” conferito dal suo presidente all’Università di Messina.

    Oggi il figlio di quell’ex rettore rimasto impantanato nella complessa vicenda appena rammentata,  divenuto nel frattempo professore ordinario di farmacologia, assurto cinque anni fa alla medesima carica del padre, nonché presidente ormai dimesso della Crui (Conferenza dei Rettori delle Università italiane) è oggetto di una denuncia e di un’indagine volte ad accertare la natura dei rimborsi personali ammontanti a oltre due milioni di euro richiesti dallo stesso rettore negli anni 2019-2023, così come ai pagamenti, per un valore di oltre centomila euro, effettuati a favore di un’azienda agricola di famiglia. E, da ultimo, di una serie di appalti relativi ai servizi per gli studenti affidati direttamente, e al di sopra delle soglie comunitarie, in base a un sospetto abuso della normativa emergenziale.

    A questa denuncia, inoltre, si è aggiunta l’accusa di frode scientifica: il rettore, che è anche a capo di un gruppo di ricerca estremamente folto e attivo, e sarebbe risultato, secondo una “classifica di Stanford”, tra i migliori 20 ricercatori italiani del proprio settore, è stato segnalato da un sito specializzato per avere apparentemente riciclato immagini, impiegate poi in numerosissimi articoli, al fine di illustrare esperimenti diversi da quelli per cui erano stati prodotte originariamente. Infine l’insieme di queste accuse ha determinato le dimissioni del docente dal ruolo di rettore e di presidente della Crui. Il tutto, comunque, a soli pochi mesi dalla scadenza naturale dei mandati e, nel caso dell’ateneo dello Stretto, a campagna elettorale già iniziata.   

    La reazione sociale a questa vicenda è ugualmente interessante e prevedibile per molti aspetti. Si è trattata, com’è prevedibile, di una character assassination, che ha visto attive la stampa locale così come quella nazionale. L’opinione pubblica, inoltre, ha rivolto alla comunità accademica messinese l’accusa di essere rimasta colpevolmente silente sui fatti e, dunque, di essere complice. Il “verminaio”, secondo molti commenti, sarebbe lontano dall’essere stato espiantato. È opinione diffusa che la rete di interessi, contiguità, complicità e convenienze sia molto più forte di qualunque capacità morale di indignazione; e che l’Università di Messina sia uno spazio di mediocrità intellettuale e, per l’appunto, civile (si tratta di una sintesi quanto più fedele dei termini adoperati in molti articoli e conversazioni online). Questo articolo, dunque, prova a dare ragione di alcuni di questi giudizi, dei tic sociali che la vicenda esplicita e anche delle realtà oggettive su cui si fondano certe accuse, ponendo a confronto le culture esterne e interne all’Università. Il modo, cioè, attraverso cui i cittadini e molti docenti interpretano le medesime vicende, senza alcuna possibilità di un accordo o quasi.

    A tale riguardo, la fondamentale premessa per ogni ragionamento è che non esiste una comunità universitaria. Ciascun docente occupa gerarchie differenti, ha provenienze diverse e intrattiene perciò relazioni particolari con la storia e le relazioni sociali locali. Le riforme universitarie hanno generato forme di mobilità tra atenei inedite rispetto al passato, oltre ad accrescere sensibilmente le soglie di ingresso (in termini di pubblicazioni, progetti finanziati e attività scientifiche intraprese). Ciò significa che moltissimi docenti non hanno alcuna idea – o idee molte vaghe – di quale sia la storia familiare di un rettore o i rapporti tra i docenti storici e il resto dei potentati locali. Sia pure con le debite differenze, osservare il silenzio dei docenti significa, tra molte altre cose, notare l’eclissi del senso della storia tra il personale di un’istituzione e il cambio di generazione. Così se per molti il silenzio è la manifestazione di un comportamento giudicato opportuno (di convenienza), per altri è la manifestazione della validità del detto per cui “di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”.  Lì ove in quel “non potere parlare” si ravvedono sia l’ignoranza di un contesto, frutto di un’estraneità a esso, sia il diniego effettivo, ossia la non opportunità, di prendere posizioni in merito a una vicenda a partire da posizioni individuali di debolezza. Questo, in particolare, dentro un quadro strutturale in cui i rettori sono stati dotati per via legislativa di un potere pressoché assoluto, che acuisce le asimmetrie, le estende ai differenti ruoli (inclusi quelli ordinari) e rende pertanto preferibile la prudenza. A maggior ragione dentro una cornice morale caratterizzata da un individualismo pressoché ontologico.

