Stasera Rosetta: la cultura è ricchezza?

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    Lo scambio che ho avuto con la libreria Gogol & Company per scegliere il tema di Rosetta, in un afoso pomeriggio d’estate, verteva sull’idea di “traduzione”. Quel giorno, infatti, ci eravamo interrogati sulla capacità della cultura di operare come soggetto/dispositivo in grado di fare da ponte tra le parti sociali che compongono la città.

    Nelle parole dei gestori, quelle mura, quei caffè, ma soprattutto quei volumi volevano offrire linguaggi possibili ai ragazzi del Giambellino, quartiere popolare che si nasconde dietro al Naviglio Grande. Ci eravamo lasciati con quel proposito, e una manciata di nomi possibili.

    Quel pensiero, tuttavia, si è fatto strada nelle nostre riflessioni, e si è annodato indissolubilmente ad un tema che stava iniziando ad echeggiare sul finire dell’estate: il tamtam crescente nel dibattito pubblico e nelle nostre filter bubbles della critica/definizione/teorizzazione della cosiddetta classe “aspirazionale”, o, con epiteti meno ottimistici, “classe disagiata”.

    Cosa collega questi due temi all’apparenza così lontani? Perché, partendo dalla relazione tra la vendita di oggetti culturali (i libri) in uno spazio di fragilità sociale (il quartiere) abbiamo parlato di traduzione per poi approdare alla cultura come forma di ricchezza? Una libreria in un quartiere in trasformazione, come processo urbanistico, può essere il motore positivo di una possibile mobilità sociale o opera come mero agente gentrificatore? E in che modo possiamo ancora parlare di mobilità sociale intesa come capacità aspirazionale di cambiamento e di miglioramento delle condizioni sociali, economiche e culturali di partenza, a fronte di una paralisi ascendente ed una progressiva riduzione della c.d. “classe media”?

    Quel fil rouge confuso si può agilmente dipanare richiamando l’opera di Pierre Bourdieu, che nel suo percorso di ricerca quarantennale ha allineato le questioni grazie ad indagini di “psicanalisi sociale”, privilegiando la sociologia pubblica rispetto a una mera ricerca dell’oggettività, con la felice definizione della sociologia come uno “sport de combat”.

    È grazie al conflitto ricercato dal professore parigino che si riesce a ricostruire come gli scambi simbolici rappresentino il principale terreno strategico per la costruzione gerarchizzata dello spazio sociale. In altre parole, secondo Bourdieu, quei concetti di classe, di stratificazione sociale, di mobilità sociale, sono principalmente il frutto di scambi simbolici che muovono, producono e riproducono processi di accumulazione: di capitali economici, sociali o culturali. Ciò che scelgo, la musica che ascolto, l’abito che indosso, genera comunicazioni che sono esse stesse scambi simbolici che, nella relazione con l’altro, con gli altri, permettono di definire il posizionamento, creando, di conseguenza, gerarchie nello spazio sociale.

    Per distinguere il senso dello scambio simbolico e della stratificazione sociale Bourdieu parte da lontano, e riconosce i simboli del potere francese attraverso l’analisi della società cabila in Algeria. È dalla “giusta distanza” mediterranea che il sociologo ha potuto riconoscere quei processi che ha poi analizzato per quasi quattro decenni. Solo posizionando correttamente “il sé”, professore, intellettuale pubblico, francese, che ha potuto poi colmare quella distanza e tradurre quei processi simbolici raccontati in saperi accessibili.

    La natura dell’estetica, i gusti e i disgusti che guidano i costumi, il ruolo sociale degli artisti e degli autori sono solo alcuni dei temi trattati nelle sue opere. Come scrive, «ogni atto culturale, creazione o consumo, contiene l’affermazione implicita del diritto di esprimersi legittimamente e con ciò coinvolge la posizione del soggetto nel campo intellettuale e il tipo di legittimità che reclama».

    Bourdieu amplia e sviluppa il tema ne “La distinzione” opera omnia in cui le classi sociali rappresentano il fondamento (e la spiegazione) del sistema di classificazione e percezione del mondo sociale che permette la scelta di oggetti di piacere estetico. Il gusto si connette, quindi, ad alcuni fattori: la traiettoria individuale (soggetto) economica e sociale, e la percezione del mondo (relazione) alla posizione economico-sociale di partenza (la classe), e si intreccia indissolubilmente ai corpi e alla loro fisicità.

    Così, l’antitesi tra la cultura e il piacere fisico (o, se preferiamo, la natura) si radica nella “contrapposizione fra la borghesia colta ed il popolo, sede fantasmatica della natura incolta, della barbarie dedita al semplice godimento. […] La posta in gioco del discorso estetico, e dell’imposizione della definizione di ciò che è autenticamente umano, che essa mira a realizzare, non è altro, in ultima analisi, se non il monopolio dell’umanità”(Paolucci, Gabriella. Introduzione a Bourdieu – Maestri del Novecento Laterza – posizioni nel Kindle 1993-1997. Editori Laterza).