    Le riforme ricordate poco sopra, dunque, non solo hanno aumentato la mobilità e la produttività scientifica, ma hanno anche precarizzato e indebolito la docenza. In generale, cioè, hanno reso il percorso di costruzione intellettuale specializzato e “introverso”; ossia poco incline al prendere posizione, a guardarsi intorno al di fuori dei libri o dei laboratori. O, magari, a farlo rivolgendo però lo sguardo fuori dall’università; lì ove, peraltro, le cose che succedono sono ben più interessanti e urgenti. Riassumendo, gli sguardi di molti dentro l’università oscillano tra comprensioni parziali dei contesti, urgenze personali volte al consolidamento di quelle carriere che sostengono le proprie esistenze; ed eventualmente nel sincero disinteresse per le vicende di un mondo professionale che costituisce ben poca cosa in confronto a ciò che grava sul resto dell’umanità.

    Sì, ma gli altri, si dirà? I docenti di ruolo, i garantiti, i nativi e i fini conoscitori di storie e relazioni locali; che ne è del silenzio di questi, pur presenti dentro l’Università? Una risposta è che per una parte di essi vale quanto osservato prima: sono fondamentalmente estranei al contesto. Spesso risiedono fisicamente, col cuore e con la mente altrove; imparano solo con lentezza a conoscere la località in cui lavorano e sfuggono loro molti fondamentali elementi. Altri, al contrario, conoscono bene la storia e ne sono parte, per storia e lignaggio familiare, per discendenze accademiche e per altri tipi di frequentazione sociale o politica. Altri ancora, pur essendo nativi, hanno verso le vicende locali l’atteggiamento disinteressato di molti altri cittadini attivi fuori dall’università. In questi casi la supposta distinzione tra l’atteggiamento dello studioso e quello di altre categorie sociali, in un certo senso, si annulla. Questo tipo di studioso (che può essere un sociologo così come un letterato, un matematico, un geologo, un informatico etc. etc.) può non assegnare alcun ruolo alle storie familiari o personali. Quando si avvicina il momento di votare un rettore o un direttore di dipartimento, costui/costei non bada spesso alla struttura di appartenenze, ruoli e storie di cui è parte il candidato che si appresta a votare, ma giudica la persona. Ne valuta cioè le caratteristiche, la vicinanza a individui o a gruppi prossimi e le promesse fatte. La storia, per questo tipo di accademico, non conta nulla; così come spesso non conta nulla per il cittadino semplice che vota un politico. La distinzione del tutto immaginaria tra il cittadino-intellettuale-consapevole del reale e il “resto”, ossia il cittadino “ordinario”, in molti casi svanisce dunque interamente ed entrambi i tipi appaiono fatti della medesima sostanza.

    Un simile modello di accademico, dunque, non ha nulla da dire dinanzi a uno scandalo. Perlomeno, non pubblicamente. È ben possibile che si scandalizzi, ma tende a farlo tra gruppi ristretti e di fiducia. Se ha qualcosa di buono e superiore rispetto alla massa che pretende che “dica qualcosa”, è che non sente il dovere di dire niente. Tantomeno di farlo su quei social network che costituiscono lo spazio dello svergognamento altrui e dei narcisismi rivendicativi (non che questo tipo umano non impieghi i social network per dire cosa pensa di molte questioni del giorno, per lamentarsi del lavoro oppure degli studenti e per reclamare piccoli o grandi successi professionali). Inoltre questo tipo ideale accademico – quello “radicato nella località”, in particolare – è spesso anche blasé. Come del resto tanti cittadini, ha vissuto per trent’anni nel regime morale dello scandalo permanente. Ha assistito alla distruzione di un numero infinto di reputazioni, ad assoluzioni, a ridimensionamenti delle accuse e a rinascite impensabili in ruoli equivalenti (è questo il caso di un altro rettore cittadino, anch’esso uscito di scena nell’infamia e riapparso nella medesima posizione in una città non troppo lontana). Come farebbe questa figura di accademico che è spesso uno smemorato, ma non un demente completo, a emozionarsi realmente per un ennesimo scandalo e le accuse infamanti che si porta dappresso?

    All’infamia altrui, inoltre, si connettono un’infinità di funzioni sentimentali. Tra queste c’è certamente quella satisfatoria: “Era tanto un pallone gonfiato e ha avuto finalmente quel che meritava”, possiamo sentire dire. Ma al crollo della reputazione di un collega  è facile associare il proprio: “Ho, anzi abbiamo, lavorato tanto per poi ritrovarci come sempre nell’infamia”. Il rispecchiamento, dunque, è un’altra delle funzioni rinvenibili. Questa associazione per procura nel circolo dell’infamia è quella che nel caso di alcuni (i “giustizialisti”, peraltro spesso a fine carriera) genera una spietata indignazione, che tuttavia quasi mai si traduce in discorso aperto. In altri (“gli empatici”), invece, genera una sorta di pietà: quella che si fonda sul rispecchiamento e sulla consapevolezza, non importa quanto solida, della caducità dei destini. Difficile, dunque, sentire di potere dire qualcosa dinanzi a quest’ultimo sentimento.

    Tuttavia essere blasé significa anche vedere le cose nei termini propri di una comunità abituata ai veleni. Che il rettore cada – com’è probabile che sia avvenuto – per mano di una semplice denuncia e non di un complotto, l’accademico “scafato” vedrà anche altro: per esempio la vicinanza delle elezioni, la tempistica della scandalo, la comparsa e l’appartenenza accademica di un candidato e tanti altri piccoli segni che la vita accademica ha presentato nel corso del tempo e che ora acquisiscono nuovi significati. La denuncia di un supposto abuso di ufficio smette dunque di essere solo questo e si colora di altri aspetti – non importa se reali o immaginari – che impediscono di assumere il ruolo dell’indignato. Una denuncia non è solo una denuncia, ma una chiamata alla guerra accademica. Lo studioso – poco importa se blasé, smemorato o sradicato –  prende ad assomigliare allo statarello confinante con una potenza maggiore, con la quale intrattiene tuttavia radi rapporti, e che improvvisamente si vede evocato al fine decidere con chi allearsi all’alba di un conflitto inatteso. È difficile che questo soggetto marginale dica da subito qualcosa perché dire significherebbe scegliere un’ala del fronte.      

    Tuttavia in questo scandalo c’è di mezzo anche la “scienza”, ovvero le immagini che sarebbero state riciclate dall’ex rettore. Non scandalizza questo, tanto più che parliamo di ricerca farmacologica in un’epoca di crisi nel rapporto tra cittadinanza e medicina? Immaginiamo che la risposta sia positiva. Ma ciò che l’accademico vede è anche altro: per esempio la pressione sistemica a pubblicare per non “morire” accademicamente. E le alleanze per evitare che ciò accada: gli articoli con decine e centinaia di autori, che spesso hanno il solo merito di avere prestato reagenti, procacciato risorse economiche oppure di avere contribuito a un saggio in qualche altra insondabile maniera. L’accademico vede altresì  la rilevanza degli indici di impatto e di quelli qualitativi ai fini del reclutamento e delle promozioni. Il ricercatore vede la crescente centralità dei finanziamenti esterni e delle collaborazioni con le imprese, entrambe dipendenti per buona parte dai valori espressi dai summenzionati indicatori. Lo stesso studioso assiste alla proliferazione delle classifiche, che riguardano non più soltanto le strutture, ma le persone fisiche che conducono ricerca. A tal proposito non deve essere un caso che a più riprese l’ex rettore abbia, ben prima dello scandalo, rivendicato orgogliosamente di essere stato co-autore di oltre duecento articoli in  cinque anni e abbia ricordato di essere a capo di una squadra che raccoglie circa una quarantina di ricercatori e che collabora con un gran numero di aziende. A scandalo esploso, lo stesso ha ricordato di avere anticipato gran parte di quei soldi a fini di ricerca.

    Alla luce di tutto questo, gli accademici vedono, come tutti, l’indesiderabilità della frode. Ma molti tra loro comprendono anche come sia arduo prendere di mira un uomo che, sia pure con qualche vanteria e privilegio di troppo, ha solo preso alla lettera le regole di un gioco promosso dai massimi vertici della ricerca. Un gioco che ha trasformato la vocazione alla ricerca in una competizione per la vita o la morte accademica, per il reperimento dei fondi, la stabilizzazione dei precari etc. E che, da ultimo, ha “giocato i giocatori”, facendo dipendere la loro identità personale e professionale dai valori espressi da un indice. Trasformando, cioè, i ricercatori in figuri non troppo diversi da quelli che stanno in coda ai tabacchini in attesa di un’estrazione. Difficile in queste condizioni provare astio per un solo uomo.