    E ancora: “Quando si cerca di determinare in che modo gli atteggiamenti colti e le competenze culturali espresse tramite la natura dei beni consumati e il modo di consumarli variano a seconda delle diverse categorie di attore sociale e a seconda degli ambiti a cui vengono applicati, da quelli più legittimi come la pittura o la musica, fino a quelli più liberi come l’abbigliamento, l’arredamento o la cucina e, all’interno degli ambiti legittimi, a seconda dei «mercati», «scolastico» o «extrascolastico», sui quali vengono offerti, si appurano due fattori fondamentali: da un lato, il rapporto strettissimo che lega le pratiche culturali (o le relative opinioni) al capitale scolastico (misurato in base ai titoli di studio ottenuti) e, in via subordinata, all’origine sociale (stabilita mediante la professione del padre); dall’altro lato, il fatto che, a parità di capitale scolastico, nel sistema esplicativo delle pratiche o delle preferenze, il peso dell’origine sociale aumenta quando ci si allontana dagli ambiti più legittimi”.

    Questa lettura deterministica delle traiettorie, chiamata ed analizzata come “habitus” ossia una serie di comportamenti ed esercizi di potere non è il prodotto ineluttabile di fattori positivi, ma si tratta di un ordine simbolico che è semplice riflesso del reale.

    È con una gigantesca mole di dati che l’autore riesce a ricostruire gli habitus culturali delle classi (francesi) che esamina.

    Se nel lavoro sui consumi lo strutturalismo è la lente principale delle sue riflessioni, è con il lavoro del 1993, “La misère du monde” che il sociologo (coordinando un team di ricercatori) riesce ad evidenziare la centralità del conflitto, profondamente politica e radicale. Le molte interviste effettuate nella Parigi di Mitterrand raccontano de “la miseria” concepita non come povertà assoluta (condizione oggettiva) ma come miseria di posizione. Gli intervistati sono e stanno in uno spazio fisico e sociale precario, degradato, in cui sono senza possibilità di uscita e che tendono a riprodurre; un insieme di relazioni sociali che influenza con assoluta preponderanza il modo in cui le persone pensano sé stesse e riflettono gli altri. Nelle analisi questo processo è il prodotto di una desertificazione sociale, data dal crescente e costante impoverimento materiale e relazionale. Il tema del dominio che sembra sottotraccia nelle sue riflessioni culturali ed estetiche si esplica e ritorna evidente.

    Lo Stato, messo alla berlina dai processi neoliberisti, ha, di fatto, smantellato l’idea di servizio pubblico, che perde la sua funzione sociale e assistenziale e viene, secondo Bourdieu, gestito come un’impresa privata da parte di funzionari usciti dalle grandi scuole di Stato.

    Questo processo trasforma quindi le pratiche solidali (e mutatis mutandis, quelle culturali) in una semplice allocazione di risorse che non fa altro che riprodurre gli schemi, i confini e gli spazi sociali già marginalizzati dal lavoro, dalla provenienza, dal sistema educativo, lasciando a pochi audaci di frontiera il compito di un confronto quotidiano con tali scelte.

    In questi vent’anni, questa pratica di stagnazione non solo ha bloccato tutti nelle posizioni di partenza, ma ha anche nei fatti rivelato quella contraddizione che la politica (come pratica sociale) aveva modificato (o camuffato): ossia che lo studio, il sapere, i libri, la cultura, la pratica nella polis avessero la capacità di far uscire dal guado le traiettorie soggettive (e collettive), e che quel modello a cui aspirare, costruito sui consumi, fosse l’unico modello possibile.

    Secondo Raffaele Alberto Ventura, “La classe media affronta oggi una degradazione della sua situazione economica: precariato, disoccupazione, debito… Ma soprattutto fa i conti con la sua dipendenza da valori e aspirazioni socialmente indotti che la spingono a identificarsi con la figura del borghese”.

    Questi argomenti vengono apertamente contestati da Valerio Mattioli, che scrive: “Sapete che c’è? Io al limite direi che di retorica del Sessantotto ce n’è stata troppo poca, tiè. E lo dice uno che del Sessantotto non gliene è nemmeno mai fregato granché, figuratevi. Direi – perché è quello che mi dice la realtà che conosco, in cui sono cresciuto e a cui se volete sono scampato – che è stato il modo brutale in cui per decenni è stato represso e confinato a un angolo qualsiasi slancio utopico, qualsiasi proiezione desiderante, ad aver preparato la strada a quello scenario da guerra civile imminente che per Ventura è l’unica prospettiva plausibile a quasi dieci anni dalla “più grande crisi nella storia del capitalismo”. Altro che “siamo stati troppo velleitari, torniamo a più miti propositi”. Ragionamenti del genere se li possono permettere solo quegli happy few che dalla rinuncia alle “velleità” non hanno niente da perdere perché già hanno tutto e quel tutto vogliono tenerselo stretto”.