    Inoltre ci sono di mezzo le politiche del tempo. Il tempo necessario a pubblicare, certo: ben più di duecento articoli in cinque anni nel caso dell’ex rettore. Ma anche quelli necessari a scalare quelle classifiche delle migliori università che tanta importanza hanno per la vita degli atenei e delle città. Quelle liste da cui dipendono tanto le scelte di genitori e studenti quanto la vita di centri urbani che, in alcuni casi, si riempiono di studenti (e di questione abitativa) e, in altri, si svuotano forse definitivamente di popolazione giovanile. All’interno di queste classifiche l’Università di Messina occupa generalmente posizioni basse non per la qualità della ricerca o della didattica, ma per i servizi. In questo quadro sarebbe opportuno leggere quell’urgenza di appaltare i lavori imputata all’ex rettore non solo con categorie criminologiche, ma con quelle sociologico-organizzative del manager performativo che vuole consegnare un risultato e guadagnare posizioni in classifica. Quello che a molti è apparso in questi anni come una stupefacente e sospetta corsa alla proprietà immobiliare, può anche essere vista come una politica guidata dalle summenzionate classifiche. Tempo e velocità, dunque, proprio come nel mercato puro; e con effetti che riguardano la base di un ateneo così come i suoi vertici.       

    Cosa fare in queste condizioni? Sul piano interno occorrerebbe riscoprire la politica, per esempio. Mentre più in generale sarebbe opportuno comprendere che stiamo solo fingendo di parlare dell’Università di Messina; in realtà discutiamo di un paese. Inoltre si farebbe bene a riscoprire il senso di ciò che si fa nelle università, realizzando che non ci riferiamo a un’attività meramente vocazionale e performativa, ma a un luogo di lavoro. Si dovrebbe dire anche che questo luogo di lavoro è sottoposto a ricatti sottili, che non si realizzano soltanto nelle sedi fisiche o nei rapporti “baronali” (per molti aspetti ormai quasi completamente diversi da quelli immaginati dall’opinione pubblica), ma che sono impliciti nell’organizzazione generale di questo stesso sistema. Un’organizzazione incentrata su principi quantitativi, su pseudo-valutazioni qualitative, sulle relazioni di dipendenza tra la ricerca e l’industria, oltre che sulla graduale trasformazione degli universitari e delle sedi universitarie in imprenditori di sé stessi. Se la ricerca dev’essere mercato, l’università farsi azienda e il ricercatore divenire imprenditore, è difficile allora che questi non finiscano col frodare e col bramare l’accumulazione indefinita di posizioni, fondi e vantaggi di ogni sorta.

    Un cambio di passo sarebbe auspicabile anche in relazione agli effetti di questa organizzazione sulla cultura e la cittadinanza. La sovrapproduzione scientifica abbassa la rilevanza di ciò che si produce, rende impossibile l’aggiornamento dei ricercatori e autoreferenziale il processo di scrittura. Si finisce cioè col produrre materiale segmentato e di limitata qualità, che verrà letto da pochissimi, e che trova giustificazione d’essere non nel principio di conoscenza, ma in quello della produzione per la produzione. Ciò rende poco utile  una gran quantità di materiali e ardua la selezione degli studi significativi. Per di più impegna gli studiosi, li specializza, li induce a concentrarsi su pezzi minuscoli della complessità e, in questo senso, li instupidisce spesso civilmente. Li rende idioti nel senso di trasformarli in persone concentrate su sé stesse e poco attente al reale esterno. Li rende anche vistosamente dipendenti da imperativi, mezzi e finalità esterni a quelli della semplice conoscenza.

    Quest’ultimo meccanismo non sfugge all’opinione pubblica, che non comprende pienamente le dinamiche e le cause; ma ne coglie il senso nei propri termini, che possono essere semplicistici eppure non del tutto falsi. La risultanza, com’è noto, è la “sfiducia nella scienza”, l’anti-intellettualismo e l’erronea identificazione di un mondo in realtà assai martoriato con quello delle “élite”. Il resto è solo deriva complessiva. Messina, insomma, non è solo Messina.

     

    Immagine di copertina da Unsplash: ph. Edwin Andrade

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