    A dispetto del sociologo francese, e anche in parte di alcuni relatori, io tendo a credere che, per un breve ma fortunato periodo questo processo abbia agito e funzionato: se pensiamo alle felici esperienze del movimento femminista, di quello operaista e delle trasformazioni del mondo del lavoro, o la portata dirompente degli scambi simbolici e sociali successivi alla legge Basaglia, quegli spiragli sembrano ancora percorribili proprio perché il conflitto non è stato rimosso o negato, ma attraversato dai pensieri e dai corpi.

    Quei saperi hanno operato nella definizione del sé (sia individuale, che collettivo) per poterne nei fatti, prendere distanza, per vedere il posizionamento nel mondo, che non significa solamente percepire il mondo impossibile, ma, al contempo, anche quello possibile.

    Come ci dice Gloria Origgi, “L’autenticità non è altro che l’incontro, raro e perfetto, tra l’immagine che vorremmo dare di noi stessi e come siamo visti dagli altri. Diventiamo autentici grazie allo sguardo degli altri. Il nostro ego è doppio ed è nella sua doppiezza che ci motiva. Senza la coscienza dell’interdipendenza tra me e l’immagine di me negli occhi degli altri, tra la mia reputazione e la mia azione, non posso capire né chi sono né perché agisco”. Quella relazione sociale è politica, ed è pratica culturale.

    La cultura può operare questi processi di trasformazione nella misura in cui da esercizio estetico diventa pratica etica, di fatto, politica. Solo quel processo di trasformazione può ricreare quella relazione con l’altro, centrale per definirsi, per costruire la reputazione, per emanciparsi. Così il mondo del bar di Casola Valserio, palestra di immaginari per Cristiano Cavina, quei “Bar degli Appennini, con la sua testa di cinghiale appesa sopra l’ingresso, il bancone consumato, la gente che anche se ti vuole bene non te lo dice perché non sa fare ma te lo dimostra mandandoti cordialmente a quel paese; un posto in cui si ha piacere di stare, anche solo per litigare un po’. Quelli sono turbine che generano un sacco di narrativa, di ogni tipo”. E di racconti abbiamo bisogno, perché permettono di vedere oltre le montagne, oltre la circonvallazione, e lo spazio (geografico/sociale) diventa un mondo del possibile e non uno spazio finito, in provincia di Faenza come al Giambellino.

    Queste sono alcune delle questioni che vorremmo affrontare a partire da due poli, quello della cultura come mezzo di conoscenza, riscatto e trasformazione del mondo da una parte, e quello della cultura come mezzo inceppato di conservazione del privilegio dall’altra, si articolerà la conversazione. In un luogo che vive questo tema attraverso la concretezza del rapporto quotidiano coi lettori: sia quelli già forti che quelli che stanno nascendo.


    Programma

    19.00 – Rosetta è disagiata – conversazione presso libreria Gogol & Company Via Savona, 101 Milano

    Partecipano:
    Cristiano Cavina – scrittore, autore di Fratelli nella notte, Feltrinelli
    Valerio Mattioli – curatore e autore, sua la critica al libro di Ventura pubblicata su cheFare
    Gloria Origgi – filosofa, autrice di La reputazione. Chi dice cosa di chi, Università Bocconi Editore
    Raffaele Alberto Ventura – scrittore, autore di Teoria della classe disagiata, Minimum Fax

    Modera Bertram Niessen – direttore scientifico di cheFare  – 21.00 – Djset di Matteo Saltalamacchia


    Rosetta. Un progetto culturale nomade è un ciclo di incontri che attraversa Milano toccando luoghi sempre diversi della città, all’ora dell’aperitivo, a partire dai primi mesi del 2017 per almeno due anni, ideato e promosso da Casa della Cultura e cheFare, realizzato con Fondazione Cariplo.  Gli incontri sono nove all’anno, uno per ciascuna delle nove zone della città.

    Rosetta vuole mettere in relazione i centri innovativi di produzione e distribuzione culturale della città di Milano, compresi quelli meno mappati e riconosciuti. Lo farà affrontando temi diversi tra loro, accomunati da un legame diretto con la vita quotidiana, con l’obiettivo di coinvolgere quei pubblici più giovani e più dinamici che stentano a riconoscersi nei mondi culturali tradizionali.

    Il progetto è stato realizzato con Fondazione Cariplo, tra le realtà filantropiche più importanti del mondo con oltre 1000 progetti sostenuti ogni anno per 144 milioni di euro e grandi sfide per il futuro. Giovani, benessere e comunità le tre le parole chiave che ispirano oggi l’attività della fondazione. “Dalla coesione tra le persone parte la nostra piccola rivoluzione – Giuseppe Guzzetti, Presidente – perché ciascuno dia il proprio contributo per fondare il futuro della nostra società su quei principi di solidarietà e di innovazione sociale che sono alla base dell’operato di Fondazione Cariplo” #conFondazioneCariplo

    www.rosettamilano.it
    per informazioni:
    rosetta.milano@che-fare.com
    segreteria@casadellacultura.it
    tel. 02795567-3407828946

    Note